PER UNA LINEA DI CONDOTTA

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1. Per evitare confusioni, fraintendimenti e vere distorsioni di quanto penso, scrivo poche cose il più chiaramente possibile. Vi è senza dubbio un accrescimento delle difficoltà per buona parte della popolazione. Si deve però ammettere che non è tanto esigua la percentuale di coloro che si sono ulteriormente arricchiti o almeno non hanno visto peggiorare le loro condizioni di vita; dovrebbe trattarsi all’incirca di un quarto degli italiani (lo dico così a stima, non perché abbia dati statistici in mano). Inoltre, si stia certo attenti a non cadere nella trappola dell’ottimismo programmatico in merito all’attuale crisi; nemmeno però ci si dedichi al semplice annuncio di catastrofi sociali immani e di possibili rivolte di massa. Si assisterà a disagi e malcontento reali, ma gli “sconquassi” saranno pur sempre opera di una netta minoranza; si tenga infine conto che è sufficiente una quota non superiore al 2-3% della popolazione per assicurare il “casino”. Non però una rivoluzione, bensì più probabilmente, se gli “agitati” insisteranno, una reazione d’ordine, l’appoggio di una stragrande maggioranza (“silenziosa”) ad una svolta infine netta verso l’isolamento e la repressione dei “rivoltosi”.
Va invece nettamente appoggiata, vista con simpatia, la lotta dei salariati (soprattutto quelli che risultano essere i peggio pagati in Europa) per più adeguate e dignitose retribuzioni. Su questo “non ci piove”, come suol dirsi. Si tratta di richieste sacrosante. Noi non contiamo nulla, non ci illudiamo di poter avere una qualsiasi influenza su questa lotta, ma comunque le diamo tutta l’adesione che è nelle nostre possibilità. Uso il noi perché sono certo di esprimere il pensiero di tutti quelli che scrivono nel blog. Altra questione, su cui credo non ci siano divergenze tra noi, è sulla non adesione alla semplice campagna contro i fannulloni del “pubblico”. Penso sarebbe un errore negare l’inefficienza del nostro apparato statale e pubblico in genere. Così pure, non vanno difesi in alcun modo quelli che effettivamente fanno i furbi, ottenendo certificati di malattia fasulli nel mentre vengono poi “beccati” in vacanza o a casa a fare i comodacci loro. Tuttavia, non ci si può servire di casi isolati, pur se fanno molto scalpore (perché i media così vogliono), per emettere condanne generali e generiche. E poi, in ogni esercito, i comandanti vanno ritenuti assai più responsabili delle truppe. Ci si aspetta quindi un ben maggior rigore verso certi dirigenti della sfera “pubblica”, che prendono spesso alti stipendi e non dirigono nulla, facendo andare in malora i servizi loro affidati. “Far volare gli stracci” è solo demagogia, non ha alcuna reale efficacia.
A titolo già più personale (ma sono convinto di non essere il solo sensibile al problema), esprimo favore nei confronti di altri lavoratori, spesso negletti: quelli detti autonomi (le “partite Iva”, gli “artigiani” e piccoli imprenditori, e via dicendo). Anche in tal caso non si tratta di negare che vi siano i furbi, quelli che evadono le imposte (e si fanno pagare “in nero”), quelli che contribuiscono all’innalzamento del costo della vita (proprio per quanto concerne i generi di prima necessità), ecc. Tuttavia, non si può essere così parziali (e in fondo disonesti) da non tenere conto dei seguenti punti essenziali: a) questa è gente che non timbra il cartellino e lavora assai più dell’orario normale; b) tali lavoratori non hanno garanzie di cassa integrazione, di sussidi di disoccupazione, di prepensionamenti, di contributi pensionistici a carico di chi assume forza lavoro (visto che, come minimo, assumono se stessi oltre che spesso qualche altro); c) è ora di ammettere che la grossa quota di tali lavoratori (non certo costituita da avvocati, commercialisti, notai, farmacisti, ecc: e per di più di grosso calibro) dovrebbe chiudere “baracca e burattini” se pagasse per intero le imposte (fissate con i famosi e nefasti “studi di settore”).
Infine, a parte ogni altra considerazione, chi ancora fa discriminazioni tra lavoratori – la maggior parte dei quali veleggia comunque verso livelli di reddito bassi o non eccelsi – è schiavo, anche se lo maschera, della vecchia mitologia della Classe (quella del “Sol dell’avvenire”). Costui può sembrare più sobrio e sensato poiché parla di “movimento dei lavoratori”, di “masse lavoratrici”, ecc., ma ha sempre in testa la vecchia ideologia del conflitto capitale/lavoro come quello centrale in quanto l’unico “antagonistico”; intendendo per antagonismo la supposta volontà di abbattere il capitalismo e di costruire la “nuova società dell’eguaglianza”. Su simili concezioni non si può transigere; questa vecchiezza, questo appello a stantie ideologie veterocomuniste o di mitico e “trasognato”
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comunitarismo voluto da un presunto “Uomo” (esclusivamente fantasticato), non possono più essere accettate. Sono una fuga dalla realtà; e poi, sarò malfidente, ma non riesco a credere che chi sostiene simili idee così sciocche e consunte non sia un perfetto mascalzone, capace di approfittare di alcune frange di “sperduti” nostalgici e di deboli di mente. Se non è così mi scuso per la “maliziosa” supposizione, ma non cambio la mia convinzione in merito al ruolo ultranegativo ricoperto da questi sciamannati.
E’ ovvio che tutti i lavoratori, anche quelli che passano per “liberi imprenditori” (spesso di se stessi), meritano appoggio quando siano in condizioni simili quanto a disagio e a difficili condizioni di vita. Si rilegga Germinal di Zola, considerato scrittore del (e per il) popolo. Si legga la lunga e minuziosa descrizione – brillante tanto letterariamente quanto sociologicamente – dello sciopero nelle miniere, che manda in malora la piccola miniera “indipendente” e favorisce il suo assorbimento da parte della grande “società anonima” (per azioni) con sede in Parigi; e oggi chissà dove. In ogni caso, chi si batte per certe condizioni di vita e di lavoro dei salariati, lo fa troppo spesso favorendo la divisione dei dominati (semplici non decisori, in verità) e dunque il rafforzamento del potere dei decisori. Questo è assolutamente inaccettabile. Se si deve costruire un blocco sociale per il mutamento, ciò non va fatto secondo le modalità di quegli obbrobriosi apparati di Stato che sono chiamati “sindacati”. Sia chiaro che non accetto nemmeno le velleità dei sindacatini detti “alternativi”. E’ proprio la lotta sindacale dei soli salariati a rappresentare ormai un fenomeno il più delle volte reazionario, di divisione del corpo sociale, di appoggio oggettivo (e spesso anche soggettivo) offerto a chi comanda; anzi a coloro che comandano essendo autentici “parassiti”. E qui arriviamo ad un altro e assolutamente decisivo snodo della questione odierna.
2. La prendo un po’ larga. Marx era convinto, e non cervelloticamente, che la sfera produttiva fosse quella fondamentale nella società; e che dunque i rapporti sociali annodatisi in tale sfera fossero quelli decisivi per la dinamica dell’insieme societario. In base a tale convinzione, egli analizzò la formazione e sviluppo del capitalismo nel luogo del suo più compiuto manifestarsi, l’Inghilterra, e fu certo di aver individuato la struttura di rapporti fondamentale – il modo, sociale, di produzione – che alla fine si sarebbe estesa in tutto il mondo, prevalendo su ogni altra. Convinzione per nulla affatto smentita dalle ulteriori vicende storiche, ma con complicazioni evolutive non previste. Secondo l’originaria concezione, i rapporti si sarebbero dovuti alla fine semplificare, almeno nella loro forma – antagonistica – decisiva, che avrebbe caratterizzato la sfera produttiva della società (lo ripeto: quella principale e fondante) creando la gran massa dei nuovi produttori associati: l’operaio o lavoratore combinato, in quanto organismo in cui si sarebbero coordinati i diversi livelli, stratificati, del lavoro intellettuale e manuale, direttivo ed esecutivo.
Questa massa di produttori – poi semplificata dal marxismo ulteriore (formulato da Kautsky, il vero fondatore della “dottrina” che ha di fatto dominato per tutto il novecento fino al suo “crollo”) nella sola considerazione della “classe operaia”, intesa quale insieme delle “tute blu” – si sarebbe dovuta omogeneizzare progressivamente in tutto il globo, man mano che si estendeva il capitalismo. Una simile “classe” avrebbe rotto le barriere nazionali, etniche, culturali, ecc.; da qui la presunta diffusione dello “spirito internazionalista” del proletariato – poiché poi alla classe operaia fu comunque associata, in qualità di “alleata”, anche l’altra presunta “classe” contadina – e la sua unione mondiale, che avrebbe sepolto il capitalismo e condotto alla società alternativa, ormai inevitabilmente comunista (governata appunto dai “produttori associati”).
Tralascio qui di ripetere quanto sono andato elaborando ormai da almeno due decenni con riguardo all’errore madornale così commesso, che ha assunto contorni tragici e ha poi condotto alla fine dei comunisti, ormai ridotti a gruppi di sbandati, litigiosi e senza più nessuna capacità di analisi effettiva dei processi sociali; ormai dediti solo a forme spicciole di “carità” sociale per i “miseri ed esclusi” o a elucubrazioni di filosofi della Speranza. In definitiva, dei relitti; tuttavia, spesso rivitalizzati e alimentati, specie in situazioni di nuova crisi sociale, dai decisori, al fine di deviare e devi-
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talizzare possibili critiche agli assetti sociali che, in certe zone del mondo, assicurano il predominio di parassiti al servizio di altri dominanti di ben altro calibro e potenza.
L’unico atteggiamento “internazionalista” possibile è quello di tenere conto delle forme di più violenta, e talvolta agghiacciante, oppressione di determinate popolazioni, ancora a basso sviluppo, da parte del mondo più avanzato. A tale tipo di solidarietà questo blog non si sottrae certamente, pur se è ben conscio che non può alleviare di un grammo simile oppressione. Quando assistiamo alle varie aggressioni degli Usa (sempre seguiti dai meschini servitori europei) o a quelle di Israele, non manchiamo di manifestare tutto il nostro, pur impotente, disgusto e sdegno per quelle che consideriamo vere azioni criminali. Tuttavia, non credo si debba definire internazionalismo questa solidarietà, che ha tutt’altro significato rispetto a ciò che il comunismo marxista aveva creduto potesse diventare in quanto “unione dei proletari di tutto il mondo”. Cerchiamo di limitare le confusioni terminologiche, che si traducono in concezioni (e azioni) esiziali prive di qualsiasi sbocco positivo.
Per di più deve essere tenuta in conto l’attuale evoluzione della fase, in cui diviene sempre più evidente la dipendenza della lotta dei popoli “aggrediti” dalle manovre che varie potenze – in genere ancora regionali, pur se con sfere di influenza di varia ampiezza (Russia, Cina e India non sono la stessa cosa di Iran o Turchia, ecc.) – stanno compiendo per non farsi schiacciare da quello che è stato, negli anni ’90 e primissimi duemila, il massimo tentativo di estensione globale del predominio da parte degli Stati Uniti, ancora comunque la massima potenza a livello più complessivo. Sarebbe quindi gravemente errato ignorare l’irreversibile declino della prospettiva – mai esistita in realtà, ma soltanto ideologicamente quale servizio reso alla formazione di nuove potenze tipo la vecchia Urss e la vecchia Cina ancora maoista – relativa all’internazionalismo proletario. Tale prospettiva non è mai stata effettiva poiché non si è mai formato un unico modo di produzione capitalistico (con le sue “classi antagonistiche”), bensì una serie di capitalismi, forse perfino di formazioni sociali diverse; sia nel tempo (ad esempio il capitalismo borghese e quello dei funzionari del capitale) sia nello spazio con varie formazioni capitalistiche particolari, in genere paesi o comunque aree parziali del mondo caratterizzate da relativamente omogenee forme non solo produttive, ma anche politiche e culturali.
Mentre la lotta, presunta antagonistica, tra borghesia (classe dei meri proprietari privati dei mezzi di produzione) e classe operaia (o proletariato) si è rivelata essere un conflitto sempre più intrinseco alla riproduzione di una data formazione sociale capitalistica per la distribuzione del reddito prodotto (un conflitto fra l’altro multilaterale e non semplicemente duale), ha assunto valenza più chiara e netta la lotta tra i gruppi dominanti sia all’interno delle diverse formazioni particolari sia sul piano internazionale per la conquista (epoche policentriche) o il mantenimento (epoche monocentriche) della supremazia da parte di una di esse. Nell’ambito di un lungo periodo di scontro policentrico si è manifestata una serie di rotture rivoluzionarie che sono state confuse con la preannunciata rivoluzione proletaria e la transizione al comunismo. Alla fine di quasi un secolo di storia, si può trarre la conclusione che si è trattato soprattutto (non solo) di un grande processo di ridisegno della configurazione geopolitica complessiva con l’ascesa di nuove potenze (prima fra tutte, gli Stati Uniti) e la nascita di nuove formazioni che continuiamo, in mancanza di meglio, a chiamare capitalistiche (ma di capitalismi differenti): le principali essendo in questa fase Russia e Cina (e India).
L’urto tra formazioni particolari (tra i loro gruppi dominanti o di decisori) – acuto e manifesto nelle fasi policentriche, sordo e meno appariscente in quelle monocentriche – conduce a mutamenti, ora lenti ora rapidi, dei reciproci rapporti di forza: quella situazione che fornì a Lenin il destro per formulare la “legge” dello sviluppo ineguale dei capitalismi (delle formazioni particolari). L’“equilibrio” in tali rapporti di forza è solo un disequilibrio caratterizzato da continue e non troppo violente scosse in direzioni diverse e opposte, che sembrano tenere ferma la configurazione dell’insieme mentre matura progressivamente il cozzo più violento che condurrà al completo “rimescolamento delle carte”. I periodi storici, in genere molto lunghi, che intervallano il compiuto (mai perfettamente) policentrismo dal (mai perfettamente) compiuto monocentrismo possono essere definiti multipolari. Tutto lascia pensare che ci stiamo inoltrando in uno di tali periodi. In una simile
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contingenza, chi volesse agire politicamente, deve adeguare le strategie e le tattiche ad essa. Altrimenti fa solo agitazione scomposta, al massimo utile alle forze che si oppongono a qualsiasi cambiamento. E’ la triste sorte toccata agli scriteriati credenti del vecchio comunismo o agli appartenenti a nuovi cervellotici movimentismi promossi da piccoli gruppi che si credono “masse”, “moltitudini”. Gente pericolosa e accesamente reazionaria, pur sentendosi rivoluzionaria, che andrebbe stroncata prima di provocare eccessivi guai.
Nelle fasi multipolari permangono molte delle caratteristiche del monocentrismo. Diciamo che quest’ultimo va lentamente sbrecciandosi, ma restano aree in cui il vecchio centro predominante prosegue, sia pure in altre forme (tattico-strategiche), la sua politica di supremazia. Questa politica ha il suo fulcro più attivo, ma coperto e mascherato, in una data filiera di rapporti tra gli agenti dominanti (strategici) nella sfera politica (in subordine quella culturale) della formazione particolare centrale e gli agenti nelle stesse sfere delle formazioni particolari non autonome rispetto alla prima. Il capitalismo ha però una conformazione speciale, quella che ha ingannato lo stesso marxismo portandolo nelle secche dell’economicismo. La sfera preminente (politica) non agisce direttamente come nelle forme precapitalistiche (dove essa era in aperta alleanza con quella ideologico-culturale nel predominio sull’intera società), bensì porta sul davanti della scena la sfera economica; in particolare quella finanziaria (che manovra il denaro nelle sue diverse manifestazioni fenomeniche) data la generalità delle forme mercantili assunte dalla produzione nella formazione sociale moderna.
La scena è completamente occupata – sia chiaro che non si tratta certo di illusione ottica, ma di realtà “di superficie” – dagli attori che recitano, mentre l’autore(i) e la regia(e) restano invisibili. L’ultimo esempio è lampante. La crisi è apparsa nella sfera finanziaria e poi ha cominciato a scaricarsi su quella “reale” (produttiva). Tutti i “potenti” si agitano nei vari G (da 7 a 8 a 20) e in vari organismi nazionali e sopranazionali. In primo piano sembrano stare gli agenti (ivi compresi i Ministri dei dicasteri) economici; le decisioni salvifiche sembrano essere prese sul piano produttivo e ancor più finanziario. Le più efficaci manovre si svolgono invece dietro le quinte, dove si cerca di rigiocarsi la riconfigurazione degli “equilibri” (in realtà disequilibri) mondiali. Se usciremo o meno dalla crisi, e come ne usciremo e in quali tempi, non dipende dai contrapposti, e spesso confusi, disegni degli “attori” (agenti strategici dominanti); sarà la risultante di forze variamente direzionate, che non ammette un’unica soluzione (o catastrofica, come pensano alcuni, o di rilancio dello sviluppo, come credono altri). Il ventaglio delle possibilità è abbastanza ampio e ancora largamente imprevedibile e indecidibile (se non ipoteticamente e probabilisticamente), salvo che dai “sapientoni” (dell’una o dell’altra parte), che nella loro proterva saccenteria sono estremamente ridicoli e irritanti.
Altro esempio preclaro: l’operazione Fiat-Chrysler, adesso direzionata alla Opel. Si fa apparire che tutto si giocherebbe in base a piani economici e sociali (la questione di quanti esuberi e dove farli emergere). Alcuni politici sono favorevoli ad un piano, altri ad un altro (la Merkel, filoamericana al 100%, è per la Fiat, altri sembrano favorevoli alla Magna, altri ancora ritengono insufficienti tutte le proposte). I contendenti rilanciano offerte sempre strettamente economico-sociali, ecc. In realtà, tutto si gioca sulle mosse della nuova Amministrazione americana, riviste dopo le pesanti battute d’arresto subite dai disegni più scopertamente “imperiali” che si era erroneamente creduto di poter realizzare in tempi brevi. O ancora: vi sono opposizioni, favorite dalle mene oscure della UE, contro il Southstream di Eni-Gazprom al fine di appoggiare il Nabucco controllato dagli Usa. E via dicendo.
3. Non è che l’economia sia pura superfetazione di azioni decise in altro luogo; solo che essa è di grande importanza quale strumento dell’azione strategica (e dunque politica) che viene condotta congiuntamente da agenti attivi nella sfera economica come in quella politica (e con il condimento culturale, in specie dei sedicenti “esperti” e specialisti, non privo di qualche verniciatura ideologica cui sono addetti i “letterati e filosofi”). Tali gruppi “misti” di dominanti (politici ed economici) sono divisi fra loro e conflittuali, in specie in campo internazionale. Le decisioni definitive, quelle più
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incisive e potenti, quelle destinate a prevalere (a favore dell’uno o dell’altro dei gruppi in conflitto), sono prese nei luoghi, “oscuri e protetti”, della politica – lo ripeto: manovrata anche dagli agenti dominanti strategici della sfera economica (produttiva e finanziaria) – e non sempre rispondono ai dichiarati (per la facciata, cioè per il “popolo”) propositi di maggiore efficienza economica e di più alta attenzione ai problemi sociali (ad esempio del lavoro). Anche gli sconfitti però, attendendo il loro turno per una rivincita o un “premio di consolazione”, accettano la pantomima della “economicità e socialità” prima di tutto. La complicità è generale, di tutti i dominanti: vincitori e perdenti. L’efficienza economica “decide” sul proscenio, la politica si acquatta nella cabina di regia e da lì decide veramente.
La rilevanza dell’economia, quale mezzo e strumento, è tale che in questo “luogo” appare un cospicuo segnale di come sta evolvendo la lotta tra i vari gruppi di agenti dominanti delle sfere politica ed economica nella loro congiunta azione strategica per assumere la supremazia. I capitalismi, nella loro successione storica, sono stati caratterizzati da fasi di imponente ondata innovativa (le cosiddette “rivoluzioni industriali”). In notevole misura, ovviamente, tali ondate si allargano ad aree più vaste, non limitate a singole formazioni particolari (in genere ancora paesi, nazioni). Tuttavia, malgrado gli “scienziati” (ideologi) dei dominanti si mettano subito in azione inneggiando alla libera circolazione globale di “tutto” (capitali, persone, idee, ecc.), la regia “occulta” della politica agisce in senso contrario, cercando di concentrare soprattutto in una formazione particolare la parte preponderante delle innovazioni di grande portata (che in genere hanno vaste ricadute in campo militare e dunque sulla potenza di ogni particolare formazione).
Nella lotta globale tra gruppi dominanti (decisori) si vengono formando filiere di potere a carattere internazionale che, avendo la “testa” in un paese che sta lottando per la supremazia o l’ha già assunta, si diramano in cerchi concentrici verso altri paesi e aree a diverso grado di sviluppo capitalistico (e con differenti caratteri capitalistici). Un paese (formazione particolare) riesce nel suo intento di preminenza sul piano mondiale (si apre allora l’epoca monocentrica) quando stabilisce un’adeguata filiera di potere, il cui aspetto più appariscente compare appunto nella sfera economica, in particolare in quella produttiva: tale paese concentra in sé il controllo della maggior quota dei settori e imprese della nuova ondata innovativa, stringendo “alleanza” (che implica dipendenza, comunque non autonomia) con gli agenti (sub)dominanti delle altre formazioni in cui restano prevalentemente collocati i settori e imprese delle passate “rivoluzioni industriali”. I quali ultimi, proprio perché relativamente più arretrati – non in senso tecnologico, per quanto riguarda i processi lavorativi, bensì per la tipologia produttiva – sono nella loro “maturità” quelli che danno maggiori contributi all’occupazione e alla formazione del prodotto nazionale. Facile è dunque l’azione ideologica dei dominanti al fine di mantenere questa filiera di potere che assegna la supremazia ad un dato paese; poiché le popolazioni vengono convinte che la non autonomia della maggior parte dei paesi è un bene per tutti, è un bene globale, legato al “libero scambio” di tutti i “fattori produttivi” (e logicamente delle idee, perché tale “libertà” è il “cacio sui maccheroni” per gli intellettuali inutili e chiacchieroni, gli “utili idioti” del potere).
Naturalmente, nessuna operazione di dislocazione internazionale dei vari settori e imprese (delle successive ondate innovative), nessuna manovra di potere – aggressiva o di aggiramento, di minaccia o corruzione, ecc. – può essere compiuta, in un mondo mercantile, senza il copioso fluire di denaro nelle sue diverse figure. Da qui l’aspetto finanziario che assume, nella sua parte più visibile, la suddetta filiera di potere, uno dei cui preclari esempi troviamo nei legami tra Usa e Repubblica di Weimar. Piaccia o non piaccia alle “anime belle” – che non capiscono un accidenti del vero carattere dello scontro fascismo/antifascismo, cui parteciparono con singolare incompetenza e ignoranza strutturale del problema i comunisti, che pure nel marxismo avrebbero avuto un acuto strumento di conoscenza – la filiera in questione fu troncata con netta decisione e violenza dal nazismo, che con questa scelta ridiede sviluppo impetuoso all’industria germanica. Si rilegga quella storia, per favore, lasciando per il momento da parte l’Olocausto, la seconda guerra mondiale, cioè tutte le indubbie
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perversità compiute da quel movimento storico. Si capisca infine perché vinse ed ebbe un chiaro sostegno popolare.
A questi “fatti” mi riallaccio quando affermo che la nostra Intesa e il nostro Unicredit – per non parlare del resto del sistema bancario governato da chi fu presente all’incontro sul panfilo Britannia e poi fu vicepresidente della Goldman Sachs – ben illustrano il carattere “weimariano” della finanza italiana odierna. A questi “fatti” mi riallaccio quando vedo nell’ultranefasta Fiat, dell’ultramaturo settore automobilistico, la capofila dei parassiti italiani. Dico parassiti non nel senso in cui nel marxismo ormai “trapassato” si pensava alla classe dominante divenuta infine un piccolo pugno di rentier. Intendo parassiti in altro significato; questi settori, che fanno parte in posizione (sub)dominante della filiera di potere che si diparte dagli Stati Uniti, non contribuiscono alla forza del complessivo sistema della formazione particolare Italia; essi vivono e prosperano perchè il tessuto produttivo del paese – non costituito semplicemente dal Capitale, da una parte, e dalla Classe operaia o Proletariato, dall’altra, secondo la visione dei dinosauri del “comunismo” e del “marxismo” ossificati – fornisce loro risorse per continuare ad essere i capobanda delle schiere, appunto subdominanti, che rappresentano le basi su cui poggia l’azione degli Usa alla ricerca di un predominio mondiale, anche se con modalità differenti (ma non troppo!) rispetto a quelle impiegate fino ad ora.
Quando affermo che occorre all’Italia una politica di maggior potenza – certo su base regionale, e anche abbastanza ristretta – non intendo riferirmi ad un vetusto nazionalismo, come credono alcuni nostri lettori, talmente invischiati nel vecchio pensiero del comunismo e del marxismo da non riuscire nemmeno ad avvicinarsi al problema che pongo; e che riguarda semplicemente la capacità o meno di rompere questa filiera di potere che ci lega agli Usa in posizione nettamente dipendente (o subdominante). Il netto ridimensionamento (di potere) della nostra finanza “weimariana”, dell’ultramatura Fiat – salvata dal dissesto da Obama (cioè dagli Usa) per funzionare da stuoino per i suoi progetti – è funzionale alla rottura della dipendenza in oggetto. La nostra convinzione – che si debbano convogliare le non eccelse risorse italiane verso i progetti dell’Eni, verso quelli di altri settori e imprese avanzati, “di punta”, in grado di staccarsi da una supina accettazione dei diktat degli Stati Uniti (e dalle loro esclusive “commesse” che vengono decise e poi magari abbandonate come e quando loro piaccia) – è sempre guidata dallo stesso intento.
Ho già però messo in chiaro che l’economia è strumento della politica, pur se questa è condotta, insieme, da gruppi di decisori delle sfere economica e politica; e dell’economia dovrebbe essere a sua volta strumento la finanza, che a tali compiti va però piegata dalla politica Non esiste, come pensava Schumpeter, una funzione del credito a favore dei settori innovativi (dell’ultima distruzione creatrice) per motivi di stretta convenienza economica (giacché nei nuovi settori i profitti sarebbero più alti). Questa è l’ideologia dell’economicismo, dei “fattori liberamente circolanti”, del mero calcolo di economicità in base al principio del “minimo mezzo” (l’efficienza). Questa è la “scienza” che vede il capitalismo semplicemente come un insieme di pezzi e parti (“intercomunicanti”) di un sistema puramente economico, privo di “diaframmi” (politici). Non è così. Esiste un sistema mondiale diviso in capitalismi, in formazioni particolari, in cui l’economia è certamente rilevante, ma quale strumento di lotta per la supremazia tra “aree” diversamente strutturate; non soltanto per quanto riguarda la sfera economica, ma anche (e soprattutto) quella politica, culturale, ecc. In questo senso ci si deve riferire alla potenza: non per smanie nazionalistiche, ma solo perché nessun “movimento dei lavoratori” – limitato in senso tradunionistico, cioè sindacale e redistributivo, come aveva cominciato a capire Lenin (solo cominciato però) – è in grado di conseguire l’autonomia di una formazione particolare, quella in cui si sviluppa la più efficace azione delle diverse forze sociali, malgrado le tante chiacchiere “internazionaliste” (veri specchietti per le allodole), uno degli inganni che poi, alla fin fine, funzionano per rafforzare la filiera di potere di cui già discusso.
4. Chi si batte senza cervello per i dominati – in base alle vecchie chimere del comunismo marxista, l’unico comunque che non abbia solo elucubrato bensì cambiato il mondo, non però come pensava di averlo fatto (ed è sempre stato così, in ogni rivoluzione, la vogliamo smettere di sogna-
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re?) – è esiziale e non farà che ribadire il peggiore dei domini, quello della filiera di potere che da un capitalismo (da una formazione di tal genere) si dirama in altri a struttura (subdominante) simile o invece differente. Non c’è alcun motivo, salvo che per gli abbarbicati a vecchie ideologie sconfitte, di pensare che i prossimi decenni saranno caratterizzati dalla fine del capitalismo tout court. Si svilupperà invece, con grandissima probabilità, la lotta (multipolare) tra un certo numero di formazioni particolari diverse – a quanto sembra, anche paradigmatiche di specie capitalistiche differenti – per la supremazia mondiale.
Nell’ambito di questa lotta – su scala internazionale che non potrà ovviamente non avere influssi su quella interna alle varie formazioni – si deve riflettere ai migliori (o meno peggiori) compiti da porsi. Se qualcuno vuol ancora fissarsi l’obiettivo del comunismo, della liberazione dell’Uomo, dello spirito di Comunità (e non so quali altre cretinate di filosofi che pensano il mondo forse guardando un mappamondo), vada pure a farsi benedire da qualche pretone di quelli che circolano ampiamente perché assai funzionali ai dominanti nella loro vocazione a rimbecillire ideologicamente i “sottoposti”. Con simile gente non discuto più. Con chi mi parla ancora del comunismo il mio atteggiamento sarà quello che terrò verso coloro che fanno ancora dell’antiberlusconismo. Sciocchi e meschini gli uni e gli altri.
Quello che conta è un orizzonte determinato, pur se non quantificabile con precisione in anni. Parlo spesso di 20-30 anni, ma è ovvio che si tratta di una pura indicazione di massima; voglio semplicemente riferirmi ad un’epoca di lunghezza tale da rendere comunque possibili e realistiche alcune previsioni, che si riveleranno – lo so già in anticipo – largamente inesatte. Sarà però proprio questa inesattezza a rendere possibile – come in ogni scienza – la correzione di rotta. Se invece si continua a chiacchierare sui futuri destini dell’Umanità, sul comuni(tari)smo, ecc.; allora si dovrà dar ragione a Popper per il quale i marxisti non si sottopongono ad alcuna falsificazione delle “fantasie”, che può sempre capitare di vagheggiare. D’altra parte, quei banaloni, che ad ogni secondo momento prevedono il crollo del capitalismo per sopraggiunti limiti dello sviluppo, sono stati smentiti tante di quelle volte che i loro “resti” vanno compatiti, ma anche sbeffeggiati.
Sono pochi i punti su cui è necessario sforzarci come gruppo (piccolo e impotente, lo so); anche se poi questi pochi punti si diramano in una serie di riflessioni teoriche e di analisi di fase da far “tremare i polsi”. Comunque è necessario seguire il possibile sfilacciamento della filiera di potere che gli Usa continuano a voler mettere in piedi, capendo quali sono le forze che possono (o invece non sono in grado di) contrastare tale paese che ancora nutre i suoi sogni “imperiali”, e quali i metodi da adottare per meglio conseguire lo scopo. E’ evidente che nessuno di noi crede che Russia e Cina siano differenti – quanto a rappresentanti di gruppi dominanti – dagli Usa. Nessuno di noi crede che Eni-Gazprom siano capitalisticamente “più buone” della Fiat o di Intesa e Unicredit (fra i dominanti nel nostro paese). Nessuno di noi crede a sinistra e destra quali forze politiche in grado di fare gli interessi di altri che non siano i gruppi dominanti.
Ciononostante, noi non siamo ideologi da strapazzo, filosofi preoccupati per le sorti dell’Umanità in generale, chinati magari a riflettere su quali possano essere le finalità per cui esistiamo, ecc. ecc. (e non perché si tratti di temi di scarso interesse in altro contesto). Noi non siamo ancora lì, inebetiti, a credere che “i proletari di tutto il mondo si uniranno” in folte schiere per abbattere tutti i tiranni. Quindi, seguiamo gli avvenimenti per chiarire ai lettori le manovre “sporche” (dal nostro punto di vista) degli Usa allo scopo di rinsaldare la loro filiera di potere tramite la UE e la nostra GFeID. Noi siamo per Russia e Cina, poiché vogliamo si indebolisca lo strapotere statunitense e si vada verso il multipolarismo, nel cui ambito anche una modesta potenza quale l’Italia possa giostrare e fare meglio i suoi interessi. Siamo nettamente contro la Fiat, nefasta azienda (e famiglia) fin dai suoi primordi (altro che Berlusconi; lì si annida “il grande corruttore”). Siamo contro la finanza à la Weimar. Siamo invece dalla parte dell’Eni e anche di Enel e Finmeccanica (sperando che questa si affranchi maggiormente dalle commesse americane). In Germania saremmo filo-“sinistra” (socialdemocratici alla Schróder) e contro la democristiana (ex “comunista dell’est”) Merkel. In Italia siamo invece ferocemente contro l’intera sinistra – quinta colonna antinazionale –
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e contro gente come Fini & C. (idem); mentre guardiamo con faccia assai meno feroce chi continuerà a favorire (e difendere) lo sviluppo di Eni-Gazprom (per qualsivoglia motivo lo faccia).
Nel contempo, siamo per la costruzione di un blocco sociale che difenda gli interessi del paese. E se qualcuno continua a dire che siamo meri nazionalisti (come all’inizio del ‘900), non avrà altra risposta che: non hai capito quasi nulla di quanto si sta qui dicendo perché il tuo cervello è ancora foderato di “prosciutto proletario”. Oggi, non esiste a mio avviso un vero blocco sociale capace dell’egemonia di cui scrisse Gramsci. Un blocco effettivamente egemonico esige l’accordo – sia pure al livello dell’ideologia: questa realtà travisata e adattata a interessi particolari (di gruppi dominanti), in grado però di conformare e uniformare la mentalità di milioni di persone nella credenza che si stiano perseguendo invece interessi comuni, generali – di più strati sociali disposti in verticale; da quello costituito dai gruppi dominanti a quelli più bassi e dominati, che si credono tuttavia partecipi di quel dato orientamento generale. E tale ideologico “comune” accordo è cementato dall’azione di gruppi intellettuali di prestigio, che in qualche modo credono realmente al pensiero ingannevole e illusorio che stanno forgiando. Non esiste simile condizione nelle formazioni particolari i cui vertici sono rappresentati dai (sub)dominanti. Il ceto intellettuale è totalmente avulso dalle “masse”, è un corpo separato autoreferente, spregevole, non crede in nulla salvo che nel farsi pagare profumatamente per pure e semplici menzogne, da esso propalate coscientemente e secondo i desideri dei committenti, i cui interessi coincidono con quelli dei loro omologhi del paese predominante.
5. Per costituire un efficace blocco egemonico è innanzitutto indispensabile staccare quella certa formazione particolare dalla dipendenza – di vario grado e intensità – nei confronti dei decisori centrali. Solo in una formazione dotata di autonomia è possibile (non certa) la costituzione di un blocco egemonico a più strati. La visione marxista d’antan, avendo colto correttamente la fine della borghesia, pensò che fosse aperta la strada al predominio sociale dei produttori associati (l’operaio combinato, il lavoratore collettivo cooperativo) con necessaria transizione al socialismo (primo stadio) e poi al comunismo (fase finale e definitiva). Non si era capito che era semplicemente alla fine il capitalismo borghese; tuttavia, nella nuova formazione sociale i “produttori associati” erano ormai la trasfigurazione ideologica della (non) classe operaia in senso stretto (gli operai di fabbrica); un ceto sociale incapace per sua natura di qualsiasi egemonia, soltanto in grado di condurre lotte tradunionistiche e sindacali perfettamente “in linea” con la riproduzione del sistema di rapporti capitalistici, che si realizza mediante periodiche rotture (innovative) e con porzioni (particolari) di formazione sociale (globale) che si rafforzano e avanzano, riconfigurando l’insieme complessivo, cioè mondiale.
Si tratta comunque di fenomeni di sconvolgimento rivoluzionario, non di mutamenti graduali e “riformistici”; ecco perché si sono confusi tali sommovimenti con il reale affossamento del capitalismo tout court. I(l) capitalismo(i) è proprio capace di rivoluzioni, di trasformazioni radicali; chi fa confusione a tal proposito crede spesso di compiere la rivoluzione contro il capitale mentre diventa supporto (violento) di quella dentro il capitale. Questo il significato dei movimenti fascisti, per nulla affatto delle semplici “rivoluzioni passive” né tanto meno processi reazionari guidati dal capitalismo più arretrato (agrario e finanziario). Questo però, in ultima analisi, anche il risultato della rivoluzione “comunista”, il cui vero sbocco finale (secolare) è l’attuale crescita di nuove potenze (e nuove formazioni sociali) come quelle russa e cinese, alternative alla formazione dei funzionari del capitale di matrice americana, il cui avvento – in sostanza già realizzatosi con la prima guerra mondiale – segnò l’esaurimento del capitalismo borghese.
Finita, per i cervelli che pensano, la stagione del comunismo – quello fondato su una analisi dei processi sociali e non quello fantasticato da cervelli in vena di puro filosofare senza costrutto reale, solo per ingannare i “deboli di spirito” e gli sbandati (gli odierni “sottoproletari”) al fine di soddisfare il proprio narcisismo intellettualistico – torna in tutta evidenza la necessità di processi, comunque non indolori né di lento “progresso”, che ridiano intanto autonomia alle formazioni parti-
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colari oggi “sovradeterminate” dalla loro, più o meno intensa, dipendenza rispetto al paese ancora predominante: gli Stati Uniti. Bisogna allora battere innanzitutto il blocco di potere (non veramente egemonico, come già detto) che, in Italia, è costituito da un insieme di settori economici (produttivi e finanziari) delle passate stagioni dell’industrializzazione (automobilistico e metalmeccanico in testa) con ampie porzioni di forze politiche (ridicolmente ancora divise in destra e sinistra e incapaci, non a caso, di polemizzare fra loro in termini di progetti e programmi) al loro seguito quali servi e sicari; e con ceti intellettuali anch’essi privi di qualsiasi dignità, disgustosi pupazzi pagati per diffondere l’infezione di pensieri rarefatti e vuoti (alcuni addirittura “ultrarivoluzionari”, altri ultrareazionari), recitando la pantomima del “confronto di idee”, mentre sono soltanto dediti a disorientare, a squalificare il pensiero, a confinare le “masse” nella loro diffidenza e rabbia, nel loro distacco dalla politica, nel darsi all’ascolto di tutto ciò che è evasione decerebrata e volgare, che solletica i “bassi istinti”, ma almeno non è pura autoreferenza di buffoni e presuntuosi con la pretesa di “pensare per tutti”, mentre nessuno capisce cosa stiano bofonchiando accapigliandosi fra loro.
Si deve dunque, solo come fase, appoggiare ogni dinamica – mai semplicemente economica, invece prevalentemente politica e in svolgimento più sul piano internazionale che su quello interno – che comporti il rafforzamento dei settori autonomi e che faccia indietreggiare quelli dipendenti, i (sub)dominanti: in Italia la GFeID con in testa la Fiat, la più nefanda forza nemica che continua a nutrirsi del “nostro corpo” alla guisa di un maledetto parassita. Nessuno schieramento politico italiano parla oggi chiaro in tal senso, pur se senza dubbio si è in grado di distinguere chi, troppo timidamente (e sempre coprendosi con dichiarazioni dimostranti grande debolezza), appoggia i nostri pochi settori di punta (chiave di volta è l’atteggiamento verso Eni-Gazprom) e chi, pur con tutti i discorsi anche ultraradicali, ultra antimperialisti, ecc. appoggia invece i parassiti.
Per dar forza ai flebili “vagiti” indipendentisti è però indispensabile che si trovino le vie adeguate per la costruzione del blocco sociale costituito, nella sua ossatura più robusta, dall’unione degli strati medio-bassi sia del lavoro dipendente (salariato) che “autonomo”. Chi continua ad agitare la bandiera del mero conflitto capitale/lavoro (sottinteso salariato, anzi spesso solo operaio) favorisce il divide et impera dei (sub)dominanti parassiti; anche se non vi è dubbio che vi è un problema di bassi salari. Chi solletica l’ira (non sbagliata in sé e per sé) dei ceti “autonomi” contro la piovra statale (fiscale) agisce spesso nello stesso senso. E altrettanto dicasi di chi fa pura agitazione contro i “fannulloni” del “pubblico”, anche qui approfittando del reale problema dell’inefficienza ancestrale e dell’elefantiasi dell’apparato amministrativo statale e parastatale italiano.
Questi sono dunque i problemi che – accanto ad una radicalmente nuova elaborazione teorica capace di spurgare il pensiero dai miti del passato – dobbiamo sottoporre ad urgente analisi. La riunione degli amici del blog, che abbiamo proposto, avrebbe poco senso se non si dibattessero tali problemi. Non ci rompa i c…. chi insiste con il comunismo, con il crollo del capitalismo, con la salvezza dell’intera Umanità in un futuro che sta solo nel cervello malato degli intellettuali “filosofesseggianti” (non è un errore di battitura), e via sbrodolando simili inutilità di fase (non in assoluto, poiché non stiamo parlando di questo né dell’Eternità o del significato del nostro esistere, del lontanissimo futuro di una “Nuova Umanità”, ecc. ecc.; tutti argomenti che hanno un senso, anche alto, ma non nel contesto della nostra discussione).
E visto che ci siamo, chiariamo anche un paio di altri punti, di più “basso livello” intellettuale. Non amiamo lo sviluppo in sé e per sé (comunque la si smetta di parlare di crescita o decrescita, poiché lo sviluppo è trasformazione con tendenziale aumento della potenza di un “organismo”). Solo gli sciocchi o i folli possono però credere che si battano i (sub)dominanti, e si crei minore dipendenza rispetto al paese preminente (gli Usa), senza adeguato sviluppo: certo da discutere nelle sue modalità, nessuno lo nega. Lo stesso dicasi per quanto riguarda possibili politiche volte alla formazione del blocco sociale già sopra accennato. Se c’è poco da distribuire, la politica di divisione dei non decisori è nettamente favorita a tutto vantaggio dei parassiti (ricordo che c’è anche il problema dell’immigrazione, su cui qui soprassiedo). Quindi, smettiamola con le puerilità (inverificabili) e dedichiamoci ad una seria ricerca di fase (e alle categorie teoriche ad essa confacenti).
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Infine: noi non abbiamo rinnegato, né abbiamo l’intenzione di rinnegare, il comunismo; di irridere i tentativi fatti in tal senso e per cui moltissimi sono morti. Disprezziamo quelli che intendono infangare quell’esperienza come fosse una lunga serie di crimini. Nessun crimine maggiore è stato mai commesso rispetto a quelli compiuti dal capitalismo (o capitalismi) nella sua plurisecolare ascesa. Semplicemente, ci rifiutiamo di sognare o di rinviare le speranze ad un imprecisato e indefinibile futuro. Marx formulò una realistica e credibile prospettiva comunista, con anche la sua indispensabile fase di passaggio (transizione). Lenin fu convinto di poterla realizzare in una specifica congiuntura storica; pur se va ricordato che l’originaria decisione rivoluzionaria fu presa nella convinzione d’essere preludio al rivolgimento in almeno un importante paese del capitalismo avanzato. Oggi – e non ripeto le riflessioni più che esaurienti sviluppate in questi ultimi decenni – abbiamo compreso una serie di errori di analisi e di previsione di Marx; e abbiamo preso atto dello sbocco effettivo del processo storico iniziato nel 1917.
A questo punto, ci rifiutiamo a semplici chimere, che del resto troppo spesso sono la scusa per piccoli gruppi di farabutti in cerca di cadreghini parlamentari e d’altro genere. Il comunismo reale è stato appunto un fenomeno troppo pregiato e nobile per scadere al livello dei furfanti o di minimi gruppi di sognatori solo “speranzosi”. Quindi, insistiamo sull’analisi di fase e sulla presa in considerazione dei compiti urgenti che l’attuale dinamica – in specie quella mondiale, con però evidenti ricadute in sede nazionale – ci pone. Chi fantastica, lo lasciamo al suo “sonno dogmatico” o alle “favole della nonna”. Alcuni dormiranno fino all’ultimo giorno della loro vita. Altri, ci auguriamo, si risveglieranno come la “bella addormentata nel bosco” (comunque noi non li baceremo; che schifo!).
26 maggio 2009
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