PEGGIO DI COSI’ SI VOTA.

Il-bipolarismo-in-240-simboli_h_partb

Quando un Paese non è in grado di esprimere una seria leadership politica e, pertanto, proiettarsi con le sue idee e visioni peculiari in un mondo in costante evoluzione, quando è incapace di programmare il suo avvenire, prossimo e lontano, diventa facile preda degli istinti rapaci degli avvoltoi della finanza e delle bestie sociali più retrive (industriali, economiche, ideologiche), le quali assorbono tutte le energie dello Stato distruggendo le ultime speranze di ripristinare un corso degli eventi più favorevole alla collettività, mentre ci si trova nel bel mezzo di una tempesta sistemica globale.

Queste colonie di saprofiti che si chiamano partiti, sindacati (operai e padronali),  cda di banche arraffatrici e di imprese decotte ed assistite, giornali asserviti, esattori incalliti, burocrati pervertiti, predicatori inviperiti e razzolatori invertiti, si moltiplicano nel tessuto connettivo comunitario divorandolo fino all’osso.

La speculazione, nelle sue diverse forme; lo smantellamento dei circuiti produttivi; gli inutili sperperi del denaro dei contribuenti nei settori di precedenti ondate tecnologiche;  la rincorsa dei modelli astratti nella gestione dei conti pubblici; la mancanza di piani di sviluppo e di rilancio degli investimenti nei comparti trainanti; la demolizione del welfare state; l’assenza di strategie per aggredire i mercati più profittevoli; i tentativi di smembramento delle imprese di punta attraverso svendite mascherate da privatizzazioni (Eni, Finmeccanica, ecc.); la dismissione delle infrastrutture fondamentali; l’andare a rimorchio delle altre grandi potenze nelle missioni militari e nelle scelte geopolitiche; l’adesione acritica alla propaganda mondiale in materia di condivisione dei processi e armonizzazione delle decisioni, salvo ritrovarsi ad asseverare risoluzioni unilaterali preconfezionate da terzi prepotenti; la perdita di privilegi commerciali e il dissolvimento di canali diplomatici preferenziali (si pensi alla Libia, all’Iran e, financo, alla Siria, tutti scenari dove prima di embarghi e conflitti imposti dai nostri partner a primeggiare era lo Stivale); in breve, ognuna di queste deficienze in un presente di profonde trasformazioni, genera decadenza nazionale e sottomissione internazionale.

L’Italia sta morendo per inettitudine propria ed aggressione esterna, ma nel dibattito elettorale, i  partiti e il loro seguito di militanti osservanti, anziché affrontare i temi urgenti di cui sopra, assumendosi le necessarie responsabilità, si lanciano in risse furibonde, come gli ultras alle partite di calcio, riempiendosi di vituperi, che poi sono strameritati per tutti.

Questa tragica situazione si protrae ormai da un ventennio, da quando la precedente classe dirigente, democristiana e socialista, fu spazzata via da un golpe “per procura”, impropriamente chiamato Mani Pulite, con il quale vennero esautorati tali rappresentanti del popolo, eccessivamente disinvolti nel maneggiare il potere politico e, purtuttavia, nient’affatto incompetenti, per far posto agli odierni impresentabili, ovvero alle seconde file di quegli stessi organismi mutati esclusivamente nelle sigle, venute alla ribalta per la falcidiazione del vecchio establishment.

Successivamente all’assalto di magistrati e puritani della legalità (più spaventati dalla caccia alle streghe che sinceri nel pentimento) agli assetti della I Repubblica – gli uni e gli altri accortisi sospettamente “tardi” del presunto letamaio consociativo, al quale dovevano la carriera o nel quale erano cresciuti professionalmente, ed altrettanto abili a rifugiarsi repentinamente nello sciocchezzaio giustizialistico e moralistico corrente, soccorsi, come poi si è saputo, da imboccamenti e spifferate di servizi stranieri – venne annunciata la necessaria rifondazione dell’Italia su basi eticamente trasparenti.

Basta guardarsi in giro per constatare lo sbaglio e l’abbaglio.

Adesso, nonostante la sovrabbondanza di onestà e perbenismo, si depreda più di ieri, si depauperano i cittadini in maniera più famelica, si frega il prossimo senza ritegno, si dilapidano risorse generali per misere ragioni di bottega, si consegnano nelle mani di avidi usurai europei e mondiali le patrie ricchezze, si mettono in saldo i tesori collettivi per un posto da ministro o da inviato speciale alla corte delle cerchie globali, si avviliscono le prospettive autonomistiche del Paese per ottenere l’endorsement forestiero che cresce quanto più si deprime la nostra sovranità statale.

E ci voleva una rivoluzione a suon di monetine al Raphael e di persecuzioni inquisitorie  per arrivare a questo scempio?

La verità è altrove, distante dai luoghi comuni di questi lustri ignobili e mistificanti. Quel colpo di Palazzo che portò a scoperchiare i quarantennali  metodi tangentari, consociativi, cooptativi e lottizzatori applicati alla gestione degli affari di stato, di Dc e Psi, con l’appoggio desistente del PCI, fu il risultato di un mutamento di scenario globale all’indomani della guerra fredda.

L’Italia perdeva il suo ruolo di bastione avanzato nella lotta al comunismo al fianco dell’Occidente americanizzato che così intese sbarazzarsi dei capi e delle correnti eccessivamente compromessi con un passato superato dagli eventi.

Occorreva rivolgersi ad individui ambiziosi e apparentemente meno coinvolti col logoro “regime” demosocialista per riportare la Penisola entro un quadro di rapporti di più largo assoggettamento, politico, economico e culturale.

L’affermazione unipolare degli Usa, l’unica iperpuissance rimasta sulla scena, modificò le relazioni tra questa e i suoi satelliti i quali, per tanto tempo, avevano goduto di una certa tranquillità grazie al fatto di rappresentare una cintura protettiva verso il blocco sovietico.

Dissoltasi l’URSS e allargatisi i confini dell’impero, in assenza di concreti nemici esterni (la minaccia islamica è stata una invenzione delle teste d’uovo Yankees, che ogni tanto sfugge di mano ma che più spesso risolve intricate questioni periferiche),  agli alleati veniva imposto di partecipare ai maggiori sforzi della Casa Bianca per mantenere tale supremazia, senza i benefici e le garanzie antecedenti.

Inoltre, questo predominio assoluto, contrariamente a molte previsioni di Washington, entrerà in crisi in appena un decennio, col riaffacciarsi sulla scacchiera planetaria di nuovi e antichi protagonisti con velleità egemoniche mondiali e regionali: dalla rediviva Russia, alla rinascente Cina, alle altre formazioni minori le quali mirano a divincolarsi territorialmente costituendo influenze più ristrette che, tuttavia, intralciano i programmi delle superpotenze.

In questa tenaglia di fatti, l’Italia, anziché reagire e ricavarsi un posto, ha dato seguito all’apertura dei suoi forzieri, tra traversate sul Britannia (il panfilo di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra che nel 1992 ospitò banchieri, faccendieri, manager delle best company pubbliche e private, uomini dell’alta finanza e delle nostre istituzioni, dove vennero sancite le linee maestre delle privatizzazioni dei gioielli di famiglia), regalie a capitani coraggiosi, disposti al rischio almeno finché lo Stato copre loro le spalle, cessioni a tutto spiano delle infrastrutture strategiche a compatrioti squattrinati o falliti (teste di turco si sarebbero chiamate una volta) risorti grazie a finanziatori occulti di stanza oltre confine e nei vari paradisi fiscali, ecc. ecc.

Questi dovrebbero essere gli argomenti dell’agenda politica ed, invece, ci ritroviamo a dibattere tra le promesse di chi vuole eliminare l’IMU (una tassa che non avrebbe mai dovuto essere introdotta da quanto è iniqua ed ingiusta) pur avendola votata in aula e le lamentele della controparte la quale, invece, la ritiene ineliminabile, soprattutto dopo che è servita a salvare una banca amica. Il livello del dibattito è l’antipasto di quello che accadrà a breve.

Tra i due grossi schieramenti antitetico-polari s’inserisce poi un pulviscolo di  chiacchieroni moderati, di sognatori liberali e di estremisti civici che è meglio perderli che trovarli.

Rinchiusi nelle loro chiese oltranziste fantasticano: chi di creare una perfezione tecnocratica per governare gli italiani con l’assenso di Bruxelles e degli organismi transcontinentali; chi di eliminare lo Stato per lasciar sfogare gli animal spirits imprenditoriali; chi di riportarci ad un ambiente incontaminato, sano di corpo e di principi. I primi sono appena usciti dall’Esecutivo lasciandosi dietro tante macerie ed un mare di prelievi dalle tasche dei connazionali, i secondi sono i medesimi che invocano la libera concorrenza finché ci guadagnano mentre se iniziano a non macinare profitti s’inventano formule del tipo “too big to fail” per socializzare le perdite ed, infine, i terzi, vorrebbero riportarci indietro di secoli, alle comunità auto-sussistenti legate ai cicli stagionali ma senza pagare il dazio dell’arretratezza produttiva e della dipendenza dai capricci climatici di quelle formazioni umane vetuste, blaterando di reti e di energia alternativa in un simile quadro di rapporti sociali rifeudalizzati.

Per il momento, insomma, siamo messi davvero male, e non saranno le urne a liberarci dal marcio dei nostri giorni. L’unico augurio da farsi è che non vada anche peggio di così, ma le speranze sono poche. Peggio di così, infatti, c’è solo il voto.