PER LA FORMULAZIONE DI UNA TEORIA PIU’ GENERALE

gianfranco

PER LA FORMULAZIONE DI UNA TEORIA PIU’ GENERALE

 

Gianfranco La Grassa

 

 

AVVERTENZA

 

Uso reale, realtà, ecc. per indicare ciò che ritengo esistente nel suo senso più vero e oggettivo, indipendentemente dalle scelte umane. Indico invece con “reale”, “realtà”, ecc. – cioè mettendovi le virgolette – ciò che l’essere umano costruisce con il suo pensiero nel tentativo di rappresentare il realmente esistente.

 

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1. Vediamo di chiarire alcuni punti essenziali di una possibile teorizzazione. Intanto è necessario vi sia, come sempre o quasi, un postulato, qualcosa che si ponga quale premessa impossibile a dimostrarsi; nemmeno ve n’è però la necessità poiché il postulato assolve una duplice funzione “pratica”: 1) fornire un punto di partenza per una serie di argomentazioni che dovranno proseguire fra loro concatenate in successione, ognuna delle quali è quindi premessa alla successiva, per cui vi è bisogno di un inizio senza premessa alcuna; 2) esprimere la concezione generale che chi lo pone ha della “realtà” in cui si “sente” immerso (o se la trova, cioè immagina, davanti a sé, ecc.).

Il postulato da cui parto afferma la nostra esistenza e il nostro movimento in una “realtà” situata all’esterno di noi e con cui entriamo in interazione, non essendone però parte costitutiva. Probabilmente non è così, probabilmente lo siamo invece, siamo strettamente intrecciati e connessi alla realtà. Tuttavia, si pensa di esserne all’esterno perché è ben difficile immaginare un altro modo di muoversi e agire che non implichi preliminarmente la semplice interazione con un mondo al di fuori di noi. Quest’ultimo viene da me considerato in continuo squilibrio, come fosse un fluire disordinato, casuale, indistinto, privo di forma definita e di parti costitutive.

Alcuni sono convinti di potersi immergere nel flusso, poiché se ne sentono parte, al massimo sfruttando le sue “onde” come fanno i bravi surfisti, ma quando i flutti non sono troppo vorticosi. Perciò la cosiddetta conoscenza non sarebbe altro che questa immersione nel flusso del reale o il suo percorrerlo aderendo strettamente al suo moto ondoso. Francamente, simile concezione non mi convince. Nemmeno gli animali, penso, sono in grado di attenersi a questo tipo di comportamento; se non altro per il sedicente “istinto di sopravvivenza”. Se ogni individualità, che nel flusso può costituirsi, si sentisse invece solo inserita in esso, fosse convinta di scorrere con esso, quest’ultimo la travolgerebbe, la renderebbe consustanziale a se stesso e quindi la annullerebbe in quanto individualità vivente per se stessa. Chi vive cerca perciò, nei limiti del possibile, di sottrarsi a questa fine.

La cosiddetta ragione rompe ancora più decisamente con questo schema, non ne fa una semplice questione di propria esistenza. Essa spezza il flusso in una serie di segmenti spaziali e temporali e su essi concentra la sua presa. Comincia con uno, ci rimugina sopra, non “lo rispecchia” o “riproduce” semplicemente; si concentra invece sull’analisi di quel segmento e lo sviscera per quanto è nelle sue capacità, potenziate via via da varie strumentazioni. Dopo la prima analisi, la ragione consegna (a se stessa) una data configurazione della “realtà”, che non è più ovviamente un flusso. Il primo risultato – sempre uno schema che stabilizza il flusso immobilizzandolo e dunque snaturandolo – viene sottoposto a correzioni o (supposti) perfezionamenti tramite reiterate ripetizioni del primo processo. Il tutto può avvenire in pochi istanti o in tempi molto lunghi a seconda della “sezione di realtà” in cui ci si trova a così operare. Si giunge comunque ad una rappresentazione, a volte assai semplice e altre volte più complessamente elaborata, tramite la costruzione di quella che definiamo una teoria.

Sia l’immediata rappresentazione, piuttosto elementare e che ci sembra frutto di spontanea osservazione di quanto ci circonda, sia le più elaborate teorie (frutto di varie “andate e ritorni” dal nostro cervello al “reale”) vengono sottoposte alla prova dell’uso pratico per appurare quanto realistiche sono. Si può fallire subito e allora quelle immagini “spontanee” o quelle teorie vengono abbandonate. A volte invece si conseguono determinati successi, della cui parzialità magari non ci accorgiamo subito. Semplici rappresentazioni o complesse teorie vengono allora prese per una effettiva riproduzione nel pensiero di ciò che esiste fuori di noi. Se si è consapevoli della periodica fallacia (e “invecchiamento”) di queste pretese “riproduzioni del reale”, i danni di questa concezione della realtà (quella effettivamente reale e, per me, inconoscibile nei suoi veri aspetti) sono limitati. Tuttavia, molto spesso accade invece che il teorico sia convinto di aver raggiunto ormai la conoscenza dell’assetto fondamentale della realtà, nella sua concreta esistenza.

Nella scienza (in specie in quelle della natura) la consapevolezza della transitorietà d’ogni conoscenza teorica è maggiore. Nelle scienze sociali, spesso una teoria serve di base per creare un movimento di “masse” che possa incidere sullo sviluppo ed eventuale trasformazione (più o meno violenta e subitanea o invece pacifica e graduale) di una data forma di società, che si pensa possedere una ben determinata struttura delle relazioni tra gruppi, struttura da modificare con radicalità o per tappe successive. A questo punto, quella teoria – che dà sempre vita ad apparati organizzativi (tipo i moderni partiti politici) – si trasforma in una immagine assai semplificata del “reale”, da utilizzare per la mobilitazione di massa tramite propaganda e diffusione della stessa. La teoria subisce modificazioni importanti, il pensiero originario viene modificato e adattato alla necessità del trascinamento di raggruppamenti sociali costituiti da individui per lo più del tutto ignari della teoria stessa. Si creano le cosiddette ideologie, nel loro senso di rappresentazioni della realtà semplicemente adatte a sollecitare passioni e adesione dei sentimenti (in particolare di amore od odio) ad esse; non si stimola l’intelligenza “delle cose”, bensì l’accanimento nel voler realizzare i propri desideri, perfino ottundendo la ragione nel momento in cui essa – prendendo atto degli insuccessi che si verificano nel lungo periodo dopo gli eventuali primi successi – potrebbe prendere atto dei limiti ed errori della teoria da cui quell’ideologia deriva ed è sorretta.

Quando infine viene in piena evidenza che quella teoria è sorpassata nelle sue previsioni, che le modificazioni da essa subite per le necessità di suscitare il sentimento e il desiderio di massa l’ha ulteriormente impoverita d’ogni minimo effetto conoscitivo, è troppo tardi. La sconfitta incombe sugli ideologi che hanno trascinato determinati gruppi sociali verso un fallimento, sempre assai severo nel presentare i propri conti agli illusi. E’ quanto è accaduto, per fare un esempio assai chiaro in proposito, al marxismo, che ha progressivamente travisato Marx fino ad ignorarlo abbondantemente, producendo una ideologia con la pretesa di basarsi sui suoi assunti scientifici che, proprio per essere tali, erano passibili di errori e superamenti. Invece quegli assunti sono stati bellamente ignorati, se ne è costruita una imitazione di sostanziale falsità e non si è ammessa alcuna possibilità di errori; e la punizione è giunta. Solo chi si serve di Marx per i propri osceni scopi di mascherato appoggio a coloro che quel pensatore pensava di combattere ha ancora un minimo di credito presso i media controllati appunto da costoro. Mi consento quindi una breve digressione.

 

2. Ho spiegato innumerevoli volte la concezione fondamentale di Marx e sarò quindi sbrigativo. Per lui era fondamentale la produzione in quanto appropriazione e trasformazione di oggetti tratti dalla natura per adattarli alla vita degli uomini; tenendo conto che questi vivono in società e hanno una storia evolutiva a differenza degli altri animali. Esiste quindi una rete di rapporti sociali che muta di fase in fase del processo di trasformazione degli stessi; e i più rilevanti fra tali rapporti verrebbero a stabilirsi, secondo il “nostro”, nei processi della produzione/appropriazione. Di conseguenza, assumerebbero posizione centrale pure i mezzi di questa produzione: in primo luogo la terra, base di ogni possibile attività produttiva, e gli strumenti, via via perfezionati, utilizzati in quest’ultima. La proprietà (potere di disposizione) di tali mezzi era, secondo Marx, decisiva per poter stabilire la forma storicamente determinata dei rapporti sociali di produzione e la loro specifica dinamica di sviluppo e trasformazione.

Arrivati alla società capitalistica e verificatasi la Rivoluzione industriale, chi aveva la proprietà dei mezzi di produzione era, nella maggioranza dei casi, pure in possesso dei saperi necessari alla direzione dei processi produttivi. Ho già spiegato mille volte che la dinamica caratterizzante i rapporti di detta società avrebbe infine condotto – questa era la tesi marxiana – alla formazione del “lavoratore collettivo cooperativo” (dal dirigente della produzione fino all’ultimo dei semplici esecutori) mentre i proprietari dei mezzi produttivi sarebbero divenuti assenteisti, una classe di “quasi signori” (non più feudali ovviamente), abituata a vivere del lavoro altrui grazie alla proprietà in questione. A questo punto si sarebbero già formate le basi essenziali del cosiddetto socialismo. Lo Stato, pensato in definitiva quale strumento della classe proprietaria, sarebbe stato l’ultimo ostacolo da abbattere. E sarebbe così arrivata infine la resa dei conti e l’espropriazione dei proprietari; il potere di disporre dei mezzi produttivi sarebbe passato alla collettività dei produttori (dirigenti ed esecutori), fra loro associati, non certo per un loro ormai irresistibile desiderio di cooperare a scopi comuni, ma per motivi oggettivi, per quella specifica struttura dei rapporti venutasi a creare che esigeva la collaborazione tra i soggetti in relazione; chi si fosse rifiutato di accettare il coordinamento collettivo si sarebbe trovato automaticamente emarginato dalla società senza che nessuno avesse deciso di metterlo in tale situazione.

Questo l’errore previsionale di Marx come da me indicato molte volte. Tuttavia, già i marxisti a lui successivi si erano accorti della mancata formazione del “lavoratore collettivo”, ma non ne hanno mai tratto le logiche e non aggirabili conseguenze, del tutto contrarie a ogni possibilità di intraprendere la “transizione” all’agognata società comunista. E’ soprattutto sui caratteri di questo tipo di società che si è avuto il peggiore travisamento di Marx. Per lui, infatti, una volta arrivati al socialismo (proprio in conseguenza della dinamica specifica dei rapporti capitalistici), si sarebbe prodotto un decisivo salto nello sviluppo sociale, con riflessi precisi sulla produzione: sarebbe finita la costrittiva proprietà dei mezzi produttivi da parte di singoli gruppi di individui (costituenti la “classe” capitalistica), per di più diventati ad un certo punto dei puri parassiti incapaci di dirigere la produzione. Questo salto avrebbe condotto ad una enorme crescita delle forze produttive umane e alla fine di ogni scarsità degli oggetti prodotti e necessari alla vita sociale; “a ciascuno secondo i suoi bisogni” sarebbe diventato il principio guida della nuova società.

Quanto è stato bellamente ignorato dai movimenti comunisti, soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, è che la concezione marxiana non implicava minimamente l’inchinarsi dell’individuo di fronte alla presunta bellezza dei principi di comunità, invece soltanto in grado di opprimere i suoi membri, conculcando l’estrinsecazione della loro personalità. Per Marx, una volta finita ogni costrizione legata alla necessità di procurarsi oggetti scarsi, cioè quando questi sarebbero divenuti disponibili in grandi quantità con un minimo tempo di lavoro, i singoli avrebbero potuto più liberamente dedicarsi a tutto ciò che avvertivano come loro autentico bisogno, inerente appunto alla loro specifica individualità.

E’ logico che la determinazione sociale degli individui non sarebbe venuta meno. Nessuna robinsonata sarebbe mai balzata in testa a Marx. Tuttavia, il processo produttivo era per lui particolarmente costrittivo, anche in termini di necessaria gerarchia delle funzioni svolte. “L’orchestra non suona senza direttore”; e senza una serie di gradini posti a livelli diversi, che condizionano la vita d’ogni uomo. Resisi assai meno rigidi gli obblighi di questa organizzazione produttiva, a causa dell’altissimo sviluppo raggiunto dalla produttività umana e con la possibilità di attingere con facilità a tutto ciò che era necessario per soddisfare i propri bisogni, ogni individuo avrebbe avuto ampi margini di libera espressione delle proprie più spiccate prerogative. E avrebbe anche potuto – se avesse voluto, se fosse stato decisivo per le sue aspettative e aspirazioni – autonomizzarsi, pur parzialmente, dal contesto sociale per soddisfare le sue intime preferenze. Altro che crescente dipendenza degli individui rispetto alla comunità d’appartenenza. Che senso avrebbe avuto la possibilità di ogni individuo di impossessarsi dei beni secondo i suoi bisogni, se poi avesse dovuto sottostare pienamente alle imposizioni di date comunità, che sono sempre zeppe di regole mortificanti per le sue attese e intenzioni?

Lungi da me star qui a disquisire se è meglio inseguire le proprie predisposizioni o invece dedicarsi di più agli altri e alla vita in comunione con loro. E nemmeno mi diletto con previsioni su come evolverà lo “spirito” umano nel lontano futuro: fare sempre più i propri comodi o invece avvertire in modo crescente il calore della comunanza con altri? Il lungo periodo, la visione dei secoli futuri, mi sono ignoti. Volevo solo ricordare che il comunismo di cui parlava Marx – e sulla base di una previsione errata in merito al formarsi dell’insieme dei produttori associati e al conseguente enorme sviluppo delle forze produttive – non ha nulla a che vedere con i presunti desideri di comunità. In realtà, egli non sosteneva nulla di diametralmente opposto a ciò che vagheggiano i liberali. Solo contestava la loro visione dei processi sociali, basata su una formale eguaglianza nel libero scambio delle merci, occultando l’appropriazione del pluslavoro (come plusvalore) dei lavoratori salariati quale conseguenza della proprietà dei mezzi di produzione da parte di una classe sociale sempre meno numerosa, ecc.

Tutto ciò avrebbe frenato, secondo lui, lo sviluppo delle forze produttive, limitando inoltre i suoi vantaggi a favore di detta classe di privilegiati. Con il comunismo – cresciuto nelle viscere del capitalismo – si sarebbe invece raggiunto un individualismo assai più ricco di prospettive e di cui tutti avrebbero goduto; anche se non nella stessa misura, ma soltanto per la diversità dei bisogni individuali, non invece per quella derivata dalla proprietà o meno dei mezzi produttivi. Ripeto il principio ordinatore del comunismo di Marx: “a ciascuno [cioè a ogni singolo individuo] secondo i suoi bisogni”. Non invece: ognuno deve saper sacrificare la propria individualità a favore della comunità. Finché ci sarà chi predica questo sacrificio ben poco amato dalla stragrande maggioranza degli umani, i liberali avranno partita vinta.

 

3. Finita la digressione, riprendiamo il discorso sulla teoria che vorrebbe fornirci la conoscenza del mondo reale in cui viviamo; sia nei suoi aspetti naturali sia in quelli sociali. Abbiamo già per sommi capi indicato nel primo paragrafo come si giunge alla formulazione di una teoria, pur magari partendo inizialmente da una rappresentazione più immediata e a volte perfino intuitiva. In ogni caso, sia tale rappresentazione in genere assai semplice e grezza, sia la teoria assai meglio elaborata, giungono a fissare quello che potremmo definire un campo di stabilità. In definitiva, si costruisce una porzione della “realtà”, il cui movimento, implicante mutamento, è pensato sulla base del supposto modificarsi spaziale di date variabili, elementi strutturanti quel campo secondo una “legge scoperta” mediante l’osservazione della “realtà” stessa con l’uso di mezzi quali sono, inizialmente, i nostri sensi, potenziati poi via via, nel corso di una lunga storia, da strumenti sempre più complessi e raffinati.

Se seguiamo con l’occhio una pallina che rotola su una superficie piana, crediamo di osservare un movimento continuo; in realtà, la stessa nostra vista lo dispiega cinematicamente sia pure per istanti di durata piccolissima e della cui separatezza, dall’uno all’altro, non ci accorgiamo. Anche con i nostri sensi quindi, non meno che con il nostro pensiero, non cogliamo la realtà nel suo flusso continuo, bensì la “realtà” così come l’abbiamo stabilizzata, pur nel suo movimento e modificazione, per i nostri scopi pratici. Pensate un po’ quando si tenta di ricostruire, tramite più testimonianze, il succedersi dei vari fenomeni verificatisi durante un incidente automobilistico. Non dico che queste testimonianze siano sempre contrastanti (spesso lo sono), ma come minimo ben diversificate fra loro. Questo avviene per ogni evento della nostra vita. Noi vediamo, udiamo, ecc. secondo una cinematica, cioè per minimi istanti di ogni dato evento osservato posti in successione; è quindi facile che l’evento presenti differenze da individuo a individuo e da momento a momento.

Figuriamoci quando facciamo intervenire il pensiero di tipo teorico che, come già detto, compie riflessioni di primo, secondo, terzo, ecc. ordine per avvicinarsi a quella che si crede essere una sempre più approssimata riproduzione del reale mentre è invece, quando va bene, una sua costruzione “realistica”. E quando possiamo dire che lo è? Quando tale costruzione (di quello che ho definito campo di stabilità utile alla nostra pratica) ci fa conseguire, e per un determinato periodo di tempo (più o meno lungo), qualche successo. Certamente, quando interpretiamo un dato fatto storico, può sembrare assurdo parlare di successo. Il passato è ormai passato. Tuttavia, la sua interpretazione serve in definitiva nel presente per indirizzare certi ordini di pensiero, che conducono a pratiche varie. Se oggi ritengo che vada rivista quanto meno la storia degli ultimi due secoli (e in particolare quella del ‘900) è perché avverto una sensazione di definitivo isterilirsi di date valutazioni storiche, che ci indirizzano – sempre a mio avviso – assai male per il futuro. In definitiva, ritengo che pure queste interpretazioni difettino ormai pressoché totalmente di realismo.

Ho parlato di campo di stabilità – pur se di questo viene supposto un movimento specifico – poiché si tratta del modo di assegnare un ordine (in genere strutturato in base ad una serie di variabili fra loro interrelate) a quella sezione del reale da noi sottoposto ad attenzione. Tale ordine appare più o meno precisamente delineato a seconda del linguaggio usato per esporlo. Spesso si usa il più povero, quello matematico, perché allora la precisione diventa massima. Quello più ricco credo sia affidato all’arte e letteratura. Sono qui possibili svariate interpretazioni; e non si giunge mai, mi sembra, ad essere esaustivi e… definitivi nel fornire questa, e non quella, interpretazione. E’ giusto che sia così, perché una qualsiasi forma di linguaggio non ha la continuità del reale vero, tende sempre a ridurlo ad una serie di elementi che lo strutturano, pur se in forme che sembrano a volte del tutto fluide e mutevoli, ma non certamente come lo è quell’effettivo reale, fra l’altro privo di forma secondo la mia supposizione.

Nemmeno ci si accorge di essere immersi in, o come minimo di stare galleggiando su, un flusso che scorre caoticamente senza struttura alcuna. La nostra intelligenza – non diversamente da quella, assai differente e di tipo elementare, degli animali – ci pone subito nella condizione di crederci in equilibrio pur nelle condizioni di movimento lungo percorsi, che l’uomo suppone conoscibili e prevedibili tramite le costruzioni (le teorie appunto) del suo pensiero. Solo a tratti si è “svegliati” dal “sonno razionale” e viene così avvertito l’invecchiamento irrimediabile delle teorie o dei nostri convincimenti più elementari; resta, però, la certezza di poter giungere a nuove stabilizzazioni con una qualche definitezza, fino al prossimo “risveglio” più o meno brusco o invece lentamente progressivo.

In ogni caso, tuttavia, anche quando il flusso caotico e non strutturato ci destabilizza e si crea tutt’intorno a noi il massimo di confusione, non si è in grado di conoscerlo nella sua realtà che ha andamento continuo. Alcuni sono convinti di sapersi immergere in esso e di seguirlo nel suo effettivo svolgimento, appunto continuo. Non sono per nulla convinto che sia così; secondo me non ci si rende conto che la presunta immersione cosciente è una reazione più immediata allo stimolo del reale, una reazione che avviene in tempi ancora più infinitesimali che per altri individui (di tradizione culturale e modo di vivere, ecc. assai differenti). Noi però, come tutti gli esseri animati, reagiamo sempre per momenti successivi e inseguendo, a volte inconsapevolmente, il tentativo della stabilità persino nella rapidissima successione delle nostre reazioni; anche quando, insomma, siamo sicuri di stare adattandoci allo squilibrio continuo.

Prendiamo ancora ad esempio la realtà automobilistica. Al guidatore si presenta improvvisamente un ostacolo e l’urto è imminente. Guai se si mettesse in moto il pensiero razionale dei due, tre, ecc. ordini di riflessione per ricostruire quanto sta accadendo; occorre invece la cosiddetta prontezza di riflessi, cioè la reazione immediata e che sembra precedere ogni pensiero. Dubito che avvenga questo; immagino che ci sia un solo ordine di riflessione, velocissimo, di temporalità in(de)finitamente piccola, in cui si tenta di stabilire quel campo di stabilità contro cui si rischia di andare a sbattere; è questo oggetto – cioè una porzione di “realtà” costruita in un istante con tutta la sua strutturazione, vista dai nostri occhi cinematicamente (cioè per punti successivi) e non nel continuo – che si cerca di evitare. E il successo o insuccesso della reazione non dipende solo dal tempo che si ha a disposizione per essa, ma anche da come, in un solo ordine di riflessione (e così breve), si è riusciti a costruire quel campo di stabilità strutturato, che è l’oggetto visto all’improvviso. Se si sbatte contro di esso, si è convinti di non avere avuto sufficiente prontezza di riflessi. Credo che ci sia anche questo, ma non soltanto (e forse nemmeno soprattutto); penso pure ad una cattiva costruzione del campo di stabilità strutturato rappresentativo dell’oggetto in questione.

 

4. In definitiva, la realtà non si coglie con il pensiero, che in un certo senso la fissa secondo strutture relazionali tra parti; al limite tra particelle elementari, alcune anche non dotate di massa, del tutto puntiformi (e si tratterebbe di punti inestesi). Se si prende in considerazione il movimento di queste strutture, lo si tratta a mio avviso quale successione di tratti spaziali in(de)finitamente piccoli. So che si pensa di poter seguire il movimento di spazi e tempi secondo una processualità continua, eppure ne dubito poiché in ogni caso la “realtà” è costruita con modalità puntiformi. A mio avviso la realtà è una sorta di blocco unico, una sola massa di condensazione, che a volte crea la sensazione dell’immobilità; eppure scorre, passa, muta, secondo processi caotici, privi di forma, di temporalità indefinibile anche se, in base al come e al quanto tempo viviamo noi, la distinguiamo in periodi di varia lunghezza (dal più breve, infinitamente breve, al più lungo, eternamente lungo).

In effetti, non c’è tempo (e nemmeno spazio); si tratta pur sempre di categorie del nostro pensiero, che costruisce la sua “realtà”, non riproduce quella vera. In tale costruzione possiamo avere successo, nel senso che ci orientiamo comunque in modo adeguato nel nostro muoverci nel mondo, nello sviluppare questa o quell’azione, nell’interpretare questi o quegli accadimenti, ecc. Tuttavia, non credo si possa pretendere di aver colto la realtà in cui viviamo; accontentiamoci del successo e quando invece non l’abbiamo – o, dopo averlo colto parzialmente, ci accorgiamo di non orientarci più adeguatamente, di stare commettendo una serie di errori nell’azione (e nell’interpretazione) – sbrighiamoci a pensare una nuova “realtà” secondo le nostre modalità di pensiero. Anche le categorie dell’Essere e del Divenire sono categorie del pensiero, diversi approcci nel costruire la nostra “realtà”. Poiché la realtà vera non si conosce, siamo solo in grado di dire ciò che “essa non è” e ciò che “essa non diviene”. La pretesa, tutta propria dell’arroganza e presunzione umane, ci conduce invece all’“E’” e al “Diviene”. E così, alla fine, ipostatizziamo la nostra particolare costruzione di una data “realtà”, in quella continuiamo a confidare andando incontro infine all’insuccesso più netto e definitivo. Per fortuna, finora almeno, dopo un congruo periodo di tempo qualcuno arriva a costruire una diversa “realtà” con nuove possibilità di successo, sempre temporaneo. Non possiamo non pensare che nel modo in cui pensiamo, proprio per le necessità della nostra azione. L’importante è essere coscienti che qualsiasi “realtà” è da noi costruita per i nostri bisogni (d’azione come anche di contemplazione) e alla fine sarà messa in crisi dal sommovimento di quel reale vero, invece non rappresentabile secondo le nostre modalità di pensare.

Ho pure un’altra convinzione. Gli stessi nostri sensi colgono la “realtà” secondo tratti di diversa lunghezza e temporalità; e con un movimento che è una successione di spazi e tempi (in quanto categorie del nostro pensiero) talmente brevi da creare in noi l’ingannevole impressione del fluire continuo. Non si è in grado di vivere, nemmeno inconsapevolmente e con i soli sensi, nel realmente continuo; perché, se fossimo capaci di conoscere la realtà vera, immagino che si avrebbe allora l’impressione d’essere “immersi” in un blocco unico, compatto, dove nulla accade nel mentre invece tutto muta senza cessa. Il blocco, probabilmente, si scioglie e si ricondensa continuamente (e anche questo è un modo di dire del nostro linguaggio); e condiziona la situazione in cui vivono coloro che in esso abitano, fra cui ci sono gli esseri umani che pensano a ciò che percepiscono e ne costruiscono date teorie. Di conseguenza, periodicamente, sia le percezioni sensibili sia le costruzioni teoriche vanno in crisi e devono essere riadattate alle esigenze di azione e interpretazione degli uomini. Sempre ci s’illude di avere infine afferrato la realtà vera, almeno per sommi capi; e sempre si resta poi, parzialmente o totalmente, delusi. Ci si rimette allora al lavoro per “capire meglio”. Un “meglio” che è pur sempre l’azione degli uomini all’interno del blocco costituito dal flusso continuo da essi abitato, che muta senza farsi percepire e conoscere per quello che veramente è. Eppure, si riesce comunque a viverci e perfino ad avvertire un miglioramento, almeno “materiale”, delle condizioni di vita. E si vivono i mutamenti dei rapporti sociali, che si tenta di afferrare con nuove teorie.

C’è indubbiamente un problema che non si può comprendere nella sua effettiva realtà; tanto meno si riesce ad esporlo adeguatamente con un linguaggio, come quello umano, poco adatto alla bisogna. Svilupperò alcune considerazioni in merito pur sapendo che sarò in ogni caso poco preciso e non centrerò realmente la situazione esistente per i già indicati limiti del nostro modo di percepire e conoscere la realtà, costruendone una di diversa (la nostra “realtà”); pur se, evidentemente, non opposta a quella reale altrimenti il nostro vivere diverrebbe estremamente difficoltoso e, al limite, perfino impossibile.

 

5. Vivendo, muovendosi nel mondo, agendo e trasformando quanto si vede e si tocca, ecc., si è circondati da una moltitudine di oggetti di forma ben definita e che sembrano estremamente durevoli. Ad es., questo computer su cui sto scrivendo, la tavola su cui è posto, i vari mobili intorno e i muri della stanza; e se esco da questa o dalla casa in cui sono, sterminato è il numero delle cose che vedo, tocco con le mani e i piedi, odoro, ecc. Tutte cose ben solide e apparentemente senza mutamenti di sorta. In effetti, già la scienza ci avverte che gli oggetti hanno strutture atomiche e che tali atomi sono in continuo movimento; e quelle strutture, per quanto impercettibilmente e magari in tempi lunghissimi rispetto alla vita d’un essere umano, si modificano. Anche una roccia o una montagna intera, tra migliaia d’anni o anche milioni, sarà sbriciolata, ridotta in polvere. Altri oggetti sono invece trasformati in tempi assai più brevi, che in certi casi ci sembrano addirittura istantanei.

Non avrebbe senso immaginare che tutto questo mondo è creato da noi, dalla nostra immaginazione. Sarebbe a mio avviso poco ragionevole comportarsi come Tolstoi che – almeno così si racconta – si voltava indietro con la massima rapidità possibile nella speranza di poter cogliere almeno per un attimo l’inesistenza di ogni cosa, poi rimessa al suo posto dal nostro modo di vedere e sentire. No, le cose ci sono, e le vediamo, tocchiamo, ecc. in modo sufficientemente adeguato a poterci vivere in mezzo, utilizzandole più o meno bene per le nostre esigenze. Suppongo semplicemente che, se i nostri sensi fossero adatti a cogliere il flusso continuo e informe del reale, noi rischieremmo di vedere tutti gli oggetti, e l’insieme degli stessi, alla stessa guisa in cui osserviamo le nuvole in cielo che trasmutano continuamente e secondo forme imprevedibili. Sia chiaro che pure questo esempio è imperfetto perché con una strumentazione adeguata potremmo ricostruire – e per tempi di varia lunghezza – la forma delle nuvole nei momenti precedenti l’osservazione e per i momenti successivi.

Dobbiamo sforzarci di immaginare – e il linguaggio ci obbliga sempre all’imprecisione – gli oggetti dotati di “doppia” esistenza: vi è quella che i nostri sensi, più o meno potenziati, colgono secondo condensazioni di assai differente durata (una roccia dura assai di più di un’onda mossa nel mare). Vi è poi la più vera esistenza che, diciamo così, avvolge la prima ed è come un fluido velo estremamente rarefatto, dunque invisibile nel suo reale scorrere che comunque muterà, ma in tempi estremamente diversi, le condensazioni colte dai sensi e dagli strumenti da noi creati; e cambierà dunque il mondo in cui (per il momento, un momento di durata imprevedibile) viviamo. Meno male che cogliamo la “realtà” non precisamente reale, solo quella delle nostre “foto”. Vediamo in modo sufficientemente definito, ci muoviamo secondo date direzioni; di tempo in tempo, avvertiamo che la direzione “s’è fatta” sbagliata, ci correggiamo e mutiamo rotta; e poi ancora e ancora.

Stiamo parlando del mondo detto macrofisico, dove in un certo senso – e sempre ricordando i limiti del nostro modo di esprimerci in parole – incontriamo gli oggetti con i nostri sensi anche privi d’ogni strumentazione; ci s’immagini cosa accade in quello microfisico, dove i sensi devono essere assistiti da strumenti che li potenziano, ma possono invece sviarli, indurli in errore perfino nelle iniziali osservazioni del “reale” che viene fissato per tempi di estremamente varia lunghezza, ma che mai comunque scorre continuo e informe come l’effettivo reale.

Bisogna essere molto chiari in proposito. Quando “scattiamo le foto” (le “istantanee”) del reale, noi semplicemente ne isoliamo dati momenti in(de)finitamente brevi, rispettando l’andamento (tendenziale) di ogni dato processo, da noi costruito nel suo svolgersi tramite appunto la successione di quei momenti. Tale costruzione non può che perdere ciò che scorre tra un momento e l’altro. Certamente, per la nostra sensibilità è un tempo talmente breve, in(de)finitamente breve, che sembra del tutto naturale poterne fare a meno. La supposizione da me concepita è che in realtà i momenti del processo (da noi “costruito” mentre siamo spesso convinti di riprodurlo) non sono posti in successione, bensì immersi in una “temporalità” (definizione impropria, poiché il tempo non esiste nel senso da noi attribuitogli) che è appunto quel “velo rarefatto”, in effetti invisibile, di cui si è detto sopra. Insomma, si “vedono” (si constatano, si avvertono, si colgono o non so bene come dire) i momenti del processo costruito e si intuisce che tra un momento e l’altro vi è comunque “qualcosa”.

Questo qualcosa non è qualcosa; ancora una volta possiamo dire ciò che non è, pur sapendo che in realtà esiste e sconvolge, alla lunga, tutto ciò che noi costruiamo per tempi e spazi successivi, in(de)finitamente piccoli a piacere. Il qualcosa che vediamo, avvertiamo, sentiamo, ecc. è semplicemente nostro; ed è però quello che ci consente in definitiva di muoverci con almeno un minimo di ordine, di orientamento, di incisività nell’affrontare la vita nella realtà in cui siamo immersi. Se non avessimo, per nostra “fabbricazione” biologica, quelle determinate modalità d’azione in una “realtà” appositamente costruita (dai sensi come dal pensiero), saremmo spersi in un flusso da cui saremmo travolti come il surfista che perde l’equilibrio sull’onda (anche qui stiamo usando il nostro “imperfetto” linguaggio, avverto ossessivamente il lettore). In poche parole, per conoscere ai fini dell’azione e del nostro vivere, dobbiamo percorrere quell’onda restando sempre alla sua superficie, in equilibrio sulla sua cresta o lungo le sue sinuosità. Per andare in profondità, per immergerci dentro il flusso dell’onda, dovremmo perdere ogni equilibrio e da essa verremmo travolti, fatti capitombolare in su e in giù senza cessa; non capiremmo più minimamente dove siamo e in che direzione andiamo, ci troveremmo in mezzo ad un caos continuo che ci renderebbe annaspanti e ciechi, conducendoci infine alla morte.

 

6. Con quanto qui sostenuto non pretendo di essere nel vero. Si tratta di ipotesi che formulo, in definitiva, per determinati scopi: sia di coerenza che anche, secondo me, pratici. Cerchiamo adesso di concludere per far capire il motivo più profondo del mio elucubrare. Innanzitutto, ribadisco nuovamente che il nostro linguaggio ha limiti invalicabili. La mia convinzione circa la differenza tra la realtà vera (continua) e quella da noi costruita (sempre per punti discreti), non può che essere necessariamente esposta mediante tale linguaggio, ineluttabilmente discreto; di conseguenza, mai si sarà in grado di fornire un’esauriente rappresentazione di ciò che si vorrebbe più precisamente esporre.

Il primo motivo, il più essenziale, per cui ho sviluppato i miei ragionamenti – approssimati per quanto mi è consentito dalla mia impreparazione e, appunto, dal nostro modo di esprimerci in parole – è di dar conto di un fatto che sempre accompagna l’agire umano: si arriva ad un punto, magari dopo un periodo più o meno lungo di risultati soddisfacenti, in cui ci si trova del tutto spiazzati di fronte al fallimento (o quanto meno alla crescente imprecisione) di ulteriori azioni intraprese sulla base di quanto si era sicuri fosse l’esatta (o fortemente probabile) individuazione della realtà in cui ci si muoveva. Quando detta individuazione, rimessa più o meno nettamente in discussione dal prosieguo dell’azione, riguarda in particolare la realtà sociale che si era sicuri di stare trasformando seguendo dati orientamenti (per cui molti hanno anche dato la vita o comunque si sono impegnati allo spasimo), una magari ben formulata e argomentata teoria della società (della struttura dei suoi rapporti e della loro dinamica) si cristallizza spesso in ideologia, cioè in una forte credenza che non si vuole assolutamente abbandonare. E questo conduce a sconfitte ancora più gravi i sostenitori della stessa finché essa non ha esaurito ogni possibile influsso su nuove generazioni pronte al trapasso ad altra visione.

Bisogna essere ben consapevoli che il passaggio è fase di lunga durata, non avviene mai senza numerose prove ed ulteriori insuccessi; ed essendo sempre ostacolati dai portatori delle vecchie teorie – ormai appunto ossificatesi in ideologie – che mai si arrendono e devono sovente essere eliminati con la forza senza più alcun rispetto delle loro credenze professate più o meno in buona fede o invece per godere di vantaggi e guadagni personali o di gruppo. In queste epoche di transizione, coloro che hanno compreso l’inutilità e anzi il danno del professare quanto è ormai decrepito devono far luce sul processo di invecchiamento delle teorie esistenti, un tempo magari rivoluzionarie e ora grave impedimento sulla via del rinnovamento. Vi è un altro riconoscimento che è necessario attuare: i risultati conseguiti in base alle vecchie teorie (lo ripeto, magari rivoluzionarie in epoche passate) sono spesso da non rifiutare, da non rigettare e annullare, comprendendo però che non sono affatto quelli che si era creduto di perseguire e realizzare. Mai si concretizza ciò che era stato pensato in base alla vecchia teoria, sempre ci si trova invece di fronte a qualcosa di inaspettato. Proprio per questo, vi sono altri “soggetti” negativi oltre a quelli restati aggrappati alle passate convinzioni divenute credenze cristallizzate; sono coloro che, presi dallo sconforto per la caduta delle illusioni del passato, vorrebbero distruggere quanto è stato comunque realizzato. La battaglia per il passaggio d’epoca si combatte quindi sempre su due fronti: bisogna eliminare chi si aggrappa ad una “realtà” creduta e ormai solo fantasticata e chi, al contrario, vuole tutto distruggere, cancellando le acquisizioni comunque ottenute sia pure inseguendo altre finalità.

Nelle fasi di transizione, coloro che si sono formati seguendo i sistemi teorici in auge nell’epoca precedente devono contribuire all’illuminazione delle nuove generazioni, soprattutto ponendo in luce gli ormai lampanti limiti di quei sistemi e l’evidente diversità dei successi eventualmente conseguiti rispetto agli obiettivi che si era convinti di aver raggiunto. Il sottoscritto si è posto precisamente in quest’ottica; e ha cercato di individuare la fallacia delle previsioni formulate in base alla teoria cui aveva aderito, attribuendola alla centralità che Marx aveva assegnato a: 1) la produzione (non nelle sue tecniche bensì nei suoi rapporti sociali) quale “base” sostanziale e struttura portante della società; 2) la divisione di quest’ultima in due classi antagoniste (la cui lotta rappresentava la dinamica di quei rapporti e li spingeva infine ad una trasformazione secondo un orientamento che sarebbe stato possibile individuare con certezza) caratterizzate, in modo preciso e inequivocabile, dalla “proprietà” (potere di disporre) o “non proprietà” dei mezzi impiegati nella produzione.

Non sto qui a ripetere quanto ho scritto in assai numerose pagine da vent’anni a questa parte. Ho spostato la centralità in questione ponendola nel conflitto tra strategie (che sono l’essenza della POLITICA nel suo significato più generale, che non è quello della sfera di apparati designati con questo nome) applicate da diversi (non semplicemente due) gruppi sociali allo scopo di conseguire la supremazia in quella data formazione sociale e per un determinato periodo di tempo. Ho illustrato più volte quali conseguenze derivino da questo spostamento di centralità per quanto riguarda l’analisi della società, con particolare riferimento a quella detta capitalistica; e che credo nasconda il succedersi di più formazioni sociali nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, da quando Marx diede la sua definizione di rapporto sociale (di produzione) capitalistico.

In ogni caso, non mi nascondo affatto il limite del mio spostamento di centralità. Esso ha appunto lo scopo di richiamare nuove generazioni di studiosi – che non vogliano semplicemente buttare a mare il marxismo per ritornare all’ancor più ingannevole e vecchio liberalismo e liberismo o a improvvide “dottrine sociali” di impronta religiosa o simile – alla necessità di analizzare la struttura dei rapporti della società più moderna, andando oltre quella centralità della proprietà che ha condotto ad una serie di conclusioni errate. Tuttavia, il “conflitto strategico”, la nuova centralità da me proposta, ha un grosso difetto, almeno dal mio punto di vista: rinvia ad una intersoggettività nel delineare la dinamica della società. Manca quella che per me deve essere una “oggettività”, cui devono sottostare i vari gruppi sociali in conflitto. In Marx, le “classi” (appunto soltanto due) si formavano in base ai differenti processi storici – ad es. passaggio allo schiavismo e poi al feudalesimo e infine al capitalismo – che attribuivano la proprietà (ricordo: potere di disposizione) dei mezzi produttivi ad una classe, in grado così di appropriarsi, grazie ad essa (al potere da essa consentito), del pluslavoro della classe non proprietaria. Questo processo storico – comportante l’attribuzione della proprietà (e del conseguente potere relativo al pluslavoro) ad un dato raggruppamento sociale – è a mio avviso da considerarsi oggettivo a differenza del “conflitto strategico”.

 

7. Ecco allora che – essendo io un “vecchio aderente” al marxismo, consapevole però della perdita della sua capacità conoscitiva con trasformazione in una sorta di credenza per fede – ho cercato di indicare dove potrebbe collocarsi l’oggettività della nuova centralità (supposta per ipotesi). Ho posto il problema di una realtà non conoscibile nel suo aspetto propriamente reale. Non certo una realtà posta in qualche “al di là”; la nostra impossibilità di conoscerla dipende semplicemente dal nostro poterla saggiare e praticare secondo rilevazioni puntiformi, pur essendo invece certi di saperle effettuare con modalità di continuità, aderendo così appunto al carattere della vera realtà. Non ci riusciamo e, secondo quanto da me sostenuto, è un bene che così non sia; in caso contrario saremmo immersi nel flusso caotico e sconvolgente di detta realtà e non sapremmo più che cosa fare per salvarci da esso. Dobbiamo invece correre (appunto come un bravo surfista) sulla superficie dell’onda, mantenendoci il più possibile in equilibrio su di essa. Solo che non siamo ben consapevoli di dove l’onda ci porterà e dunque, ad un certo punto, ci troveremo dove non ci aspettavamo di andare a finire; diciamo un po’ come Colombo, che si avviò per le Indie e si trovò in America.

Dobbiamo sempre rivedere le nostre conoscenze, sapendo tuttavia che saranno costantemente destinate a portarci in un “altro dove”; non per nostri consapevoli errori (o almeno non sempre, direi meno spesso di quanto ci attribuiamo con senso di improvvida colpevolezza), ma semplicemente perché – e per nostra fortuna, ammettiamolo infine – corriamo sulla superficie dell’onda e non ci immergiamo in essa; nel qual caso altro che in errori incorreremmo, andremmo in asfissia per affogamento. Conosciamo secondo il nostro modo di conoscere, che ci consente di muoverci nel mondo. Solo che dobbiamo renderci conto, senza farne un dramma, che saremo ineluttabilmente spinti dove non ce lo aspettiamo; e dovremo, di volta in volta, scoprire in quale “continente” siamo effettivamente arrivati mentre eravamo convinti di approdare in un altro. Rassegniamoci a questo “destino”; altrimenti, combiniamo guai a non finire.

Tuttavia, è inutile anche fare queste raccomandazioni; la rassegnazione di cui sto parlando arriva magari alla fine, ma in tempi assai diversi a seconda dei differenti individui e gruppi di individui (gruppi che stanno fra loro in dati rapporti, soggetti a mutamenti). E ciò crea già una serie di contrasti inevitabili tra i gruppi; contrasti non dipendenti da alcuna volontà puramente soggettiva di questo o di quello. Senza poi considerare che, come ho già rilevato, gli uomini corrono sulla superficie dell’onda; proprio per stare in equilibrio e compiere le loro azioni con un minimo di visione d’insieme, quella visione che soltanto la superficie consente. Sotto la superficie, profondo è il flusso che scorre e che è attraversato da movimenti caotici e largamente insondabili; per cui poco in là si vede, in pratica proprio nemmeno oltre il proprio naso. I sommovimenti profondi provocano però cambiamenti di direzione a chi sta correndo in superficie (e sono in tanti a farlo), che si scontra con altri o si affianca ad altri. Da qui l’urto (il conflitto) e il correre paralleli (l’alleanza). Situazioni inevitabili e quindi di carattere “oggettivo”. Conflitto e alleanza sono dunque l’esito inevitabile dei movimenti profondi che influiscono sull’andamento dell’onda in superficie. I vari gruppi (o unioni di gruppi) sono spinti a quelle mosse strategiche, che sembrano dipendere dalla loro scelta (e dal contrasto con le scelte altrui), ma dipendono invece in gran parte dalla situazione venutasi a creare sull’onda – o anche, diciamo, sul “terreno” – dello scontro a causa dei suddetti movimenti attivi nelle profondità del flusso reale. Il terreno va comunque sempre studiato attentamente – proprio come le mosse dell’avversario – quanto più il conflitto tra gruppi diventa acuto.

Questo, al momento, il mio modo di porre l’oggettività del processo che conduce i vari gruppi al conflitto, durante il quale essi elaborano le loro strategie di lotta. Gli strateghi sono in definitiva i “portatori soggettivi” di un oggettivo processo del tipo appena descritto. Gli strateghi sono messi in questa situazione dal processo in questione. Le loro strategie sembrano nascere soltanto dall’analisi del terreno e delle modalità di comportamento degli avversari; e i risultati cui giunge il conflitto appaiono dunque come una sorta di “vettore di composizione” delle forze in lotta. In realtà, la necessità del conflitto, e le sue modalità, sono conseguenza di quella realtà continua e caotica che conduce i vari gruppi a urtarsi, ad intralciarsi, a porre ostacoli al percorso di altri, ecc.; e ognuno combatte per assumere quella prevalenza che in definitiva gli consentirà un cammino più facile e con meno disturbi (per un certo periodo perché poi tutto ricomincia da capo). Allora si studia il processo caotico, dandogli ordine e dinamica orientata in una certa direzione, che ogni gruppo cercherà di rendere favorevole alla propria affermazione. Tuttavia, non si vede la “vera realtà sottostante” e alcuni saranno spinti a confrontarsi con altri da nemico a nemico; mentre certi gruppi si avvieranno all’alleanza perche il movimento li ha portati alla reciproca vicinanza senza urto e scontro.

Non pretendo affatto di aver chiarito in via definitiva il problema che mi ha condotto alle argomentazioni svolte in questo saggio. Sarei in contraddizione con quanto ho sostenuto. Il lettore attento avrà capito che, a mio avviso, non vi è alcuna possibilità di conclusione esauriente e finale. Ogni data convinzione, che magari è servita ad orientare l’analisi teorica come la pratica per un dato periodo di tempo e magari con qualche successo, verrà sempre rimessa in discussione. Non giungeremo mai alla fine di questo processo; nemmeno è valido il pensiero per cui ci approssimeremmo sempre più (diciamo asintoticamente) alla conoscenza indiscutibile. Per quanto mi riguarda allontano da me simili idee. Saremo, a periodi alterni, presi dall’entusiasmo per una nuova “scoperta” o per aver avviato un profondo rivolgimento dei rapporti sociali; poi subentrerà come minimo la fine di questo entusiasmo e spesso perfino si diventerà preda della delusione. Si ricomincerà però sempre da capo con nuove speranze; e sempre si produrrà in seguito la sensazione di un fallimento, pensato a volte come definitivo e completo. Niente di tutto questo. Sarà un continuo alternarsi di stati d’animo individuali come di credenze collettive del tutto opposti in fasi storiche successive.

 

8. E’ evidente che quanto qui svolto implica il completo abbandono della tematica delle “classi”, per di più antagoniste in quanto legate alla proprietà o non proprietà dei mezzi di produzione; così come era stata posta, a mio avviso “ingenuamente” (ma eravamo agli inizi di quella che Althusser definì quale iniziale visione scientifica dei processi storico-sociali), da Karl Marx. Secondo lui, la lotta di classe (tra dominanti e dominati) aveva caratterizzato tutta la storia dell’umanità. Tale lotta era sempre pensata a due: proprietari di schiavi e schiavi, feudatari e servi della gleba, borghesia capitalistica e proletari (od operai). Quello che ho qui discusso distrugge alla radice sia la semplice dualità antagonistica delle “classi”, sia la visione dei subordinati che sempre lottano contro i dominanti e determinano il passaggio rivoluzionario ad una nuova formazione sociale; con il finale risultato del comunismo, che non sarà più trasformato in altra forma di società, dato che non esiste più antagonismo tra dominanti e dominati, tra oppressori e oppressi, ecc. Nessuna inutile polemica su una visione di centocinquant’anni fa. Però adesso basta perché altrimenti si è decisamente sciocchi a pensare ancora così. Una valutazione storica è vantaggiosa se porta appunto ad abbandonare certe ingenuità.

Ed è quanto sto proponendo senza alcuna pretesa, lo ripeto, di essere giunto a conclusioni se non definitive, almeno assai vicine a ciò che è “vero”. No, anch’io dovrò senza dubbio essere criticato per elaborare ulteriori formulazioni. Tuttavia, se qualcuno mi critica assumendo il punto di vista delle teorie del passato, ormai divenute pesanti e assurde ideologie, non tengo in alcun conto le sue osservazioni. Certamente, però, anch’io sono ostacolato e reso “zoppicante” dal legame con una teoria (ideologia), che ho praticato per decenni. Bene, inizino i più giovani a ripensare il nuovo; ignorando però i superficiali chiacchieroni che stanno pullulando in tutti i campi del sedicente pensiero scientifico (in specie sociale), per non parlare di quello ridicolmente filosofico. Si deve ripartire; non da zero, ma nemmeno dal rimbecillimento cui ci hanno costretto indegni intellettuali da almeno mezzo secolo in qua. E non ci si lasci turlupinare dalla loro erudizione fine a se stessa. Hanno fatto delle loro conoscenze, debitamente deturpate e imputridite, l’arma con cui convincono gruppi di perfettamente ignoranti ascoltatori della verità di ogni loro più demenziale affermazione. Non ascoltate più questi diffusori di un “sapere in scatola”; usate il vostro cervello. Si deve veramente ripartire. E questi intellettuali presuntuosi quanto superficiali, predicatori di una “modernità” allucinante (e allucinata) nonché marci rinnovatori dei costumi sociali, devono essere lasciati a predicare nel deserto.