PASTORALE AMERIKANA

Incredibile. Non c'è aggettivo più adatto a qualificare la nutrita masnada americanista; quella che, arrogante e isterica, scatta prontamente sull'attenti ogni qualvolta si presentino critiche o semplici divergenze nei confronti dell'ideologia a stelle e strisce. Caotica e disordinata, variegata e trasversale, essa si ritrova puntualmente, come d'incanto, a compattarsi repentinamente nella strenua difesa del più forte. Un'orda immensa e tuttavia mai sazia di nuovi adepti che recluta tra le proprie fila, con impressionante regolarità, dal serbatoio inesauribile di intellighenzia votata alla servitù, che lavora, instancabile e stakanovista, alla massiccia e capillare opera di riconversione dei fatti secondo i tranquillizzanti canoni imposti dal Verbo "politicamente corretto", in grado di capovolgere dialetticamente la realtà con un'efficienza e una funzionalità tale da far impallidire i successi maturati dal "Grande Fratello" di orwelliana memoria. Un nuovo "Ministero della Verità", che funge da cassa di risonanza a ogni proclamazione di superiorità, dimostrazione di forza e rivendicazione messianica di cui l'impero presume di aver più e più volte dato prova al "resto del mondo" nei decenni passati. L'ultima prova tangibile dell'infimo livello di servilismo raggiunto dal "clero" mediatico in questione, è stata fornita dagli assordanti "osanna" che hanno seguito l'annuncio unilaterale dell'avvenuta uccisione di Osama Bin Laden, e dal plauso acritico con cui è stato accompagnato l'esilarante commento di Barack Obama, secondo il quale il mondo sarebbe ora "Un posto più sicuro". Chi reclama qualche prova a supporto della versione obamiana dei fatti non pare meritare ascolto, mentre coloro i quali si azzardano ad avanzare la tesi, pur suffragata da numerosi e inoppugnabili argomentazioni, secondo cui la responsabilità dell'instabilità mondiale sarebbe da ricercare nei dintorni di Washington molto più che in qualche caverna afghana o nei sotterranei di una cittadina stanziata nei dintorni di Islamabad, diventa istantaneamente iscrivibile al libro nero dell'antiamericanismo pregiudiziale e tacciabile di nutrire "larvate" affinità totalitarie. Niente di nuovo sotto il sole. E' una prassi costantemente applicata dalle menti "più acute" e dai doppipetti "più raffinati" al mondo quella di affibbiare agli interlocutori cui non si riesce a controbattere sul terreno della logica l'etichetta "pregiudiziale", di modo da eludere "fastidiosi" e imbarazzanti grattacapi. Spopola ovunque, infatti, un culto trasversale verso un'immagine irreale di un'America fatta forzatamente corrispondere a un giardino dell'Eden, in cui i cadaveri ambulanti di "destra" e "sinistra" vedono il coronamento di tutti i propri aneliti ideali di gioventù. Per gli americanisti di "destra" gli Stati Uniti sono il paese dominato dal binomio "law and order", il cui ordine sociale incardinato sugli oltranzisti dogmi liberali promossi a suo tempo da Hayek mette in luce le differenze qualitative tra gli uomini favorendo la meritocrazia. Dove l'immigrazione è controllata e regolarizzata, la polizia rispettata, il portafogli del contribuente poco intaccato e l'innata, umanissima pulsione prometeica all'innovazione tecnologica trova piena soddisfazione. Dove il nazionalismo ha piena ragion d'essere e le guerre possono essere sostenute a viva voce senza ipocrite supervisioni pacifiste. Il trionfo della popperiana "società aperta" del libero mercato in grado di garantire la piena realizzazione individuale, che traccia giocoforza linee di amicizia che demarcano manicheamente da una parte i "buoni" e dall'altra i "cattivi". Una "destra" che ha oramai smarrito molte delle linee guida che l'avevano contraddistinta in passato, talmente miope da non accorgersi della criminalità dilagante, delle spaventose sperequazioni che separano i ricchi dai poveri, delle divisioni interetniche, dei mille integralismi retrogradi che attanagliano gli USA. E' probabile che di miopia non si tratti, in realtà, quanto di trasformismo, della tendenza opportunistica a saltare sul carro del più forte. Esiste, di converso, un americanismo di "sinistra", coltivato da una folta schiera di orfani del comunismo che hanno semplicemente trasferito il proprio ottuso storicismo da un polo all'altro, quello sopravvissuto alla Guerra Fredda. Essi sono rimasti abbagliati dal culto ipertrofico del progresso che domina l'America, dal progetto utopistico di chiara vocazione internazionalista ideato dal presidente Woodrow Wilson padre dei "quindici punti", dal keynesismo assistenziale che consentì l'uscita dalla crisi del 1929, della valorizzazione della forza lavorativa, dal "melting pot" formato da una variegatissima gamma di etnie e culture che vivrebbero in armonica e felice compenetrazione. Si tratta di una mania che ha attecchito principalmente sugli ex sessantottini, quelli che amavano prendere dagli USA solo ciò che faceva loro comodo per giustificare i propri deliri, buttando tutto il resto. Ne emergeva un quadro assai sfocato, in cui in primo piano giganteggiavano le "Black Panters" e l'opposizione studentesca alla guerra del Vietnam, Malcolm X e Martin Luther King, la "Beat Generation" e i "figli dei fiori", il rock e il jazz, Steinbeck ed Hemingway, Bob Dylan e Jimi Hendrix, Jack Kerouac e Charles Bukowski, l'ascesa della liberazione sessuale a discapito dell'opprimente autoritarismo familiare. Tutto il resto erano particolari di secondo piano; l'endemica aggressività guerrafondaia, gli omicidi eccellenti, il maccathysmo, l'onnipotenza dei grandi gruppi dominanti. A tale riguardo, una diagnosi precisa del malato terminale meglio noto come "sinistra" l'ha compilata Marco Tarchi, secondo il quale "Si è creata l'immagine dell'America di cui, a poco a poco, la sinistra europea ha fatto la sua bandiera, sostituendo, nella famiglia Marx, Groucho a Karl, la Nuova frontiera agli avvizziti Cento fiori, l'humor di Woody Allen alla seriosità dei precedenti testi sacri, la fede nella psicoanalisi a quella nella dittatura del proletariato e giù a seguire in un catalogo sterminato di acquisizioni, fino alle apoteosi veltroniane e alla designazione di Bill Clinton leader e profeta di un Ulivo mondiale". Il che significa che "Destra" e "sinistra" non esistono più da tempo, assorbite entrambe nel calderone equiparante conosciuto universalmente come "pensiero unico".  E significa anche che siamo alla frutta, se quasi più nessuno ha il coraggio di smontare la realtà fittizia che la macchina propagandistica ha costruito attorno agli Stati Uniti, gli stessi che brandiscono la spada dei diritti umani e rinchiudono i "sospettati" (cui riservano i ben noti trattamenti) nelle carceri di Guantanamo e Abu Ghraib, che si ergono a tutori della pace internazionale a suon di guerre, preventive e non, scatenate sui "paesi canaglia" sui quali sono soliti riversare interi arsenali da rinnovare per la gioia delle varie Boeing e Lockheed Martin di turno, che dal 1898 in poi hanno sempre esternato menzogne e architettato clamorose messe in scena per giustificare di fronte ai propri cittadini e al mondo intero le proprie imprese imperiali. Autoaffondamento del Maine, affondamento del Lusitania, attacco a Pearl Harbor, incide
nte del Golfo del Tonkino. Tutti eventi orchestrati o lasciati accadere appositamente e strumentalizzati quali casus belli. Niente di vero sul fronte occidentale, e le cose stanno in questo modo da più di un secolo. Ora si pretende che tutti credano effettivamente all'avvenuta uccisione di Osama Bin Laden in assenza di qualsiasi prova tangibile. Malgrado le non esattamente "immacolate" referenze storiche dell'impero. Si richiede, insomma, un vero atto di fede. Altrimenti si incombe nella scomunica.