PASOLINI e il ‘68; e altro..
PASOLINI E IL ’68; E POI ALTRO ANCORA, di GLG
<<<Perché la massa degli studenti “dissenzienti” (come essi amano definirsi con un termine stupido, ovvio e terroristico) è la massa dei giovani del neo-capitalismo. Questi “dissenzienti” vogliono fare le riforme in un giorno anziché in un decennio, e vogliono che siano mille anziché una. Questi nobilissimi Pierini non vogliono accettare pedissequamente il sistema, pretendono di comandarlo. E questo cosa significa? Significa che la borghesia si schiera nelle barricate contro se stessa, che i “figli di papà” si rivoltano contro i “papà”. La meta degli studenti non è più la Rivoluzione ma la Guerra Civile. Ma, ripeto, la Guerra Civile è una guerra santa che la borghesia combatte contro se stessa.>>> [Pasolini in un dibattito – tenuto il 16-6-1968, con Aiello, Foa, Petruccioli e due delegati del Movimento studentesco di Roma – intorno alla sua poesia: “Vi odio cari studenti”].
Sono sempre stato un ammiratore di Pasolini; a dire il vero più per i suoi film che per i romanzi sui “ragazzi di vita”. “Accattone” mi piacque molto; e così pure “Il Vangelo secondo Matteo” e “Uccellacci e uccellini”. Non parliamo dei due “brevi”: “La ricotta” e “Che cosa sono le nuvole”; due autentici gioiellini. Non fui completamente d’accordo con lui nel ’68 più che altro per le sue “debolezze” (diciamo così) verso un non sempre ben inteso “senso proletario”. Per questo motivo, mi parve considerasse con eccessiva benevolenza i poliziotti, perché provenienti (non proprio tutti a mio avviso) dal bracciantato meridionale. Meno in disaccordo ero invece sul giudizio relativo agli studenti, molti dei quali (anche in tal caso, andavano però fatte le debite eccezioni) erano in effetti figli di appartenenti ai ceti medi. In quei tempi sifaceva riferimento alla “media e piccola borghesia”; vi eranotuttavia anche, in discreto numero, sessantottardi dell’“alta borghesia”.
Indubbiamente, se ci si ricorda due eventi di forte turbolenza, entrambi avvenuti nel ’68, se ne possono trarre conclusioni significative. Intanto gli scontri a Valle Giulia tra studenti e polizia(1° marzo 1968), che segnano l’inizio del “fatidico” movimento studentesco in Italia. Fra gli studenti “rivoltosi” di quel giorno si trovano personaggi ben noti (si guardi in Wikipedia), chesappiamo bene dove finirono poi dal punto di vista politico e ideologico. Ci furono oltre cento agenti feriti e oltre quattrocentotra gli studenti; però, se non ricordo male, nessuno in modo grave e in pericolo di vita. Se adesso andiamo ai fatti di Avola (2 dicembre dello stesso anno), questi riguardarono invecesoprattutto il bracciantato della zona. La polizia fu molto più dura e violenta; vi furono due morti e alcuni feriti gravi. Pur ricordando quanto accadde alla fine di quell’anno alla “Bussola” di Focette di Marina di Pietrasanta (dove venne ferito e rimase paralizzato uno studente, Ceccanti), oltre ad altri accadimenti violenti negli anni immediatamente successivi, credo si possa comunque ritenere la repressione poliziesca più dura nei confronti dei lavoratori rispetto agli studenti (pensiamo anche al cosiddetto “autunno caldo” del ’69, con vari sommovimenti operai).
Non credo sia stata ancora stilata una storia adeguata dei fatti di quei tempi e dei successivi anni ’70, detti di “piombo”, in cui il cosiddetto “terrorismo rosso” fu enfatizzato e spesso coprì – come nel “caso Moro”, falsamente attribuito ancor oggi alle BR, che si assunsero peraltro la responsabilità totale di tale evento, organizzato invece da altre forze (anche se ci sono molti sospetti e tanta confusione) – il nascosto operare di vari gruppi politici a livello nazionale e internazionale. In ogni caso, “rivedendo” gli accadimenti di allora, si ha la sensazione che i “padri”, pur inconsciamente e certo irritati per il comportamento dei loro “figli” (gli studenti “rivoluzionari del tipo sessantottardo”), siano stati comunque molto meno violenti nei loro confronti piuttosto che verso i veri strati popolari d’origine operaia e contadina. E alla fine, non a caso, lo sterile e vano motto “padroni e borghesi ancora pochi mesi” si trasformò nella semplice successione di questi “figli” ai “padri”, senza troppo gravi danni nei confronti di questi ultimi, solo messi da parte sul piano dell’ammodernamento di certi costumi, abitudini e comportamenti (in specie sessuali), che del resto hanno seguito quasi sempre l’andamento già verificatosi da molti decenni nel paese predominante “occidentale”, gli Stati Uniti. Gli interessi fondamentali delle classi dominanti sono restati intatti; semplicemente – e non ce ne siamo resi conto perché si parla sempre di capitalismo senza specificazioni storiche ormai indispensabili – si è passati da un capitalismo, ancora incrostato dall’eredità di quello “borghese” (classicamente analizzato da Marx ne “Il Capitale”), al capitalismo “dei funzionari del capitale” (di stile “manageriale”, ma con ulteriori qualificazioni su cui qui sorvolo).
Questo fatto, all’epoca, non era per nulla chiaro (non lo è nemmeno adesso per la maggior parte dei commentatori). E’ quindi plausibile che Pasolini non ne avesse coscienza; egli intuì solo che questi “rivoluzionari”, violenti ma “fraudolenti”, volevano in definitiva semplicemente sostituire i “padri”; in certi casi, ma in fondo rari, anche sotterrarli (come accade a volte anche nelle singole famiglie), ma non per dar vita ad una società in cui fosse abbattuta ogni forma capitalistica. E non a caso, dal ’68 è iniziato quel degrado culturale che ha solo condotto infine a enfatizzare – in modo abnorme e anche aberrante – una certa mentalità, che va senz’altro accettata ma non nelle forme grossolane degli attuali “modernizzatori dei costumi”, quelli che straparlano dei “diritti civili” in merito al femminismo, all’omosessualità, all’integrazione dei “diversi” e via dicendo. Non si cerca affatto una vera eguaglianza, ma invece uno strapotere di quelli che prima erano messi in stato di minorità;quest’ultima va senz’altro combattuta e mutata, sia chiaro, ma non certo per passare sul versante opposto. Il capitalismo resta in ogni caso ben solido: nelle sue forme “moderne”, appunto “all’americana”. Queste sono state però talmente esasperate che oggi, perfino oltre atlantico, si nota una frattura tra i diversi settori della “modernità capitalistica”, ormai non più borghese da lunga pezza.
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Vi è però un’affermazione di Pasolini su cui desidero soffermarmi poiché la feci anch’io a suo tempo parlando della Resistenza. Non ricordavo che l’avesse sostenuta anche lui riguardo al ’68. E’ la differenza tra guerra civile e rivoluzione. I sessantottardi si sono sciacquati la bocca ogni due minuti con il secondo termine. In realtà, di rivoluzione non si può proprioparlare; il 95% di “quei ragazzi” prese il posto – nelle imprese, negli apparati di Stato e soprattutto nei media – dei loro “padri”; anzi il più delle volte li affiancò, sbracandosi non per trenta ma per dieci “denari” (e anche meno). Tuttavia, Pasolini pensò si trattasse almeno di una guerra civile; no, il sedicente “terrorismo rosso” fu strumento di ben altre forze in campo e fu poi“sconfitto”, cioè abbandonato una volta che era servito allo scopodei suoi nascosti organizzatori (e profittatori). Alla fine, il movimento del ’68 (o, detto meglio, quello iniziato in quegli annicon particolare virulenza e poi molto degenerato) ha soltanto “modernizzato” certi costumi e modi di vita, più o meno sulla falsariga di quelli statunitensi. E i “successori” di quei primi sessantottardi dimostrano di essere soltanto dei disgregatori di ogni minimo “buon vivere” sociale.
Parliamo invece più seriamente della Resistenza per individuare la differenza tra rivoluzione e guerra civile, poiché quel fenomeno degli anni 1943-45 (non soltanto in Italia) fu in effetti una guerra civile. Lo stesso Cossiga riconobbe che la stragrande maggioranza dei resistenti (di quelli reali) fu nel nostro paese di parte comunista. E i comunisti si battevano per una vera rivoluzione. Tuttavia, fu impossibile realizzarla per la presenza degli Alleati (e non dei sovietici) sul nostro territorio. Ritengo che sia stata una scelta giusta quella del Pci togliattiano; anche se non avrei continuamente ricordato l’esempio di Markos in Grecia. Questi vinse le sue battaglie contro gli avversari “filo-occidentali” fino al 1947, quando la Jugoslavia ruppe con il Cominform e si schierò con i “paesi non allineati”, ma tutto sommato dimostrandosi piuttosto “morbida” verso “ovest”. In ogni caso, fu a quel punto difficile rifornire di aiuti i comunisti greci e questo portò nel 1949 (non alla fine della guerra come da noi) alla vittoria delle forze legate al “campo atlantico”.
La guerra civile, per quanto dura e aspra sia (si pensi a quella terribile tra unionisti e confederati negli Usa nel 1861-65) conduce ad un mutamento delle classi dominanti e dei loro organismi e apparati politici, amministrativi, ecc. Si tratta, tuttavia, di un mutamento per molti versi interno ad una classe dominante – con differenziazioni certo notevoli tra le diverse sue parti, altrimenti si condurrebbe la semplice battaglia elettorale, questa pantomima denominata “democrazia” e “governo del popolo” – senza però giungere ad un completo ribaltamento delle strutture sociali di dominazione/subordinazione; gli schiavi neri divennero operai salariati per l’industria, che si diffuse pure nel sud degli Stati Uniti (in particolare con la seconda rivoluzione industriale e l’importanza assunta dai giacimenti petroliferi del Texas e altri Stati dell’Unione).
La nostra Resistenza, condotta “in prima linea” dai comparti comunisti, voleva fare “come in Russia”, cioè concretizzare la rivoluzione pensata quale “rivoluzione proletaria” e tesa alla “costruzione del socialismo”, con l’abbattimento della borghesia capitalistica. Non scordiamoci che l’errore capitale del fascismo (e anche in fondo del nazismo) – malgrado l’“orrore” della campagne razziali, che poco significano dal punto di vista politico; i coloni giunti soprattutto dall’Europa hanno massacrato e azzerato del tutto i nativi originari del nord America senza che nessuno abbia mai condannato ed esecrato tale eccidio senza riserva alcuna – fu il compromesso con il capitalismo “borghese”, già in lento decadimento a partire dalla grande depressione 1873-95 (con appunto l’inizio della seconda rivoluzione industriale), superato decisamente a partire dalla prima guerra mondiale, ma non ancora seppellito da quello “manageriale” statunitense, avvenimento completatosi con la seconda guerra mondiale. Oggi possiamo dire che in Urss (e negli altri paesi che seguirono dopo il 1945 una strada per certi versi simile) non c’è stata “costruzione del socialismo”; tuttavia, nonostante la presenza odierna di forme imprenditoriali e mercantili che sembrano assomigliare a quelle del “campo occidentale”, si tratta di formazioni sociali differenti dalle nostre. Purtroppo, tali società non sono per nulla studiate e approfondite; le tendenze politico-ideologiche avversarie del comunismo riescono solo a dire, alternativamente, che sono ancora comuniste o invece che si sono arrese allo sviluppo capitalistico, mentre i rimasugli “comunisti”, altrettanto privi di qualsiasi barlume di pensiero critico, immaginano che si tratti tutto sommato di nuove vie al socialismo.
In ogni caso, tornando alla Resistenza italiana, essa avrebbe voluto essere una rivoluzione e fu invece soltanto una guerra civile. Quest’ultima, malgrado i decisi mutamenti che spessoapporta (ad esempio, l’abolizione dello schiavismo e il passaggio al lavoro salariato negli Usa dopo lo scontro Nord-Sud, l’eliminazione della competizione elettorale e la creazione dinuovi apparati statali detti “dittatoriali” in certi paesi pur semprecapitalisti), non rovescia affatto, come intendeva invece fare la “Rivoluzione d’ottobre” (e le altre che seguirono più tardi), il potere di quei ceti dominanti di tipologia grosso modo capitalistica assegnandolo, almeno nelle intenzioni, ai ceti proletari pur rappresentati dalla loro sedicente “avanguardia”, il partito comunista.
Per quanto non sia avvenuto nel campo detto “socialista” quel preteso rovesciamento del predominio di classe (appunto, dalla “borghesia”, ormai in realtà già esauritasi, al “proletariato”), di cuisi è dibattuto per gran parte del ‘900 – denominato da qualcuno “secolo breve” perché lo pensava veramente come un periodo caratterizzato dalla rivoluzione delle classi “lavoratrici” contro il capitale (una illusione catastrofica) – credo si possa continuare a definire rivoluzioni i grandi sommovimenti verificatisi soprattutto in Russia durante la prima guerra mondiale e poi in Cina in seguito alla seconda guerra mondiale. Si mediti pure su tale fatto: lo scontro detto “di classe”, in assenza di eventi di simile portata, non avrebbe mai prodotto quei risultati così rilevanti; e, guarda caso, oggi le vere potenze che danno vita al multipolarismo in contrasto con gli Usa sono Russia e Cina. Senza dubbio, lo ripeto, bisognerà studiare molto di più simili esperienze rivoluzionarieper afferrare a quale tipo di formazioni sociali (lascerei perdere il semplice riferimento al modo di produzione, che era invece il tema centrale dell’analisi marxiana strettamente intesa) esse hanno dato vita.
Quanto è accaduto in Europa (anche nella parte che fu, per un periodo abbastanza lungo, subordinata all’Urss) lo definirei invece“guerra civile”; con trasformazioni senza dubbio di notevole portata, ma non tali da far pensare che si sia in una formazione non più capitalistica. Non dimentichiamo però mai le non indifferenti diversità del capitalismo borghese europeo rispetto aquello manageriale Usa, che ormai ha prevalso da lunga pezza. E ciò implica la necessità di un sostanziale mutamento teorico del paradigma che fu di Marx – la proprietà dei mezzi di produzione come caratteristica fondamentale delle classi dominanti – per andare verso altre formulazioni; una di queste sto cercando di elaborarla da almeno vent’anni mediante la messa in primo piano del “conflitto strategico”, che è però solo un primo tentativo, e certo imperfetto, di superare l’impasse marxista senza ricaderenelle più evidenti mistificazioni (e banalizzazioni) di altre “dottrine” sociali, più invecchiate e superate dello stesso marxismo.
Mi sono evidentemente lasciato andare ben oltre le considerazioni di Pasolini, ma non vi è dubbio che quelle “intuizioni” (non scordiamoci che è passato un mezzo secolo da allora; e tanti interpreti, filo o anti-68, stanno ancora a discutere animatamente di questioni ben più arretrate) sono da prendere in considerazione; e, lo ribadisco, in particolare quella riguardante lanetta distinzione tra guerra civile e rivoluzione. Facciamone tesoro. Si avvicinano tempi (non fra pochi anni, sto parlando in termini di fasi storiche), in cui ci si dovrà accapigliare nuovamente, e senza mezzi termini né avvilenti compromessi: “o noi o voi”, la storia umana non cambia se non nelle forme di combattimento e nelle nuove “armi” a disposizione.