PALESTINA E DINTORNI (di G. Gabellini)
Nel novembre del lontano 1947 il rappresentante dell'Unione Sovietica votò a favore della risoluzione ONU 181, che prevedeva la creazione di una nazione ebraica sul suolo palestinese. All'URSS si unirono Bielorussia, Cecoslovacchia, Ucraina e Polonia, paesi allora legati a doppio filo al governo centrale di Mosca. Al momento della conta i voti di questi cinque paesi si rivelarono determinanti ai fini di approvazione della risoluzione, poiché un loro ipotetico voto contrario o anche una loro astensione avrebbe fatto pendere l'ago della bilancia dalla parte del fronte arabo, che aveva invece espresso compattamente la propria ferrea opposizione a tale progetto.
Stalin, persuaso di aver colto negli ebrei una sorta di inclinazione culturale favorevole al socialismo, oltre all'irriducibile ostilità per gli occupanti britannici, ritenne che appoggiando il progetto finalizzato alla creazione di un'entità sionista nel cuore del Levante si sarebbe sia garantito un ruolo attivo nell'attuazione di quest'ultimo, sia sbarazzato degli ultimi residui imperialistici inglesi, sia ingraziato il favore dei vertici politici che si sarebbero insediati a breve nei palazzi di Tel Aviv. Una plausibile e prevedibile riottosità delle popolazioni arabe interessate dal piano di spartizione avrebbe persino accelerato i progetti di Stalin, che l'avrebbe immediatamente strumentalizzata a dovere e assurta a pretesto per investire l'Armata Rossa dell'inedito ruolo di braccio armato delle Nazioni Unite. In tal modo l'Unione Sovietica avrebbe avuto modo di sfruttare una situazione di indubbio favore per innescare attività di propaganda e per tessere trame diplomatiche volte a controbilanciare l'egemonia atlantica nell'area levantina e mediterranea, che si reggeva sulle quinte colonne di Iran (governato da Reza Pahlavi) e Turchia. Malgrado numerosi uomini di stato israeliani, da David Ben Gurion a Golda Meir, abbiano apertamente riconosciuto la centralità che l'Unione Sovietica assunse tanto nella determinazione della nascita di Israele quanto nel mantenimento della sua stessa sopravvivenza (un quantitativo enorme di armi venne concesso ad Israele tramite la Cecoslovacchia, proprio alla vigilia della guerra del 1948), Tel Aviv si affrancò ben presto dai vincoli che la legavano a Mosca. Dal canto suo, Stalin si rese progressivamente conto del fatto che Israele stava elaborando una fitta rete di alleanze in grado di mettere in relazione sionisti sovietici, israeliani e statunitensi, in una comunanza di interessi transnazionali del tutto dannosi all'Unione Sovietica. Tutto ciò determinò una progressiva disgregazione dei rapporti, che culminò in rottura nei primi mesi del 1953, quando l'ambasciata sovietica di Tel Aviv esplose in seguito di un attentato terroristico nella cui preparazione erano coinvolti alcuni alti vertici militari israeliani. L'affaire israeliano fu probabilmente uno dei più clamorosi errori strategici commessi da Stalin nella sua lunga carriera di statista, un vero e proprio boomerang che sortì effetti diametralmente opposti a quelli che il baffuto georgiano si era prefissato. L'interesse degli USA per Israele, dettato essenzialmente dalla posizione strategica in cui si situa quest'ultimo e dall'oberante peso che è in grado di esercitare la cosiddetta "Israel lobby" sul Congresso e sulle amministrazioni che si succedono di volta in volta, e il conseguente rinsaldamento dell'asse Washington – Tel Aviv ha garantito ai sionisti la copertura militare e politica necessaria per mettere in atto la ben nota prassi, estremamente aggressiva nei confronti del vicinato, e creato un enorme subbuglio tra le popolazioni arabe che ha a sua volta posto in essere uno stato di tensione permanente in tutto il Vicino Oriente. Fin dalla crisi di Suez del 1956, risoltasi con l'effettiva uscita di scena dal quadro imperialistico delle potenze francese e britannica – le cui rispettive mire egemoniche (controllo del canale, tra le altre) furono drasticamente ridimensionate dall'intervento statunitense – si ebbe modo di comprendere l'importanza che gli USA attribuivano ad Israele, che pretese ed ottenne la garanzia che Washington avrebbe in ogni caso sostenuto ogni ricorso, da parte di Tel Aviv, al proprio "diritto di autodifesa" in caso di rinnovo del blocco navale dello stretto di Tiran o di ripresa delle incursioni del gruppo paramilitare palestinese "Fedayn". Da quel momento in poi, gli Stati Uniti hanno profuso sforzi sempre crescenti per garantire pieno appoggio ad Israele, il cui ambiguo e strumentale utilizzo del concetto di "sicurezza" verrà regolarmente, machiavellicamente sfruttato per legittimare ogni genere di sortita. La questione palestinese si iscrisse quindi, alla luce dei fatti, nel novero delle priorità geopolitiche che le amministrazioni statunitensi si sono ripetutamente trovate a gestire. Gli USA hanno infatti appoggiato in pieno le varie fasi dell'imperialismo israeliano, dalla pulizia etnica dei palestinesi (così minuziosamente descritta da Ilan Pappe, studioso israeliano aderente alla corrente revisionista dei "nuovi storici") all'espansionismo coloniale, che raggiunse il proprio apice in corrispondenza del 5 giugno 1967, giorno in cui scoppiò la "Guerra dei Sei Giorni". Si trattò di una guerra comunemente, e altrettanto erroneamente e disonestamente presentata da molti storici sionisti come difensiva, laddove fu Israele a mettere in atto una serie ripetuta di provocazioni in modo da stimolare gli sprovveduti paesi arabi circostanti – Siria ed Egitto, alleati dell'Unione Sovietica – ad entrare in un conflitto dal quale non avrebbero potuto far altro che uscire con le ossa rotte e con centinaia di chilometri di territorio occupato dall'esercito israeliano. Per tutto il resto della "Guerra Fredda" l'asse Washington – Tel Aviv non ha subito alcuna incrinatura, come del resto è normale che accada all'interno di un assetto geopolitico bipolare, in cui di regola la rigidità dei blocchi fa si che le alleanze rimangano stabili e permanenti, le minacce gravi ma prevedibili, e l'ONU, posta tra due fuochi di pressoché eguale potenza, inefficace e quindi innocua. Ciò ha fatto si che il quarantennale "processo di pace" arbitrato dagli USA non abbia fatto altro che aggravare le condizioni di vita dei palestinesi e garantire ad Israele quell'immunità necessaria per fare in modo che si muovesse a proprio piacimento e senza intralci in quel particolare, complesso scenario. La disgregazione dell'Unione Sovietica e l'instaurazione di un ordine mondiale unipolare e monocentrico ha portato poi gli USA ad invischiarsi in tre guerre distinte (Iraq, Afghanistan, Iraq 2) all'interno del Vicino Oriente, fedelmente ad una strategia volta a frammentare l'intera area in zone divise da linee di faglia che ne avrebbero teoricamente dovuto seguire le composizioni/divisioni etniche e confessionali. Una geopolitica del caos finalizzata a creare una costellazione di stati cuscinetto, che vanno dall'Africa mediterranea all'Asia centrale, attorno alla rinascente potenza russa, governata da un ambizioso, imperturbabile e lungimirante stratega come Vladimir Putin. In ottemperanza a questa strategia, i palestinesi si sarebbero dovuti accontentare di un angusto "bantustan" contiguo ad Israele, sprovvisto di acqua potabile e nel quale non avrebbero potuto godere della propria piena sovranità. Una prospettiva che lo screditato Abu Mazen, che parla a stento per se stesso, è parso disposto ad accettare, nel contesto del grottesco "dialogo", sponsorizzato
da Barack Obama, con Benyamin Netanyahu. Due popoli per due stati dunque, in cui i palestinesi espulsi dalla Cisgiordania sarebbero dovuti confluire in massa in un territorio minuscolo e poverissimo, mentre gli Israeliani si sarebbero trovati ad inglobare gran parte dei territori ricchi di risorse occupati nel 1967. Hamas, legittima rappresentante della popolazione palestinese stanziata lungo la martoriata striscia di Gaza, non si è piegata a queste condizioni, e continua a rivendicare il diritto alla creazione di una Palestina fedele al piano di spartizione approvato dall'ONU. Anche per isolare definitivamente Hamas, Israele ha appoggiato (e forse qualcosa in più) incondizionatamente ed entusiasticamente l'aggressione all'Iraq del 2003, in modo da abbattere il più fiero sostenitore della resistenza palestinese. Tuttavia l'eredità di Saddam Hussein è stata prontamente raccolta dal fronte sciita, incarnato da Iran, Siria e dal potente movimento libanese di Hezbollah, cosa che, accompagnandosi al lento ma costante declino degli USA e alla parallela ascesa di potenze quali Cina e, ovviamente, Russia, hanno costretto Israele a placare le proprie ambizioni e a guardarsi intorno alla ricerca di nuove alleanze. Dal canto suo, la Turchia, altra potenza emergente, ha preso la truce incursione israeliana di fine dicembre 2008 meglio nota come "Piombo Fuso" a pretesto per rivedere radicalmente la propria posizione nell'area. Il primo ministro Recep Erdogan, coadiuvato dall'abilissimo ministro degli esteri Ahmet Davutoglu, ha infatti esecrato pubblicamente l'operazione, scavando un solco reso poi molto più profondo in occasione dell'aggressione israeliana alla "Freedom Flotilla", quando giunse a pretendere indiscutibilmente le scuse da Netanyahu, pena la rottura dei rapporti diplomatici. In realtà la Turchia sta portando avanti una politica estera fortemente disinteressata nei confronti dell'Europa e dello storico alleato statunitense; seppellendo l'ascia di guerra con i paesi arabi circostanti e con lo storico nemico russo, Erdogan si è posto nelle condizioni di far leva sulla propria posizione geografica per fungere da crocevia di numerosi progetti (come il "South Stream") di chiara vocazione eurasiatica. Essendo i rapporti di buon vicinato fondamentali per propugnare una politica di così ampio respiro, la Turchia ha iniziato a guardare a Israele come una minaccia in grado, con la sua aggressività, di minare tale pacifica convivenza. Di qui, la scelta d guardare ad est, verso Russia, Mongolia, Cina ed Iran, e verso sud – ovest, in direzione dei paesi emergenti dell'America indiolatina. E sono stati proprio numerosi paesi provenienti da quell'area del mondo – ovvero Venezuela, Cuba, Costa Rica, Nicaragua, Uruguay, Argentina, Ecuador, Bolivia e Brasile – i primi a riconoscere lo stato palestinese entro i confini stabiliti nel 1967, presumibilmente scocciati dalle continue e reiterate ambiguità di Netanyahu – che accetta di sedere al tavolo delle trattative rifiutando di in partenza di rispondere al prerequisito minimo, che è quello di interrompere la costruzione degli insediamenti nei territori occupati illegalmente – e volenterosi di far sentire alta la propria voce. Agli indiolatini si è poi recentemente aggiunta la Russia, che però si è limitata, per bocca del presidente Dmitri Medvedev, a riconoscere ai palestinesi il diritto di avere uno proprio stato con capitale Gerusalemme Est. La Russia sta quindi reinserendosi nel Levante in maniera opposta a quanto fece Stalin, ovvero tendendo una mano ai palestinesi, ma la formula con cui tale apertura è stata resa nota rinvia ad un più serio problema di fondo. Riconoscendo legittimità politica ad un futuro stato palestinese senza alludere ad alcuna frontiera entro cui quest'ultimo dovrebbe nascere, Mosca potrebbe, di riflesso, avallare il progetto dei "due stati per due popoli" sopra descritto, sulla falsariga dei neoconservatori americani. Tuttavia, la politica multidirezionale propugnata in questi anni da Vladimir Putin conferisce assai poca credibilità a questa ipotesi. Anche in virtù della fitta rete di alleanze tessute dal Cremlino è assai improbabile che Putin e Medvedev scelgano di voltare le spalle a paesi con cui è in atto una efficace e benefica distensione dei rapporti, come Iran e Turchia, per assecondare il bieco imperialismo sionista. Il fatto stesso che la Russia abbia ricevuto Khaled Mashaal, uno dei vertici di Hamas, con gli onori normalmente riservati ai capi di stato, la dice lunga sullo spirito che anima questo riconoscimento. Dal canto suo, Israele non nasconde le proprie preoccupazioni, conscio del fatto che la mossa della Russia potrebbe ipoteticamente fungere da esempio che molti paesi, in una sorta di reazione a catena, potrebbero repentinamente decidersi a emulare. E' probabile che Israele si deciderà, volente o nolente (almeno nel lungo termine), a uscire dalla campana di vetro in cui si è autosegregato da qualche decennio per calarsi definitivamente nella realtà, cosa che porterà i suoi vertici politici a rinunciare a diverse pretese, come quella di mantenere il carattere ebraico della popolazione o di "bantustanizzare" i palestinesi in aree non molto dissimili dalle riserve in cui gli yankees rinchiusero le popolazioni autoctone indiane. La creazione di un unico stato interconfessionale e paritario che garantisse una pacifica convivenza tra arabi ed ebrei pare l'unica via sensata, anche se difficilmente percorribile. Vedremo se le potenze emergenti che solo da pochi anni stanno intravedendo le luci della ribalta sapranno far prevalere, con il bastone o con la carota, lo spirito di solidarietà sulle rivalità intestine, e gettare le fondamenta per risolvere una questione tanto spinosa come quella palestinese, dei cui numerosi fallimenti sono tutte, o quasi, corresponsabili (seppur in misure diverse).