PER UNA STORIA “ANTICA”, MA DA CONOSCERE, di GLG

gianfranco[1]

Questo è un articolo scritto nel ’70 o ’71 (con pseudonimo) e pubblicato nello Zibaldone del “Che fare” nel ’73 per interessamento di Francesco Leonetti, personaggio che ricordo con piacere anche se non l’ho più visto da quasi trent’anni. Il saggio, evidentemente, è invecchiato nettamente, risente dei problemi e dei dibattiti teorico-ideologici e politici di un’epoca completamente (e inenarrabilmente) diversa da quella odierna. Per quei tempi però – e tenuto conto dello schieramento da me scelto per situarmi nella battaglia acuta di quei tempi anche all’interno del movimento detto, più o meno (s)correttamente, comunista – ritengo si trattasse di un tentativo di rendere coerente e meno ideologico il concetto leninista di partito in quanto “avanguardia” della “classe operaia”, anzi vera coscienza del proprio ruolo rivoluzionario che quest’ultima, in se stessa considerata, si riteneva non avere se non del tutto confusamente. Oggi ho cambiato di molto le mie idee e certamente valuto errata la stessa concezione degli operai come “classe”; ritengo che ci sia inoltre stato un completo travisamento della teoria marxiana che, trattando del lavoro salariato nella sfera produttiva, si riferì al corpo complessivo di questi soggetti “dal primo dirigente all’ultimo giornaliero” (III libro de “Il Capitale”, cap. XXVII).
Mi interessa sottolineare questa frase, contenuta già nella prima pagina dello scritto: “C’è da augurarsi soltanto che, venendosi in seguito a dimostrare l’impossibilità di mettere Lenin contro Marx, non si decida di dar vita ad una nuova ‘moda’, ‘superando’ Marx e sostenendo la validità attuale di un Bakunin o di un Proudhon o altri”. Passarono 5 anni e nel ’78 Craxi – supportato da due personaggi quali Luciano Pellicani e Luciano Cafagna – si inventò un Proudhon più realistico e rilevante di Marx. L’operazione non riuscì bene e credo proprio che Craxi e i due “complici” siano usciti dalla vicenda abbastanza ridicolizzati. Tuttavia, poiché il dirigente socialista non era stupido e nemmeno incolto, è ancora difficile capire perché mise in piedi quell’operazione. L’anno ’78 è certo un anno da ricordare: rapimento Moro, documenti interessanti mai trovati, indisponibilità del Pci (nella sua maggioranza) e della “sinistra” Dc a salvarlo, per motivi già da me elucidati in molte occasioni. Alle volte ci sono però coincidenze del tutto casuali. Quindi non traiamo troppe conclusioni. Comunque, concezioni come quelle esposte nello scritto fanno parte di una storia, che non credo sia soltanto mia personale.
FRANCESCO GRASSALA’ (Gianfranco La Grassa)
SULLA CONCEZIONE LENINISTA DEL PARTITO, OGGI
Pubblicato in “Zibaldone due” del “Che Fare” (a cura di Francesco Leonetti, Pomodoro, Di Marco), Feltrinelli 1973
1. Da alcuni anni a questa parte, molte mode si sono diffuse all’interno del movimento operaio italiano (ed europeo); o, per meglio dire, all’interno delle frange “antirevisioniste” di quest’ultimo. Fra le più importanti ricordiamo innanzitutto la “moda” trotzkista favorita dalla destalinizzazione revisionista. Ad un certo punto, però, si è vista l’impossibilità di un ritorno al “vero” Lenin, interpretato secondo la visuale di Trotzky e ci si è accorti che, in fondo, pur con tutte le sue deficienze ed errori, lo Stalin era stato il più corretto interprete del leninismo in quelle determinate circostanze storiche. Si è allora cominciato a sostenere che, in definitiva, le cosiddette degenerazioni staliniane erano implicitamente contenute nella concezione leninista del partito e si è iniziata così la “moda” luxemburghista. Non basterebbe più passare sul “cadavere” (teorico) di Stalin per tornare al leninismo “puro” ma sarebbe necessario andare “oltre” Lenin per tornare ad una corretta interpretazione di Marx (seguendo le indicazioni della Luxemburg appunto). Naturalmente all’interno di queste mode vi sono delle varianti; importane è quella di certi “trotzkisti” o “luxemburghisti” mascherati, i quali affermano – bontà loro! – che a quel tempo Stalin (o, rispettivamente, Lenin) avevano sostanzialmente ragione, ma che oggi acquistano totale validità le tesi di Trotzky o, rispettivamente, della Luxemburg. Questi ultimi in poche parole, sarebbero stati antiveggenti; avrebbero commesso soltanto il piccolo errore di essere teoricamente troppo avanzati rispetto alla pratica arretrata di quella certa situazione storica. C’è da augurarsi soltanto che, venendosi in seguito a dimostrare l’impossibilità di mettere Lenin contro Marx, non si decida di dar vita ad una nuova “moda”, “superando” Marx e sostenendo la validità attuale di un Bakunin o di un Proudhon o altri (e del resto siamo sicuri che qualcuno non abbia già iniziato tale tentativo?). Ci sembra evidente che è necessario avere pazienza, infinita pazienza con questi facitori di sempre nuove mode, anche perché non si può negare che i marxisti-leninisti abbiano molte colpe al loro passivo. Infatti più che indignarsi per l’offesa arrecata ai loro “idoli” non hanno fatto; o hanno generalmente fatto molto poco con un gran numero di citazioni dai “sacri” testi che – di per sé – non sono in grado di far fare molti passi in avanti.
2. A me sembra che un errore assai comune ai revisionisti e agli “antirevisionisti”, che seguono le varie mode, sia quello di voler “storicizzare” troppo. Non che tale esigenza non sia spesso giusta e possa far conseguire corretti risultati, ma anche in questo campo l’esagerazione porta ad aberranti conseguenze. Se ogni principio teorico nel campo delle scienze sociali derivasse esclusivamente da situazioni del tutto particolari, irripetibili e rigidamente situate nel tempo e nello spazio, sarebbe perfettamente inutile parlare di una qualsiasi teoria, ma – al massimo – di una storia delle idee e delle concezioni sulla società prevalenti in determinati momenti storici ed in determinate collettività umane. Ogni teoria è una generalizzazione tratta da eventi particolari, avvenuti nella pratica sociale, generalizzazione nata dalla interpretazione che di questi eventi viene fornita da uno o più “ricercatori”. La teoria formulata informa di sé la successiva azione di trasformazione delle realtà sociale e viene così sottoposta a verifica e ad eventuali correzioni (o viene negata nel caso di reiterato insuccesso totale nella pratica). Naturalmente, nessuno vuole sostenere che una teoria, una volta verificata, non debba più essere modificata per l’eternità, tramutandosi così in un dogma assoluto; è però certo che quanto più una teoria è generale, quanto più essa porta alla luce e chiarisce il senso delle più essenziali e profonde connessioni tra fenomeni sociali in settori estesi della società, tanto più la radicale modificazione di tale teoria richiede mutamenti radicali nei connotati di fondo dell’organizzazione sociale o di suoi ampi settori. Coloro che attaccano la concezione leninista del partito sostengono quasi unanimemente che tale concezione era giusta nelle condizioni particolari di un paese feudale ed economicamente arretrato come la Russia all’epoca dello zarismo. Essi non sembrano accorgersi che la concezione di Lenin nasce da una interpretazione più generale del rapporto tra avanguardia e masse, tra coscienza e spontaneità. Al fondo, vi è una attenta valutazione (la più generale possibile) della posizione della classe sfruttata (operaia) all’interno della società capitalistica.
3. La classe operaia nella formazione sociale capitalistica (così come del resto tutte le classi sfruttate all’interno di altre formazioni sociali precedenti) rappresenta la “negazione” di tale tipo di società. [Sia ben chiaro che, nonostante il termine usato, non intendiamo qui “civettare” con la dialettica hegeliana]. La classe operaia è l’elemento chiave del processo produttivo capitalistico. Essa produce tutta la ricchezza della società (nel senso lato del termine ricchezza). Essa viene però espropriata di tutto ciò che non è necessario al suo proprio mantenimento (in senso non puramente biologico, evidentemente). Tutto il plusprodotto (sempre crescente) serve al mantenimento della classe dominante, che tramite questo è in grado di sviluppare incessantemente tutta una serie di elementi sovrastrutturali raggruppati, generalmente, sotto le due categorie di cultura e politica. La classe operaia – all’interno dell’organizzazione capitalistica della produzione – non è in grado che di riprodurre se stessa (oltre al plusprodotto, che non le appartiene); essa non può uscire dalla condizione in cui è relegata. E non ci si riferisce solo alle condizioni materiali, che non possono migliorare ad un tasso superiore a quello di crescita del salario (costo di produzione della forza-lavoro), alla cui determinazione, come si sa, concorrono elementi storico-sociali (il tenore di vita medio sociale vigente in una determinata situazione storica). Si tratta però anche dell’orizzonte culturale che è singolarmente ristretto e che – in senso relativo, i livelli assoluti essendo del tutto inadeguati ad esprimere un fenomeno storico-sociale – viene continuamente compresso dall’enorme sviluppo e dalla sempre più capillare ramificazione della sovrastruttura culturale elaborata dalla classe borghese al potere.
E’ di moda parlare oggi di un sostanziale elevamento della cultura della classe operaia, facendo soprattutto riferimento all’espansione dei settori dei tecnici, ricompresi – almeno come fenomeno di tendenza – nel proletariato. Intanto non è corretto confondere uno strato di ceto medio, fosse anche in via di proletarizzazione, con il proletariato. I fenomeni di tendenza non debbono essere confusi con quella che è attualmente la situazione per quanto concerne tale strato di lavoratori. D’altra parte, anche circa l’effettiva portata di questa tendenza, bisogna andare cauti. In un sistema di capitalismo monopolistico vi sono pure meccanismi che tendono a rigenerare continuamente strati sociali intermedi. Importante per i capitalisti non è il mero processo produttivo, ma soprattutto il problema della valorizzazione del capitale e della realizzazione del plusvalore. Data la concentrazione monopolistica, perde relativamente d’importanza l’introduzione di innovazioni nelle tecniche produttive. Acquistano invece maggior rilevanza il problema dell’invenzione di nuovi prodotti (e il loro lancio sul mercato tramite opportune “politiche” di vendita) e quello della ricerca di nuovi sbocchi di investimento del plusvalore accumulato (non a caso i collegamenti tra imprese o tra settori produttivi diversi non avvengono sempre con integrazione o coordinamento dei loro processi produttivi, ma in molti casi si ha una semplice integrazione finanziaria o collegamenti di vario tipo nella politica delle vendite). Tutto ciò – tendenzialmente – comporta un’espansione di nuovi strati medi (di tipo “parassitario”, nel senso che il loro lavoro è del tutto inutile ai fini di un autentico sviluppo sociale). E questa tendenza può controbattere quella alla proletarizzazione di quel ceto medio, costituito soprattutto dai tecnici. Infine non crediamo si possa negare l’esistenza di una “aristocrazia” operaia come veicolo, all’interno del proletariato, di forti elementi della cultura e della ideologia borghesi.
Tale strato “elevato” di operai è strettamente connesso all’esistenza di consistenti strati di ceto medio, che – come già detto – sempre si rigenerano. [Oltre al ceto medio “parassitario”, di cui si è già detto, si ha sovente – soprattutto in periodi di espansione economica – un accrescersi del numero dei piccoli imprenditori organicamente collegati alle grandi imprese monopolistiche; per l’analisi di questo fenomeno rinvio ad un mio precedente articolo]. Gli strati intermedi complicano enormemente la lotta di classe sul fronte ideologico; essi impediscono che su questo piano vi sia un confronto più diretto e radicale fra borghesia e proletariato. Essi non sono però certo portatori di una terza ideologia; sono invece nettamente subordinati all’ideologia borghese (anche se talvolta con velleità “radicali” nei confronti della grande borghesia monopolistica). Tramite loro, quindi, la borghesia capitalistica (proprietaria dei mezzi di produzione) accresce il suo dominio ideologico sulla società tutta e – in certi periodi storici – riesce addirittura a “cementare” gran parte della collettività attorno alle sue “direttive” ideologiche (che sembrano essere al di sopra delle classi). In questo modo – approfittando naturalmente di particolarità storiche contingenti, ma anche del particolare tipo di sviluppo economico “concentrato” cui dà origine il monopolio – non si può negare che la borghesia monopolistica si serva dei “ceti medi” per influenzare e legare a sé gli strati più elevati della classe operaia e, tramite loro, stabilire la sua sostanziale egemonia sul proletariato in generale.
4. Ammettiamo pure, che in un sistema di capitalismo monopolistico la stratificazione sociale vada semplificandosi e non complicandosi e che il ceto medio sia prevalentemente costituito da tecnici in via di proletarizzazione. E ammettiamo ancora che nella classe operaia prevalga nettamente la tendenza alla sempre maggiore specializzazione della forza-lavoro. Anche in questo caso è contestabile l’affermazione di un sostanziale elevamento del livello culturale del proletariato, a meno che non si intenda per cultura una semplice somma di nozioni a-sistematiche. Innanzi tutto, non neghiamo che oggi, in molti settori produttivi, sia richiesta all’operaio e al tecnico una migliore conoscenza di intere parti del complessivo ciclo produttivo e, persino, un certo livello di cultura di base. Sarebbe però errato non accorgersi che, ancora oggi, accanto a questa vi è un’altra tendenza: quella che ha sempre agito durante tutto l’arco dello sviluppo della società capitalistica, la tendenza ad una sempre più spinta divisione del lavoro, con la riduzione della forza-lavoro a mera appendice della macchina, appendice per la quale non è richiesto uno speciale grado di abilità tecnica.
D’altra parte, la stessa forza-lavoro intellettuale all’interno della grande impresa (tecnici, amministratori, anche di grado elevato) è sottoposta ad un intenso processo di specializzazione dei propri compiti. Del resto, l’assunzione e il controllo da parte di tecnici, operai specializzati, ecc., di intere parti del complessivo ciclo produttivo non vanno disgiunti da una più intensa e totale applicazione delle capacità intellettuali della forza-lavoro qualificata al proprio lavoro, che è pur sempre un lavoro parziale. Non bisogna poi dimenticare che la cultura richiesta in tale tipo di forza-lavoro è soprattutto di natura tecnica e non ha niente a che vedere con quell’approfondimento sistematico del complessivo movimento del fenomeno sociale, che è la base di una vera autonomia culturale di fronte alle cristallizzazioni della cultura ufficiale (della classe dominante), che tende ad eternare quella particolare e storicamente determinata organizzazione sociale. Né si può veramente pensare che l’aumento del livello medio di cultura di base possa ovviare a questo inconveniente; e nemmeno può avere molta importanza l’aumento del “tempo libero”. L’enorme sviluppo e ramificazione delle sovrastrutture culturali della classe dominante (di cui abbiamo già detto) e il perfezionamento dei mezzi di diffusione e di penetrazione (tra le masse) della cultura borghese avviluppano in un intreccio fittissimo e soffocante la classe operaia. L’espansione della sua produttività e del plusprodotto si ritorce quindi – in questa organizzazione sociale – contro di essa, minandone sempre più ogni possibilità di autonomia culturale (autonomia dalla classe dominante), anche a causa – come già visto – dell’aumento dei ceti medi che di questo plusprodotto vivono. In un certo senso, anche per quanto riguarda i livelli culturali, si può parlare di impoverimento relativo del proletariato.
Quindi io penso che la classe operaia, nell’ambito della società capitalistica, non possa far altro che riprodurre le condizioni della propria esistenza e del proprio sfruttamento, anche per ciò che concerne i suoi orizzonti culturali; anzi, questi ultimi si restringono (relativamente) sempre più quanto più si sviluppa la società capitalistica. Il proletariato si “impoverisce” sempre più in tutti i sensi (validissime, quindi, rimangono le affermazioni di Marx che, infatti, non si riferiva ad un semplice immiserimento materiale). Il proletariato, per ciò stesso, è l’elemento “negativo” di questa organizzazione sociale; è cioè il polo della società in cui vanno accentuandosi tutte le principali contraddizioni inerenti al tipo di sviluppo caratterizzante tale società (sfruttamento crescente, ritmi di lavoro stressanti, condizioni di vita in relativo peggioramento, “miseria” culturale, ecc.). Tale classe è quindi direttamente interessata al rivolgimento radicale di questa società; essa rappresenta la base di ogni processo rivoluzionario. Gli elementi negativi visti sopra fanno parte delle condizioni “oggettive” della rivoluzione. Accanto a queste ultime è necessario si sviluppi pure un fattore soggettivo: la coscienza di classe, la coscienza che la classe operaia ha della necessità della rivoluzione. Non però una coscienza generica, che può condurre al massimo alla ribellione (sempre soffocata dalla classe al potere), ma una specifica coscienza delle direttrici secondo cui deve svilupparsi la rivoluzione proletaria, se vuole giungere ad abolire il sistema di sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
5. Quanto abbiamo detto alla fine del paragrafo precedente ci indica il punto di partenza per una corretta considerazione del problema del partito. Se le cose dette in precedenza sono esatte [molte di queste cose sono affermate anche nelle “tesi” del “Manifesto”, dove peraltro esse vengono stranamente portate a sostegno di una diversa concezione del partito e della rivoluzione], è evidente che la classe operaia, di per se stessa, ben difficilmente può giungere ad una coscienza “specifica” dei compiti della rivoluzione. In questo senso, Lenin affermava che essa, da sola, non va al di la di una coscienza “ tradunionistica” (cioè sindacale in senso lato). Nella lotta di classe, il proletariato giunge certamente alla coscienza del proprio sfruttamento (anche se ben difficilmente sa individuarne con precisione le radici); può giungere a comprendere che il suo nemico non è il singolo “padrone”, ma l’intera classe dei capitalisti e può rendersi conto, sovente, delle radici di classe dello Stato, che sempre interviene a favore dei “padroni” (anche se con un’azione di mascheramento, che – spesso – inganna buona parte degli sfruttati). Questa, però, è ancora una coscienza di tipo puramente negativo; importante, certo, perché può portare al rifiuto di ogni armonia di interessi, di ogni integrazione nel sistema capitalistico, ma non sufficiente a sviluppare un’azione positiva di trasformazione rivoluzionaria del sistema stesso.
L’operaio è inserito in determinati rapporti sociali, fra il quali sono prevalenti – ai fini della formazione della sua coscienza (alcuni lo chiamerebbero “istinto”) di classe – i rapporti di fabbrica, i rapporti esistenti tra lui e il “padrone” all’interno di una particolare struttura organizzativa indirizzata a certi fini dal “piano” del capitalista. E anche all’interno di questa struttura, ben difficilmente la classe operaia (salvo una minoranza più cosciente) sarebbe in grado di avere una visione complessiva dell’intero processo economico (produzione, innovazioni, politica delle vendite, politica degli investimenti, collegamenti finanziari, ecc.), che ivi si svolge. Questo soprattutto oggi, quando ogni gruppo monopolistico controlla tutta una serie di “fabbriche” (sovente in svariati settori produttivi) tra loro collegate magari soltanto da un punto di vista finanziario. Senza poi considerare che all’interno di tale struttura, i rapporti tra “padrone” e operai non son diretti, ma avvengono tramite una complicata serie di gradini gerarchici; la qual cosa rende assai più complessa la stessa lotta di classe. Ma non esiste soltanto questa struttura organizzativa. Vi è il mercato che collega tra loro tutte queste particolari strutture e che sembra affermare la sua legge non soltanto indipendentemente dalla volontà dei singoli capitalisti, ma anche indipendentemente dalla volontà di una data classe dominante. Vi è poi la sovrastuttura politica, Lo Stato, che è emanazione (mediato) di quest’ultima classe, ma che gode di una autonomia (relativa) in quanto tenta di coordinare l’intero processo sociale in vista del conseguimento dei più generali interessi della classe borghese. E altre cose ancora.
Certo, la confusione che alcuni fanno tra struttura e sovrastruttura può far loro pensare che i compiti di una forza rivoluzionaria siano semplificati rispetto ad un tempo; ma anche se le cose stessero in questo modo, non vi è subbio che l’enorme complicazione della struttura (in un capitalismo monopolistico) rende comunque sufficientemente complessi tali compiti, l’attuazione dei quali richiede una visione generale e unitaria di un processo sociale complicatissimo e contraddittorio, che si svolge secondo direttrici di non facile previsione a causa del groviglio di tendenze e controtendenze a cui esso è sottoposto. Una precisa conoscenza dell’intero processo sociale è quindi indispensabile, se non ci si vuol limitare a ribellioni parziali, che possono tutt’al più contestare singoli aspetti del meccanismo di sviluppo capitalistico, senza però incidere a livello più generale.
6. “Senza teoria rivoluzionaria non si fa la rivoluzione”. Tale frase vuol appunto indicare che soltanto una coscienza generale e completa dei meccanismi di sviluppo della società capitalistica può permettere un totale rivolgimento di quest’ultima. Non può bastare la semplice ideologia proletaria. Intanto perché il particolare punto di vista, da cui si pone la classe operaia nell’interpretazione della realtà in cui vive, è eccessivamente limitato rispetto all’estrema complessità dell’insieme sociale. Inoltre, ed è ancora più importante, tale ideologia – nell’ambito della società borghese – è conculcata, compressa, snaturata e battuta in breccia dall’ideologia della classe dominante, che si avvale del suo potere politico e del dominio che ha in campo culturale. Questi elementi sovrastrutturali sono di fondamentale importanza per cercare di assicurare la stabilità della “base” economica (rapporti di produzione) borghese. L’ideologia proletaria, se non vuole trovarsi in una situazione di permanente subordinazione, deve essere rafforzata da un’adeguata conoscenza del complessivo movimento della società. La lotta di classe in campo ideologico può essere combattuta con successo dal proletariato soltanto se quest’ultimo è armato di una teoria scientifica della realtà. Ideologia proletaria e teoria rivoluzionaria debbono essere strettamente collegate, non possono essere scisse l’una dall’altra, pena il continuo riflusso del movimento rivoluzionario su posizioni nettamente subordinate alla classe avversaria. La classe operaia non è però in grado di conseguite da sola, sulla base della sua lotta di classe contro il capitale, una visione generale e scientifica dello sviluppo sociale.
Come si è detto in precedenza, non è possibile per la classe operaia – all’interno della formazione sociale capitalistica – raggiungere una reale autonomia culturale; il potere che la classe economicamente dominante esercita e detiene nella sovrastruttura (politica e ideologica), è decisivo nel determinare la subordinazione culturale del proletariato, strettamente connessa alla sua subordinazione economica e sociale (il fatto che la tecnica e la stessa scienza siano piegate ai fini del capitale mi sembra confermare quanto ho appena affermato). E’ per questo che si afferma essere decisiva la questione del potere politico (la questione di sapere chi ha il potere in mano). Per rompere definitivamente ogni sua subordinazione, la classe operaia deve prendere il potere nella sovrastruttura; e per conseguire questo fine le è specialmente necessario il possedere una teoria generale di tutte le interconnessioni esistenti fra le varie parti della struttura e della sovrastruttura della società. Sembrerebbe quindi esistere un circolo vizioso; per diventare classe dominante, il proletariato deve prendere il potere politico; ma per far questo è necessario che esso si armi di una teoria generale, di cui non può, d’altra parte, entrare in possesso da solo con la sua lotta di classe, a causa del dominio politico e culturale della classe borghese.
La rottura del circolo vizioso si ha appunto con il passaggio alla “classe rivoluzionaria” di “una piccola parte della classe dominante” e in modo particolare di “una parte degli ideologi borghesi, che sono riusciti a giungere alla intelligenza teorica del movimento storico nel suo insieme” (vedi Marx-Engels, Manifesto, ecc., Einaudi, 1949, pag. 105). Quindi la teoria generale del movimento della società, che sta alla base della coscienza rivoluzionaria, è portata al proletariato dall’esterno; e su questo punto non vi sono subbi sulla concordanza di opinioni tra Lenin e Marx-Engels. Certamente la coscienza rivoluzionaria e la lotta di classe nascono dalle medesime condizioni oggettive, rappresentate dallo sviluppo della società capitalistica e dalle contraddizioni che la lacerano; ma esse “nascono una accanto all’altra ma non una dall’altra”. Una teoria scientifica della rivoluzione può essere elaborata compiutamente soltanto da appartenenti alla classe borghese, che è dominante anche nel campo della sovrastruttura culturale. Se le cose stessero soltanto così, naturalmente, la classe operaia non dovrebbe far altro che seguire passivamente i portatori della “verità”, gli intellettuali borghesi. Soltanto costoro sarebbero i veri elementi attivi, che fanno la rivoluzione; le masse operaie dovrebbero soltanto farsi guidare. In realtà, ogni teoria scientifica (soprattutto nel campo delle scienze sociali), ogni conoscenza razionale ed obiettiva della realtà non può essere indipendente dalla posizione di classe di coloro che la formulano. L’ideologia (di classe) influenza necessariamente la conoscenza scientifica; credere nella neutralità (rispetto al punto di vista delle classi) di quest’ultima non mi sembra possa essere considerato un atteggiamento marxista. Teoria e ideologia sono tra loro essenzialmente differenti, ma non si può immaginare una loro separazione, uno sviluppo dell’una indipendentemente dall’altra. L’ideologia, non accompagnata da una conoscenza scientifica della realtà, è pura mistificazione; ma altrettanto lo è una teoria che si pretende neutrale, al di sopra delle classi. E’ nel difficile equilibrio tra teoria e ideologia che progredisce ogni conoscenza umana.
Di conseguenza, quella frazione di classe borghese (“parte degli ideologi borghesi”) – che abbandona quest’ultima e si pone dalla parte del proletariato perché è giunta “all’intelligenza teorica del movimento storico nel suo insieme” – non può pretendere di porgere su un piatto d’oro la “verità” ai “poveri ignoranti”, non può pretendere che i proletari la seguano, perché essa possiede la Teoria (anche se magari si fa finta, con falsa modestia, di mettersi al “servizio del popolo”). Oggi, in modo particolare, possiamo vedere le disastrose conseguenze di questo modo di vedere le cose, che – più o meno mascherato – è alla base dell’attività di numerosi gruppetti di “ultrasinistri”. E’ evidente che gli intellettuali rivoluzionari devono realmente comprendere il punto di vista del proletariato, per organizzarlo e dirigerlo. Soltanto così si può avere una saldatura effettiva tra teoria scientifica (di cui sono sostanzialmente portatori alcuni membri della classe dominante, per i motivi già messi in luce) e ideologia proletaria (di cui non possono che essere portatori gli operai). E una saldatura difficile a farsi, a causa del dominio che ha in campo culturale l’ideologia borghese. Quando quest’ultima riesce a prevalere anche nel movimento operaio, abbiamo il “marxismo” degenerato dei secondinternazionalisti (Bernstein, Kautsky, ecc.) o dei revisionisti moderni da una parte e, dall’altra, quello altrettanto degenerato degli intellettuali piccolo-borghesi “ultrasinistri”, con un illimitato fiorire di mode che poco hanno a che vedere con la lotta del proletariato.
7. Teoria scientifica ed ideologia proletaria, quindi; conoscenza della realtà in cui si opera e punto di vista di classe. All’elaborazione della teoria contribuiscono soprattutto degli intellettuali “borghesi”, perché la subordinazione culturale della classe operaia, la struttura particolare in cui essa è inserita ed in cui si sviluppa la sua lotta di classe, le impediscono di accedere ad una conoscenza più completa, più generale di tutti gli aspetti del complessivo meccanismo di sviluppo della società capitalistica. Certamente, anche operai partecipano a questa elaborazione, “ma non vi partecipano come operai, bensì come teorici del socialismo… In altri termini, non vi partecipano che nella misura in cui giungono ad acquisire più o meno completamente cognizioni della loro epoca e a farle progredire” (Lenin, Opere scelte, Ed. Riuniti, pag, 113). Ma soltanto la più stretta fusione tra “teorici del socialismo” e la classe operaia può far si che una conoscenza più generale serva effettivamente al rivoluzionamento della società capitalistica e alla costruzione del socialismo. Questa fusione non può che avvenire in un solo modo, con uno stretto collegamento fra gli intellettuali rivoluzionari e gli elementi politicamente più avanzati della classe operaia, i quali sono così in grado di elevare continuamente la loro coscienza politica, acquisendo gli elementi teorici necessari.
Nel contempo, tali proletari avanzati – se (e fintanto che) mantengono effettivi legami con le masse – fungono da portatori del “punto di vista” della classe operaia e permettono quindi che la conoscenza teorica sia effettivamente indirizzata ad una attività pratica di trasformazione rivoluzionaria della società capitalistica secondo direttrici che rispondano ai reali interessi di tale classe (e che sono poi gli interessi di tutta la società, dato che “il proletariato non può emancipare se stesso se non emancipando tutta la società”). Tale strato di operai avanzati è decisivo nella formazione della coscienza di classe del proletariato (quella coscienza specifica e non generica, di cui abbiamo già detto); è questo strato a consentire la reale sintesi tra teoria scientifica (del movimento sociale complessivo) e ideologia proletaria. Se mancano questi proletari avanzati, noi abbiamo, da una parte, dei gruppetti di teorici (dei quali possono far parte anche operai, completamente staccati dalla loro classe) e, dall’altra, la classe operaia senza una specifica coscienza dei compiti che la rivoluzione impone. I primi – quand’anche si muovano nell’ambito della teoria marxista-leninista – sono portati spesso a snaturare tale teoria e ad adattarla agli interessi della classe dominante, in quanto essi non hanno la possibilità di ergersi “al di sopra” delle classi; la mancanza di effettivi legami con il proletariato tende a farli ricadere sotto l’influenza ideologica della classe cui appartengono. La seconda non è in grado di andare oltre una generica coscienza ribellistica. Essa non può nemmeno elaborare una ideologia in senso proprio, ma semmai frammenti di questa, un mero punto di vista operaio. L’ideologia proletaria, non corroborata da una teoria scientifica, non è nemmeno più un’ideologia, perché per elaborare in modo sistematico quest’ultima occorre un’autonomia culturale o il potere nella sovrastruttura e la classe operaia non ha né questo né quella, come già detto. Ora, il partito di tipo leninista, non è altro che la fusione degli intellettuali rivoluzionari con lo strato avanzato della classe operaia.
Il partito è quindi la sintesi tra teoria scientifica del socialismo e ideologia proletaria. In questo senso, il partito rappresenta l’avanguardia della classe, è l’espressione concentrata della coscienza rivoluzionaria di quest’ultima. Solo attraverso il partito, l’elemento “oggettivo” della rivoluzione (il tipo di sviluppo della formazione sociale capitalistica con l’accumularsi delle contraddizioni in essa insite, lo sfruttamento degli operai, il loro immiserimento relativo, ecc.) si salda con l’elemento “soggettivo”, la coscienza (specifica) di classe. Naturalmente, è necessario che questa avanguardia abbia i più stretti legami effettivi con il rimanente della classe. Soltanto così vi può essere un continuo elevamento del livello teorico ed ideologico di strati sempre più vasti di proletariato; soltanto così vi può essere effettiva direzione politica delle masse, che si basi essenzialmente sugli interessi reali di queste ultime e non sugli “ideali rivoluzionari” di qualche “teorico”. Lenin ha sempre affermato la necessità di questi legami; ha sempre sottolineato l’importanza del movimento delle masse, senza il quale non è possibile fare la rivoluzione. E incredibile sentire oggi della gente che attacca Lenin, sostenendo che la rivoluzione non può essere opera di una “minoranza illuminata”. Ma questa è una caricatura della concezione leninista!
[Molto spesso si muove a Lenin l’accusa di “giacobinismo”. Anzi, alcuni vogliono sostenere che fu Lenin stesso a definire “giacobino” il rivoluzionario, membro del partito. In una sua polemica con la Luxemburg, ecco cosa scriveva il rivoluzionario bolscevico (R. Luxemburg, Centralismo o democrazia?, Samonà e Savelli, pag, 98): “La compagna Luxemburg dice che con la mia definizione del ‘socialdemocratico rivoluzionario’ come giacobino legato alla organizzazione degli operai dotati di coscienza di classe ho caratterizzato il mio punto di vista più acutamente di quanto non avesse potuto fare qualsiasi dei miei avversari. Ancora una volta una inesattezza di fatto. Non io, ma P. Axelrod è stato il primo a parlare di giacobinismo. E stato Axelrod il primo a paragonare le nostre sfumature di partito con quelle dei tempi della grande rivoluzione francese. Io ho rilevato unicamente che questo è ammissibile solo nel senso che la divisione della odierna socialdemocrazia in rivoluzionaria e opportunistica corrisponde fino a un certo punto alla divisione in montagnardi e girondini… R. Luxemburg confonde qui la relazione esistente fra due correnti rivoluzionarie del XVIII e XX secolo con l’identificazione di queste stesse correnti. Se io dico, per esempio, che la relazione esistente tra la Jungfrau e il piccolo Scheidegg corrisponde alla relazione esistente tra una casa di quattro piani ed una casa di due, non significa affatto che io identifichi la Jungfrau con una casa di quattro piani. La compagna Luxemburg ha completamente trascurato l’analisi concreta delle diverse correnti del nostro partito”].
Lenin non ha mai parlato di una “minoranza illuminata”, ma dell’organizzazione d’avanguardia degli operai, che rappresenta il “cervello” della classe, che raccoglie e coordina tutti gli elementi accumulati disordinatamente dalla pratica della lotta di classe del proletariato e ne fa la base di una conoscenza adeguata e generale delle strutture sociali con la conseguente elaborazione di una linea strategica e tattica, lungo la quale dirigere il proletariato nella rivoluzione. Ma questo “cervello” deve essere collegato con tutte le sue fibre alla classe operaia; senza questi legami non soltanto non vi può essere una reale direzione politica delle masse, ma nemmeno è possibile cogliere quegli elementi della pratica sociale e quel punto di vista di classe senza i quali non vi è una effettiva elaborazione teorica generale di tipo rivoluzionario.
8. Quando si vuol sostenere che la concezione leninista del partito non è più valida attualmente ed in un paese a capitalismo avanzato, non è assolutamente sufficiente riferirsi genericamente alle diverse condizioni esistenti in quest’ultimo tipo di paese rispetto alla Russia del 1917. Bisogna invece dimostrare che nella società capitalistica sviluppata la posizione della classe operaia ha subito un mutamento radicale; che essa non è più subordinata materialmente e culturalmente rispetto alla classe borghese; che essa, quindi, è in grado di impossessarsi dei risultati dello sviluppo scientifico e culturale della società e di esprimere così – da se stessa e senza l’intermediazione degli intellettuali di origine borghese – una teoria scientifica della rivoluzione e della marcia verso il socialismo. Dopo quanto si è precedentemente sostenuto (soprattutto nei paragrafi 3-4), a me sembra evidente che così non è. La classe operaia subisce un processo di immiserimento culturale (relativo) e la sua subordinazione, sotto questo punto di vista, tende ad aggravarsi o, comunque, non si attenua. La società del capitalismo monopolistico “maturo” tende a differenziarsi ed a complicarsi sempre di più sia a livello di struttura che di sovrastruttura. La stratificazione sociale è sempre più complessa; esistono numerosi strati “intermedi” e la stessa classe operaia conosce un accentuato processo di differenziazione al suo interno.
Una visione generale e unitaria degli interessi di fondo del proletariato richiede sempre di più l’intervento del “cervello” di questa classe, richiede l’elaborazione e l’utilizzazione a fini rivoluzionari di una teoria scientifica complessiva dell’insieme sociale estremamente differenziato, cui ci troviamo di fronte; teoria senza la quale è impossibile superare il particolarismo di singoli strati o ceti della società. Il rivoluzionamento decisivo dei rapporti di produzione non si fa nei luoghi di produzione; è necessario che il proletariato esca da una visione ristretta delle singole strutture, in cui è inserito, per comprendere più compiutamente tutte le articolazioni e le interconnessioni tra le varie parti del sistema, sia a livello strutturale che sovrastrutturale. E tutto questo è compito precisamente del partito. Teniamo poi presente che uno degli aspetti più importanti dell’azione rivoluzionaria (di cui non ho finora parlato) è la “politica delle alleanze” del proletariato con altre classi o ceti. Tale “politica delle alleanze” richiede in modo speciale l’intermediazione di un partito che rappresenti la visione generale e scientifica della società e della rivoluzione da parte del proletariato (anche perché non esiste l’alleanza fra classi, ma fra espressioni politiche di queste classi). E questa politica di alleanze è infinitamente più difficile in un paese come il nostro che non nella Russia del ’17, proprio per la complessità della stratificazione sociale.
Tale complessità non può essere addotta a giustificazione del tentativo di dar vita ad una organizzazione politica molto articolata al suo interno e senza un preciso indirizzo unitario. Le alleanze tra classi e ceti diversi non possono passare all’interno dell’avanguardia proletaria, pena la sua totale paralisi (la lotta di classe si riflette all’interno dell’avanguardia, ma non certo la politica delle alleanze!). Il proletariato abbisogna di una teoria generale (ed unitaria) per fare la rivoluzione (e da questa teoria generale discendono anche le indicazioni precise circa le alleanze tattiche da stringere); e, come già detto, questa teoria viene elaborata e si fonde con l’ideologia proletaria nell’ambito del partito (intellettuali rivoluzionari e proletari avanzati). Non esiste quindi nessun motivo per rivedere radicalmente la concezione leninista del partito, proprio perché essa non si basa sulle condizioni (arretrate) esistenti in un determinato paese ed in una determinata epoca, bensì su considerazioni generali inerenti alla posizione della classe operaia nella formazione sociale borghese. Quanto detto, evidentemente, non implica che non possano esserci approfondimenti, sviluppi di questa concezione; quello che mi sembra debba andare rifiutato è il suo totale ribaltamento.
9. Vogliamo chiudere queste note con alcune considerazioni intorno alla democraticità o meno della concezione leninista del partito. Anche se non è stato detto esplicitamente, dovrebbe essere risultato chiaro da quanto detto fin qui, che il partito di tipo leninista richiede un notevole grado di centralizzazione. Nella lotta che si svolge (e che riflette all’interno del partito) tra concezioni teoriche ed ideologiche differenti che esprimono interessi di differenti classi (in ultima analisi si tratta di proletariato e borghesia, perché gli “strati intermedi” non sono portatori di una terza ideologia, ma fluttuano di qua e di là), è indispensabile la centralizzazione intorno alle “idee giuste”, intorno ad una teoria generale ed unitaria che esprima gli interessi di fondo della classe operaia, il punto di vista della rivoluzione proletaria e della costruzione del socialismo. Una centralizzazione prematura, di tipo puramente organizzativo, che si verifichi prima della elaborazione di una teoria (che non è una semplice accozzaglia di principi tratti dai “classici” sia ben chiaro) e di un programma politico rivoluzionario, può soltanto portare ad un aborto di partito; e di esempi ve ne sono a iosa! Ma il voler negare la necessità della centralizzazione di una effettiva avanguardia proletaria significa voler impedire l’elaborazione di una corretta teoria rivoluzionaria, voler favorire la commistione di elementi tratti da ideologie contrapposte, voler ribadire l’impotenza e la subordinazione della classe operaia di fronte alla classe dominante borghese. Ma vi è dell’altro.
L’organizzazione d’avanguardia, come già visto, è composta dagli intellettuali rivoluzionari (di origine borghese) e dagli elementi avanzati del proletariato i quali acquisiscono dai primi la teoria rivoluzionaria e garantiscono la sintesi di questa con l’ideologia proletaria. Naturalmente, sia tra gli intellettuali che tra i proletari avanzati esistono vari gradi di preparazione teorica, di capacità organizzativa e di direzione politica, ecc. L’avanguardia ha forma piramidale; è ristretta al vertice e si va allargando alla base. D’altra parte, se il partito ha effettivi legami con più vaste quote della popolazione, se la presenza dello strato (anzi degli strati, per essere più precisi) di operai avanzati garantisce la trasmissione di elementi della conoscenza teorica verso il basso e l’elevamento ideologico di gruppi sempre più numerosi di proletari, è evidente che, anche all’interno delle cosiddette masse, si verifica un processo di differenziazione quanto a grado di coscienza politica rivoluzionaria. La costruzione piramidale va quindi al di là dei confini dell’avanguardia, del partito. L’intera classe ci appare allora non più come un insieme caotico e indifferenziato di elementi, accomunati tra loro soltanto dall’assunzione di una analoga posizione nel processo produttivo capitalistico, ma invece come un complesso organico, contraddistinto da tutta una serie di “piani” che si susseguono l’un l’altro in senso verticale senza soluzione di continuità. E l’esistenza di questi diversi piani (o livelli) della coscienza di classe ad assicurare la necessaria circolazione delle idee dal basso verso l’alto e viceversa.
Dal basso provengono le idee che sono espressione immediata della pratica sociale del proletariato e della sua lotta di classe, idee allo stato ancora grezzo, affastellate insieme senza un ordine preciso e senza che possano acquistare, quindi, un più pregnante significato conoscitivo. I livelli più elevati si servono di queste idee come materia prima, le generalizzano, le collegano fra loro e ne fanno scaturire una conoscenza più scientifica, più complessiva della realtà sociale. Tale conoscenza viene poi riportata verso il basso onde possa servire come strumento di direzione e di coordinamento delle lotte parziali verso un unico sbocco rivoluzionario. In questa circolazione delle idee nei due sensi, ancora una volta ripetiamo che acquistano una funzione decisiva gli elementi avanzati del proletariato; essi sono l’anello di collegamento tra i portatori della teoria e il punto di vista della loro classe, rappresentano il catalizzatore della indispensabile simbiosi tra teoria rivoluzionaria e ideologia proletaria. La distruzione di questo anello è l’elemento fondamentale della degenerazione di un partito rivoluzionario in partito revisionista. La circolazione delle idee cessa all’interno della classe oltre che del partito. Non esiste più simbiosi tra teoria scientifica della rivoluzione e ideologia proletaria. I teorici si pongono al di sopra della classe. La teoria si sclerotizza e si riduce ad un insieme di formule dogmatiche. Il centralismo democratico si trasforma in centralismo burocratico. I teorici (dirigenti burocrati del partito) trasmettono ordini verso il basso (sia alla base del partito, sia alla classe). Questo è soltanto il primo passo; è evidente che la teoria, completamente staccata dal punto di vista di classe, tende a ricadere sotto l’influenza ideologica della borghesia.
E allora comincia l’attacco da destra ai dirigenti del partito. Si chiede maggior “democrazia” nel partito, il che significa soltanto maggior democrazia ai vertici del partito. Si chiede il “libero” dibattito di idee; il che significa l’immissione dell’ideologia borghese nel partito, il suo trionfo. Quest’ultima è assai più raffinata, più articolata in una serie di posizioni differenti (e che possono persino sembrare a volte contrapposte), pur se tutte non fanno che ribadire il dominio culturale e politico della borghesia. Tale differenziazione (molto spesso più apparente che reale) è dovuta a vari motivi. Innanzitutto, la borghesia è al potere da molto tempo ed ha potuto sviluppare una assai ramificata sovrastruttura politica e culturale. Inoltre, essa è diversificata in molti strati e ceti; questo, in modo particolare nell’attuale sistema capitalistico di tipo monopolistico, dove, ad esempio, la piccola borghesia può persino apparire radicale in certe sue critiche al monopolio. Infine, bisogna ricordare che la struttura economica borghese si basa sulla lotta concorrenziale e tale fatto si riflette anche nel campo delle idee e dell’attività politica. Quando nel partito trionfa il punto di vista della “democrazia”, abbiamo le “correnti” più o meno aperte o mascherate. Ma la “democrazia”, il “libero” dibattito, la circolazione delle idee (quand’anche tutte queste cose ci siano) si hanno soltanto negli organismi dirigenti. In basso sta la massa informe ed anonima degli iscritti, che fanno parte certamente del proletariato, ma non sono in grado di esprimere i loro reali e più generali interessi; essi danno soltanto una verniciatura proletaria ad un organismo ormai degenerato in appendice politica della classe avversa. Un rivoluzionario non può accettare un simile concetto di “democrazia”. Dal fatto che vi è sempre pericolo che il centralismo da democratico possa trasformarsi in burocratico, non se ne può fare derivare la necessità di introdurre la democrazia borghese nel partito. La centralizzazione è indispensabile al proletariato. Senza di essa, quest’ultimo è completamente in balia dell’ideologia borghese. Ma la semplice centralizzazione non basta, questo è certo. Bisogna garantire la circolazione delle idee dal basso in alto e viceversa; e questo richiede che si presti la massima attenzione alla formazione e alla conservazione dell’anello di collegamento tra teoria e interessi generali della classe, anello rappresentato dagli strati di operai avanzati. Quindi, il partito deve essere non soltanto l’organizzatore ed il cervello dirigente della classe, ma anche l’educatore, il centro di propulsione e di formazione teorica ed ideologica dei suoi militanti e di gruppi sempre più numerosi di proletari, anche al di fuori di se stesso.
Alcuni intellettuali e teorici di sinistra – che io penso credano sinceramente nella rivoluzione – tendono oggi a rimettere totalmente in discussione questo tipo di partito. L’organizzazione politica che essi prefigurano è però pericolosamente simile a quelle di tipo revisionista; non nella forma del centralismo burocratico, certo, ma in quella della “democrazia” interna, della “libera” circolazione delle idee, dell’articolazione in correnti (anche se non apertamente organizzate), che assicurino una “ricca” dialettica interna. In realtà, l’organizzazione preconizzata sembra soltanto garantire la coesistenza al suo interno di gruppetti di intellettuali con punti di vista teorici notevolmente differenziati tra loro, ma che, in ultima analisi, non possono non essere fortemente influenzati dall’ideologia borghese, proprio perché manca un effettivo legame con la classe operaia (non significa molto avere degli operai al seguito). Nel migliore dei casi, quest’organizzazione potrebbe conoscere una certa espansione numerica, ma senza una ben precisa articolazione in senso verticale. In sostanza, da una parte vi sarebbe un certo numero di proletari con un medio livello di coscienza di classe e con una media preparazione ideologica e politica (quando non si tratti poi di un livello mediocre e non medio); dall’altra, al vertice, vi sarebbe tutta una serie di gruppetti di teorici (pur se con la probabile presenza di qualche operaio), che si garantiscono la libertà di dibattito e di scontro fra le loro divergenti posizioni. Bisogna che certi compagni si rendano conto che una effettiva democrazia (proletaria) richiede una circolazione verticale delle idee (naturalmente in entrambi i sensi e non soltanto dal vertice alla base!) e non una circolazione orizzontale tra gruppetti di èlite. E una circolazione verticale richiede l’esistenza di un’organizzazione a struttura piramidale, con tanti livelli che siano situati uno di seguito all’altro, senza fratture fra l’uno e l’altro. E una costruzione di questo tipo richiede che il vertice sia uno e uno solo, fondamentalmente omogeneo e sostanzialmente concorde su una teoria generale e su un programma politico rivoluzionario. La democrazia proletaria è garantita non dall’esistenza di mille opinioni differenti ai vertici dell’organizzazione di avanguardia, ma dall’assunzione di un preciso punto di vista di classe nell’elaborazione e della teoria e del programma politico; è garantita dalla sintesi di teoria scientifica della rivoluzione e ideologia proletaria. In definitiva, la garanzia della democrazia sta in uno stretto ed inscindibile legame tra vertice del partito e classe, legame assicurato da tutta una catena di gradini intermedi, costituiti da elementi proletari che, da una parte, debbono elevare il loro livello di preparazione politica assorbendo tutta una serie di elementi teorici trasmessi dai gradini superiori e, dall’altra, debbono rinvigorire il punto di vista di classe nel partito trasmettendo verso l’alto gli elementi base di una teoria effettivamente rivoluzionaria, che son desunti dalla pratica sociale delle masse.
Certamente, l’esperienza della fallita formazione di vari gruppi m-l è stata traumatizzante. In quel caso, però, si era voluto arrivare alla centralizzazione prima della costruzione di legami con le masse, e soprattutto con nuclei di proletari di avanguardia; e prima dell’elaborazione di una teoria generale che rendesse conto delle particolarità dello sviluppo capitalistico italiano e dei compiti che nascevano per una forza rivoluzionaria. A causa di questo errore, molti compagni hanno ora la tendenza a sbandare in senso opposto, chiedendo l’introduzione della democrazia borghese nella futura organizzazione d’avanguardia. E un errore grave, denso di grossi pericoli. E da sperare che sia scongiurato, altrimenti si avrà un nuovo forte ritardo nella preparazione delle condizioni “soggettive” della rivoluzione.
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