PERFINO I MARXISTI RICOMINCINO A PENSARE
1. Nella Prefazione al Capitale, in un passo già da me citato, Marx ricorda che egli “tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti”. Gli uomini concreti, in tutta la loro complessità, sono dunque lasciati da parte onde considerarli solo quali maschere di rapporti sociali. Questo il punto di vista fondamentale. I rapporti sociali d’insieme che si stabiliscono tra gli individui sono certamente assai ricchi di sfaccettature, di sfumature, di angolazioni molteplici. E, per quanto considerati nella loro più ampia multilateralità, mai esauriranno la complessità indefinita della “realtà” sociale. I rapporti sociali di produzione, fulcro del concetto di modo di produzione, sono però assai più semplici: nel capitalismo, e secondo Marx, essi riguardano essenzialmente gli individui in quanto portatori delle funzioni concernenti la proprietà dei mezzi di produzione e la prestazione di forza lavoro venduta come merce. E’ come se la “realtà” fosse strutturata secondo una serie di livelli dei rapporti sociali: il livello della trama, a maglie molto larghe, che “regge” tuttavia diversi livelli di ordito a maglie via via più strette. Il modo di produzione, il concetto centrale della scienza marxiana, si interessa del primo, del livello della trama.
Gli uomini che entrano fra loro in relazione nei rapporti di produzione non sono quelli dotati di tutte le loro prerogative di individui umani. Questi ultimi non sono necessariamente a una dimensione, alienati, puramente schiavi di una società dello spettacolo, e tutta una serie di altre considerazioni unilaterali elaborate da “filosofi” sociali che sinceramente mi appaiono lontane dalla “realtà”. Tanto per fare un esempio piuttosto significativo di certa mentalità di coloro che hanno trattato degli individui in società, ci sono stati dei pensatori assai superficiali che hanno criticato la teoria neoclassica, quella dei concetti marginalistici, perché partiva dalla considerazione dell’homo oeconomicus. Orrore! L’uomo non può essere suddiviso in tanti spicchi, non deve essere privato della sua meravigliosa complessità di essere umano! Simili posizioni sono per me estremamente ingenue e vuote di effettivo significato. E’ più che lecito indagare questo essere secondo varie angolazioni, che non hanno alcuna pretesa di rappresentare diverse porzioni dell’uomo, ma solo di evidenziare alcune sue particolari funzioni, alcune sue prestazioni, poste comunque, pur secondo differenti punti di vista, come quelle decisive, quelle che ne determinano le principali azioni considerate strutturanti le maglie larghe, portanti, della trama di quella data società.
La critica al marginalismo deve mettere in luce che tale teoria presuppone la decisività e preminenza delle prestazioni (in specie, ma non solo, quelle economiche) degli individui, presi in sé e avulsi da ogni forma sociale; per cui tali (prest)azioni appaiono quali mere scelte individuali (e la teoria in questione è infatti una non banale, e tanto meno falsa, teoria delle scelte). Solo dopo (un dopo logico), si presta attenzione alla società, i cui rapporti a maglie larghe sono appunto definiti in base alle scelte individuali in questione. Marx parte invece preliminarmente dalla società. I rapporti che la definiscono non riguardano, per tale pensatore, scelte semplicemente individuali – e l’individuo non è un soggetto economico che si confronta con i beni che ha a disposizione per soddisfare i suoi bisogni – bensì sono relazioni, decisive e pur sempre a maglia larga, tra i proprietari dei mezzi produttivi e i “liberi” prestatori di forza lavorativa. Proprietario capitalista e “proprietario” di mera forza lavoro sono “uomini” nello stesso senso dell’homo oeconomicus dei neoclassici; cioè, in definitiva, non lo sono affatto, sono semplici portatori di funzioni. Solo che i neoclassici fondano la struttura decisiva dei rapporti sociali sulle scelte individuali – guidate da un presupposto sistema di bisogni – mentre Marx tratta le azioni individuali in quanto orientate, “in ultima analisi”, dalla struttura decisiva, quella appunto a maglie larghe, della società. In questo senso, gli individui della teoria marxiana, come appena affermato, non sono uomini, ma maschere di rapporti sociali, quei rapporti definiti di produzione nella loro storicamente determinata forma capitalistica.
In poche parole, esistono delle strutture oggettive – non formate da rapporti tra persone pensate nella loro complessità individuale di uomini – che costituiscono l’oggetto dell’analisi scientifica. Ed è ora di dirlo con chiarezza: la scientificità può riguardare anche la teoria formulata dall’economica tradizionale; in tal senso, la connotazione economica riguarda semplicemente la scelta, intesa però, in questa accezione, come un’azione orientata da criteri di razionalità strumentale tesi alla massima economizzazione dei mezzi indispensabili al conseguimento di uno scopo prefissato. Quest’ultimo è scelto dall’individuo umano nella sua complessità: può quindi essere un fine cattivo o buono, giusto o ingiusto; può essere egoistico o filantropico, ecc. ecc. Una volta però posto lo scopo, il singolo dismette la sua complessità umana, si trasforma in un soggetto razionale e decide come raggiungere quell’obiettivo nel “migliore” dei modi possibili, intendendo – nell’ambito di questa concezione – migliore come sinonimo di razionale, e razionale come sinonimo di impiego del minimo sforzo.
Questo è un punto di vista – crititicabile, e infatti un marxista non può esimersi dal criticarlo – ma non semplice ideologia, intesa nel suo senso di falsa coscienza. L’ideologico si insinua nella scienza economica neoclassica tramite il solito, non preavvisato, spostamento di significato. La semplice teoria (razionale) delle scelte – che, in quanto tesa a spiegare portata e senso (significato e direzione) di certe azioni individuali in una situazione data, ha carattere prettamente conoscitivo – viene mutata in una teoria della costituzione di società mediante attività individuali in genere di carattere egoistico; in tal senso la teoria detta marginalistica non fa che portare alle estreme conseguenze – e con “eleganza formale” (matematica) – la tesi smithiana della mano invisibile. Per questi motivi, è sufficientemente giustificato denominare neoclassica tale corrente di pensiero economico, malgrado la diversità piuttosto netta in termini di teoria del valore utilizzata (valore-utilità invece che valore-lavoro, il che significa la sostanziale identificazione del valore con quello d’uso) e la centralità posta nel consumo (e domanda) invece che nella produzione (e offerta).
Anche Marx sviluppa in definitiva un’analisi scientifica e si pone il fine (cruciale) di individuare, fra l’altro, la divisione in classi antagonistiche di ogni società storicamente conosciuta: le classi che producono l’intero prodotto e quelle che si appropriano del plusprodotto facendone il fulcro della loro azione tesa al dominio e all’egemonia sociale complessivi. Queste classi sono formate da “maschere di rapporti sociali”, da “persone che incarnano dati rapporti sociali”, ecc. Anche il pensiero di Marx subisce però una torsione ideologica da parte del marxismo: dalla maschera all’uomo. Esistono uomini proprietari (i “padroni”) e uomini lavoratori (gli operai). Così si è consumato lo sconvolgimento del senso dell’analisi scientifica marxiana, pur se questo processo è con quasi sicurezza quello che ha consentito la saldatura tra nascente movimento operaio e “dottrina” marxista. Senza questa torsione ideologica, Marx sarebbe restato nella storia del pensiero economico e sociale, ma non avrebbe dato il proprio nome ad un movimento che ha segnato un buon secolo di storia. Dopo Cristo (ancora in auge), Marx è probabilmente il personaggio che più a lungo ha orientato un imponente movimento di “masse”.
Naturalmente, man mano che il movimento operaio usciva completamente dal retaggio culturale del mondo contadino, man mano che gli operai diventavano sezioni assai diversificate di un mondo del lavoro salariato all’interno della formazione sociale capitalistica ad alto livello di sviluppo, il marxismo ha fatto la fine miseranda che sappiamo; restano ormai solo pochi santoni squalificati, rabbiosi, isolati più ancora degli “ultimi giapponesi a combattere”. Il cosiddetto tradunionismo – cioè l’abbandono di ogni velleità rivoluzionaria, anzi anche di semplice trasformazione appena un po’ radicale – ha conquistato per primo il movimento operaio inglese. Tuttavia, ci si consolava; l’Inghilterra, a quel tempo, era il primo paese ad essersi altamente industrializzato, ma era inoltre, e soprattutto, un paese colonizzatore per eccellenza. Non poteva esservi dubbio: la classe “universale” (operaia) – quella che aveva la missione, oggettivamente fissata in sede di dottrina, di emancipare se stessa e l’intera umanità – si era venduta (anzi, si erano soprattutto venduti i suoi capi, in genere “piccolo-borghesi” pronti a svendersi) per il classico “piatto di lenticchie” (niente male quelle “lenticchie”!) ottenuto grazie allo sfruttamento imperialistico. Poi però, sfortunatamente, la svendita si è andata generalizzando a tutto il mondo capitalistico sviluppato, man mano che questo (con sempre nuovi paesi che affluivano in esso, ivi comprese le sedicenti “grandi nazioni proletarie” come l’Italia) si sviluppava e raggiungeva la maturità del modo di produzione capitalistico.
Tanto valeva abbandonare la classe operaia, questa “venduta”. Gli eroi diventano allora le masse popolari dei paesi sottoposti alla dominazione imperialistica, che dovrebbero “accerchiare le città” (i paesi degli operai ormai integratisi nel capitalismo via consumismo). Oggi, francamente, anche questa ideologia, pauperista e miserabilista, si è del tutto esaurita (e meno male! Prima cadono le illusioni e prima, forse, si ricomincerà a pensare). Quella che, da ormai troppo tempo, è in pieno disuso è l’analisi scientifica condotta con la forza di Marx. Si chiacchiera a vanvera e basta. E sempre con l’l’Uomo in bocca; un pover’uomo degradato dal suddetto consumismo, dai mass media sempre più volgari, dallo spettacolo che invade tutta la nostra vita. Un pover’uomo alienato in ogni dove, piallato e reso una sottile tavoletta priva di tridimensionalità, che non pensa più, non ama più, non soffre più, che vede i morti veri e crede che siano videogiochi; e via con questa minestra, ormai riscaldata da decenni, ammannita da intellettuali che su questi piagnistei a comando ci guadagnano sopra bei soldi tramite i tanto vituperati mass media, per poter scrivere e apparire sui quali sgomitano e si odiano mortalmente fra loro; veri esseri disgustosi e piatti.
2. Evidentemente, quanto diffuso nei mass media che contano dai vari maîtres à penser non è del tutto destituito di fondamento. Tuttavia, ad ogni affermazione catastrofica se ne può contrapporre una consolatoria del tutto opposta, che è anch’essa (parzialmente) valida, poiché rappresenta l’altra faccia della “visione reale”. Spesso e volentieri, le differenti opinioni dipendono dall’ottimismo o dal pessimismo di chi sostiene certe tesi. E poi, in generale, ben si sa – basta conoscere un po’ di letteratura e di saggistica (e di cinema), ecc. – che ogni generazione imputa sempre a quella successiva gravi processi degenerativi e la crescente invivibilità del mondo; mentre la nuova generazione brontola per i lasciti della precedente che sono un grave fardello da portare, un cumulo di macerie su cui è difficile costruire qualcosa. Ovviamente, tutto questo dipende dal diverso “umore” delle generazioni al tramonto o invece all’alba. Tuttavia, lasciamo perdere tale umore e osserviamo più da vicino l’atteggiamento degli scienziati in merito all’analisi della società.
Uno dei più gravi disastri culturali – e in questo molti marxisti hanno le stesse responsabilità di una parte dei pensatori “borghesi” – è stato provocato dalla scissione pensata tra scienze sociali (e dell’uomo) e scienze naturali, perché le prime avrebbero un oggetto che è del tutto intrinseco allo stesso soggetto che fa scienza. Analizzare Luna e stelle significherebbe analizzare qualcosa che è a noi esterno e su cui non abbiamo influenza. Un po’ più complesso è il problema per quanto concerne le microparticelle giacché su queste possiamo influire con le nostre azioni conoscitive; ma, insomma, si tratta comunque di realtà esterne e prive di pensiero, di passioni, volontà e decisioni, ecc. Appena prendiamo a nostro oggetto di studio la storia, le strutture sociali e cose consimili (non parliamo dell’individuo umano!), avremmo a che fare con oggetti che sono gli stessi soggetti che fanno scienza. Una simile concezione non è però troppo lontana da quella primitiva che antropomorfizzava anche i fenomeni naturali. Alcuni pensatori e anche metodologi delle scienze sociali rischiano quindi di dover essere paragonati agli animisti.
Una struttura sociale è tanto reale (è una riproduzione della realtà) quanto lo è il modello del sistema planetario o, ancor meglio, il modello atomico di Bohr. Per non parlare delle superstringhe, o dei buchi neri, del big Bang e delle varie teorie cosmologiche più moderne. Una struttura sociale è uno schema ideale d’ordine che interpreta e prevede, che consente una serie di ipotesi, tanto quanto la struttura pensata, ideata, di una data realtà naturale. La confusione che viene fatta dipende da ciò che è stato già rilevato: certi studiosi (assai ideologizzati) spostano l’accento dalla funzione all’intera personalità degli individui umani, consentendosi così la possibilità di impasticciare ogni cosa e di dire tutto e il contrario di tutto. E’ ovvio che Popper ce l’aveva con gli olisti, ma perché si semplificava il compito credendo di confutare lo scienziato Marx mentre si trattava dei politici e dei filosofi del marxismo successivo, quelli di “padroni e operai”, quelli delle totalità generiche dove tutto è ammassato con tutto senza ordine, senza strutture, senza sistemi di relazioni, senza dinamiche in quanto sequenze (ipotizzate) di dati processi, ecc.
Non è Marx la reale causa di questo caos teorico, ma i marxisti – e non solo loro! – successivi. La scienza non tratta mai di uomini, ma di quelle loro sedicenti suddivisioni (ad es. l’homo oeconomicus) che sono invece funzioni (lo ribadisco: ipotizzate) poste in interazione fra loro secondo peculiari forme, tali da spiegare determinati processi che, assumendo certamente un prescelto angolo di visuale, vengono ritenuti quelli decisivi per interpretare specifici processi storici, particolari situazioni della fase presente, tendenze future, ecc. Nella scienza si fa tutto il possibile per evitare l’ideologia come falsa coscienza – e, se questa si insinua comunque, ciò non accade solo nella scienza sociale – ma si sceglie consapevolmente un punto di vista. L’economica neoclassica fonda la trama sociale – la struttura a maglie larghe – sulla primigenia funzione di scelta di ogni individuo dotato di beni scarsi da adibire, massimizzando il proprio utile, ad usi alternativi (i bisogni). L’interazione tra individui – non la società, si badi bene, ma solo un particolare tipo di intersoggettività ritenuta però decisiva ai fini sociali – segue come intreccio di questi rapporti tra soggetto (non uomo) e i beni scarsi di cui sopra, in definitiva come intreccio di alternative di scelta. Dire che questa è ideologia è errato; è un punto di vista, un angolo di visuale per approcciarsi ad un processo: l’intersoggettività come risultato di scelte dei singoli soggetti. L’ideologia consiste nell’inavvertito spostamento concettuale operato per cui la scelta soggettiva viene di fatto posta quale processo di costituzione della società, che viene così surrettiziamente sostituita alla mera intersoggettività; cioè, di fatto, la società viene confusa e dunque identificata con quest’ultima.
Marx si pone da un altro punto di vista, da un’altra angolazione. Non però quella della società degli uomini – in carne e ossa con le loro intelligenze e passioni, desideri e pulsioni, progetti, speranze e delusioni, ecc. – privilegiando poi, fra questi, i lavoratori. Quando, ad es., parla del lavoratore produttivo collettivo “dal primo dirigente all’ultimo giornaliero” (libro III de “Il Capitale”), Marx non si riferisce certo al dirigente o all’esecutore quali individui concretamente esistenti. Consideriamo, per un momento, un certo processo “storico” (tradotto in teoria). La funzione lavorativa, esercitata nell’artigianato medievale, era una fusione di lavoro intellettivo e manuale, di saperi produttivi e capacità esecutive, nel medesimo individuo. La dinamica oggettiva del modo di produzione capitalistico – strutturato dalla relazione tra proprietà dei mezzi di produzione e forza lavoro acquistata nel mercato – provoca la scissione di saperi e manualità mediante quelle trasformazioni che, per usare la terminologia di Marx, portano dalla sussunzione formale a quella reale del lavoro nel capitale. Del lavoro, si è capito bene? Non degli uomini lavoratori, che restano liberi, non schiavi! Che possono vendere la loro forza lavoro ad una proprietà capitalistica qualsiasi, anche se pur sempre ad una proprietà debbono venderla in quanto funzione lavorativa da unire ai mezzi di produzione.
Ora, sulla scorta dei processi di centralizzazione, e di finanziarizzazione, dei capitali, processi reali, non escogitati dalla fervida fantasia di Marx, questi suppose l’estraniarsi della proprietà capitalistica dalla funzione produttiva, che sarebbe stata assunta dall’insieme delle funzioni intellettuali (direttive) e manuali (esecutive) intrinseche a quello sforzo (energia) – finalizzato ad uno scopo – che viene chiamato lavoro, funzioni i cui portatori sono però ormai non più gli individui posizionati come artigiani (con al massimo la differenza nell’arte tra mastro e garzone), ma individui diversamente collocati nell’ambito del complessivo processo di lavoro, individui disposti secondo una gerarchia. Il lavoratore collettivo cooperativo non è quella data comunità di lavoratori concreti, uniti dagli stessi scopi, dagli stessi progetti e desideri, ecc. Ma neanche per sogno! Gli individui, lavoratori concreti, hanno intanto diversi gradi di cultura e frequentano ambienti differenti secondo criteri di maggiore o minore affinità. E poi, anche nell’ambito dello stesso status socio-culturale, c’è amicizia come ostilità, intesa come incomprensioni e divergenze, e via dicendo. La collettività concerne esclusivamente l’unione delle diverse funzioni, che Marx suppone mosse da fini produttivi diversi e antagonistici rispetto a quelli del conseguimento del mero profitto da parte della funzione proprietaria, profitto che è ormai, in realtà, un effettivo interesse percepito da quest’ultima in quanto essa sarebbe soltanto tesa a ottenere tale similrendita (finanziaria).
La collettività che esplica funzioni lavorative si applicherebbe alla produzione ed entrerebbe dunque in contrasto con i portatori di quella funzione ormai estranea agli scopi e metodologie produttivi; tale ultima funzione (i suoi portatori ovviamente) sarebbe solo interessata alle somme di denaro che dalla produzione si possono ricavare e che consentono consumi opulenti oltre al finanziamento della politica (e delle armi) e della cultura indispensabili a mantenere il potere. I membri del lavoratore collettivo – ai più diversi livelli di reddito, di cultura e di “buone maniere” – sarebbero tuttavia, in quanto uomini effettivamente esistenti, affetti da tutte le virtù e i vizi degli uomini in generale. Essi, inoltre, avrebbero introiettato per intero la competitività tipica degli organismi produttivi capitalistici. Non sarebbero stati cooperativi in quanto uomini concreti; avrebbero saputo farsi le scarpe l’un con l’altro, guardarsi con sospetto, spiarsi e “riferire ai superiori”, ecc. Avrebbero avuto piena consapevolezza dei metodi per fare carriera, e che quasi mai la virtù è premiata e il vizio condannato come in un bel feuilleton. Non si pensi ad un Marx ingenuo; conosceva bene gli uomini nella loro reale esistenza, ivi compresi i lavoratori. Semplicemente, egli pensava che i membri del lavoratore collettivo, nei confronti dei rentier, avrebbero infine dovuto tenere un atteggiamento grosso modo simile a quello dei contadini verso un proprietario terriero andato in città, che ormai non sapeva nemmeno più dove fossero le sue campagne e che si faceva inviare le rendite.
3. I membri del lavoratore collettivo non avrebbero manifestato nessuna particolare generosità nel cooperare; si sarebbe semplicemente acuito sempre più lo scontro oggettivo di interessi e mentalità con i rentier, funzione sociale antagonistica alla loro. Nel mio Capitalismo oggi ho indicato i motivi per cui, a mio avviso, le convinzioni di Marx su questo punto non si sono dimostrate esatte: gli agenti strategico-imprenditoriali non sono rentier, non sono così lontani dalla produzione pur se non si interessano delle vere e proprie funzioni – direttive ed esecutive – di quest’ultima. La loro funzione (sociale) è un’altra, non però prevista da Marx. Tuttavia, non anticipiamo; dobbiamo intanto proseguire con questo pensatore, e liberarlo delle “ingenuità” (talvolta assai peggio che ingenuità) dei marxisti. Quindi, lo ripeto con forza: basta con gli uomini in carne e ossa (ma solo nell’analisi scientifica, sia chiaro).
Continuare ad aver paura di perdere l’uomo concreto se lo si caccia fuori dalla sede in cui si fa scienza, è una sciocchezza. Non ci sono totalità che tengano; bisogna separare, scindere, distinguere. Chi osserva la luce nella sua interezza (quella bianca), e considera un attentato alla sua integrità il farla passare per un prisma onde scinderla analiticamente nei suoi colori, è soltanto un primitivo e, alla fine, in date contingenze potrà anche danneggiarsi la retina guardandola direttamente e senza schermo nella sua Totalità, nel suo Essere. Meno Essere e più funzioni; questa è la scienza. Nessuno scienziato pretende che questa sia tutto né che dia la felicità, né che faccia la rivoluzione, né che cambi da cima a fondo la triste condizione umana; essa è però in grado di dare aiuto, l’importante è non voler strafare.
Si vuol capire che questo è l’antiumanesimo teorico? Diciamo più precisamente: scientifico; questa precisazione risulterà chiara quando più sotto porterò la mia critica radicale all’operaismo. Comunque, nessuno è antiumano, nessuno vuol ignorare che dietro le maschere ci sono uomini veri. Ma in teoria (scientifica, ovviamente) non ci si dedica ad antropomorfizzazioni di tipo animistico. La Luna e le stelle, i quanti e le stringhe, le strutture sociali e i modi di produzione, il cervello e la psiche, debbono lasciare gli uomini da parte, pena quel processo di degenerazione ideologica che, ad es., il marxismo ha fatto subire a Marx, riducendolo a un filosofo dell’alienazione, a un agitatore politico, a un profeta millenarista dell’Avvento del Comunismo in Terra. Rivendico con forza il carattere di scienza del pensiero di Karl Marx. Lo ripeto per i sordi: la scienza incorpora un punto di vista, non obbligatoriamente una ideologia (quale falsa coscienza).
Per concludere, e riassumere, su questo punto. L’unica differenza che può sussistere tra scienze sociali e naturali è al massimo di grado e non di natura (ed è già una concessione forse inutile). Chi pone la differenza di natura, chi crea un fossato tra i due tipi di scienze, sostiene che, in quelle sociali, l’uomo teorizza su se stesso, ha sia per soggetto che per oggetto del suo far scienza lo stesso individuo pregno di valori, di visioni del mondo, di complessi culturali che lo orientano, che lo fanno camminare lungo strade che continuano a girare in tondo, per cui l’uomo in questione non deve nemmeno pensare che sia possibile porre se stesso al di fuori di sé. Mentre invece, nelle scienze naturali, l’oggetto (fisico, chimico, biologico, ecc.) sarebbe oggettivamente all’esterno dell’uomo che indaga. Andiamo per passi successivi.
Ogni tipo di realtà può essere sempre considerato composto di un numero “infinito” (nel senso di indefinito) di elementi, di cui non viene mai ad esaurimento l’ulteriore scomponibilità. In certe realtà, è sufficiente controllare alcuni di questi elementi (le variabili in gioco) per interpretare e/o predire qualcosa, di sensato e di ulteriormente rivedibile, circa i processi che le investono e le costituiscono. Talvolta, queste variabili in gioco – cioè quelle che sarebbe necessario controllare per avere una qualche sicurezza nelle nostre interpretazioni e previsioni – sono in effetti troppo numerose, difficilmente calcolabili, in specie per quanto concerne le possibili combinazioni (di numero elevatissimo) in cui esse possono entrare; le interpretazioni o previsioni che si fanno sono quindi poco affidabili, eppure nessuno rinuncia (e giustamente) a farle, perché è così che avanza la scienza, anche su vere e proprie sabbie mobili.
Tuttavia, sia chiaro che la scarsa affidabilità, connessa all’elevato numero di elementi (variabili) da calcolare e/o controllare, non riguarda in modo specifico le scienze sociali; si pensi a quelle biologiche o alla meteorologia, ecc. La sciocchezza è quella di affermare che, poiché l’uomo è oggetto delle scienze sociali, queste sono del tutto differenti da quelle naturali. La scienza sociale non ha come oggetto l’uomo: né il singolo individuo né insiemi (relativamente omogenei) di individui. La scienza sociale nemmeno si sogna di dividere in porzioni l’individuo o gli insiemi di individui; la scienza ipotizza certe loro funzioni e le fa interagire secondo opportune scelte di combinazioni varie. Se io parlo, ad es., del gruppo di agenti strategici (in generale) faccio supposizioni sulla(e) funzione(i) da esso espletata(e). Se poi voglio scindere tale gruppo negli agenti delle varie tipologie – economico-imprenditoriali, politico-militari, ideologico-culturali, o in suddivisioni ancora più spinte – forse che io mi metto a scomporre il complessivo gruppo strategico nelle sue varie porzioni o strati? Assolutamente no. Formulo ipotesi circa le differenti funzioni degli agenti economico-imprenditoriali, politico-militari, ecc. E poi, se mi interessa tornare al complesso, ma questa volta in quanto composto dai vari sottogruppi in reciproco intreccio, faccio interagire le funzioni ipotizzate. E così via. Tale è il comportamento delle scienze sociali. Il filosofo avrà i suoi motivi per parlare dell’uomo, di chiedersi chi sia, quali siano i suoi destini, se la vita abbia un senso, se la morte sia o no la fine di tutto per l’individuo, ecc. Lo scienziato, in quanto scienziato, non può e non deve assolutamente scendere su questo terreno, nemmeno sfiorarlo. Il filosofo chiacchiera, elucubra, più o meno “sapienzalmente”; lo scienziato pone soluzioni teoriche, che sono tuttavia eminentemente dedicate ad una applicazione pratica per determinati comportamenti vitali.
4. Potrei finire qui, ma non mi accontento. In fondo, è facile polemizzare con i marxisti che hanno ideologizzato Marx, riantropomorfizzando il suo punto di vista scientifico; oppure con quelli che lo hanno grettamente confinato nella teoria economica. Anzi, più che facile, è inutile dato che essi non hanno oggi molta udienza né influenza, così come accade invece per coloro che si pongono alla testa – pur se non certo di masse sterminate – dei no global, dei “disobbedienti” e di altri gruppi di stampo anarcoide e prepolitico. I marxisti ossificati si accontentano, in genere, di qualche posizione accademica (poche; qualcuna in più in paesi dove il marxismo non ha mai avuto gran diffusione politica e di massa), di qualche minimo seguito tra i “laici credenti” nel “Comunismo-Dio”. In Italia – e da qui ha trovato qualche diffusione, pur se non molta, in altri, pochi, paesi – ha avuto però un minimo di impatto una corrente che, all’inizio, si autodefinì operaista. Questa dizione è ormai scarsamente usata, perché gli operaisti sono tanti Zelig (il gustoso chameleon man di Woody Allen, che tuttavia era simpatico a differenza dei suoi imitatori di cui sto parlando) e mutano ogni due-tre anni la loro “epidermide”, si camuffano in una infinità di guise, sempre con il massimo disprezzo per l’intelligenza delle “masse” di giovinetti inesperti da imbambolare.
Dal punto di vista morale, non spendo parole su simili personaggi perché non potrei mai dipingerli così bene come Dostojevskij ne I Demoni, cui quindi rinvio come lettura di grande penetrazione conoscitiva a tale riguardo. Purtroppo, nell’Italia odierna ci sono gli analoghi dei russi amici del popolo, ma non quelli dei comunisti bolscevichi. Dal punto di vista politico e teorico, per quanto sia difficilissimo seguire le giravolte di questi estremisti-opportunisti, è però necessario dire qualcosa. Intanto, questi “bei tomi” – che al marxismo hanno inflitto lo stesso trattamento che la Germania nazista fece subire a Polonia, paesi baltici, ecc. – si sono presentati, quasi tutti provenienti dal PSI, negli anni ’60, scoprendo infine il Marx dei Grundrisse, dei materiali preparatori di quello che fu il Capitale (tra i materiali in questione e la massima opera marxiana, di cui l’autore pubblicò solo il I libro, intercorsero poco meno di dieci anni, di intensi studi di economia politica da parte di Marx).
Poiché gli operaisti non sono scienziati bensì “artisti” (anzi funamboli) del parlare impressionistico e senza connessioni logiche – con funzioni ipnotiche e non certo di invito al ragionamento, esattamente come quello utilizzato dai protagonisti del già citato I Demoni – si sono ricordati che, a volte, certi primi abbozzi di grandi pittori sono più prendenti dei quadri completati. Così, essi dichiararono “al colto e all’inclito” – senza aver mai studiato il Capitale – che il Marx dei Grundrisse era quello vero, era già andato “oltre Marx”, quello dell’opera pubblicata. Non contenti di questa palese cialtroneria, essi estrassero dalle molte centinaia di pagine dei Lineamenti, già di per loro del tutto frammentarie, alcuni segmenti – tipico il famoso Frammento sulle macchine – e ne fecero il loro effettivo cavallo di battaglia. Così, mentre in un ben noto passo delle Glosse a Wagner (uno degli ultimi scritti di Marx, redatto verso il 1880), Marx afferma che il “soggetto della sua analisi è la merce”, gli operaisti – sulla base di materiali frammentari scritti tra il ’59 e i primissimi anni ’60, cioè vent’anni prima – si inventano, perché di sicuro non possono essere confortati da alcuna dichiarazione di Marx, che il soggetto è il processo di lavoro. Tutte le sciocchezze sull’estensione del piano dalla fabbrica alla società, sulla società che prima, appunto, è come una grande fabbrica, mentre poi è quest’ultima che si struttura come la società con una diffusione e dispersione dei micropoteri – pessimo modo di apprendere la lezione della foucaultiana microfisica del potere! – nell’intero territorio della società stessa, derivano da questa interpretazione che, si badi bene, è assai peggiore di quella kautskiana, alla quale qualcuno ha voluto assimilarla. Nulla di più errato, e vediamone il perché.
Il “Papa rosso” fondava certe sue ben note tesi sulla teoria della concorrenza intercapitalistica formulata da Marx, dalla quale, tramite prevalenza dei più forti, si sviluppa il processo di centralizzazione monopolistica dei capitali. Tale impostazione analitica veniva portata alle sue estreme conseguenze da Kautsky, rendendo unilineare la tendenza al monopolio, con grave sottovalutazione sia della necessità della competizione intercapitalistica, in specie ai fini della realizzazione del plusvalore, sia delle innovazioni, soprattutto di prodotto ma comunque anche di processo, che segmentano ulteriormente la divisione sociale del lavoro e portano alla creazione di nuove branche produttrici di merci – nuovi prodotti e nuovi metodi produttivi che richiedono la produzione e uso di nuovi strumenti e mezzi produttivi, sempre in forma di merce – impedendo così la formazione di un unico grande capitale unificato. Grazie all’unilateralità della sua concezione, Kautsky formula allora la teoria dell’ultraimperialismo, che si fonda appunto sull’idea che, alla fine, si formerà un unico trust proprietario, ovviamente di carattere eminentemente finanziario e con possesso di azioni completamente accentrato in un solo gruppo di capitalisti (nemmeno più, quindi, una vera classe sociale).
Si tratta comunque di un processo, che si attua tramite concorrenza tra gruppi capitalistici di dimensioni (monopolistiche) crescenti, una concorrenza dunque aspra e di forte impatto per un buon periodo di tempo, prima del suo presunto acquietamento finale nella formazione di un grande trust capitalistico mondiale. Non a caso Lenin, incapace di contrastare adeguatamente sul piano teorico tale tesi kautskiana (e hilferdinghiana) cui fece invece troppo ampie concessioni, poté sostenere che, prima di arrivare alla centralizzazione definitiva, gli acuti contrasti intercapitalistici, diventando interimperialistici e coinvolgendo gli Stati in violente guerre mondiali, avrebbero innescato la rivoluzione proletaria; a partire dai famosi “anelli deboli”, ma con tendenziale estensione, durante quell’epoca cui la Rivoluzione d’ottobre dava inizio, a tutto il resto del mondo capitalistico. E mi si permetta di dire che, per un buon pacchetto di decenni, tale teoria è apparsa assai realistica e convincente; almeno fino alla vittoria dei comunisti vietnamiti e indocinesi (eravamo già negli anni ’70). Proprio per questo realismo si creò quell’ottica, indubbiamente errata, per cui sembrò per un paio di decenni almeno che la rottura prodottasi nel movimento comunista internazionale, la scissione tra “filosovietici” e “filocinesi”, fosse la riedizione dello scontro politico e teorico tra Kautsky e Lenin, tra un neorevisionismo e un neoleninismo.
Le tesi operaiste non consentono di pensare nulla di tutto questo. Il processo cui fanno riferimento è un finto processo, è il generale inghiottimento di ogni materiale in un “buco nero”, che avviene rapidamente e senza ordine alcuno, senza che se ne possano indicare alcune tappe, alcune sequenze. La centralità del processo di lavoro mette completamente da parte ogni conflittualità intercapitalistica; gli unici soggetti in gioco sono capitale e lavoro, il Capitale e la Classe (operaia). Possono esserci le variazioni già considerate: la fabbrica come immagine della società rigorosamente posta sotto il Comando dispotico del Capitale, o invece la società come immagine della fabbrica, completamente disseminata, decentrata, “esplosa” nel suo indotto. Il potere (comando) capitalistico ora è del tutto centralizzato – e ha il suo “cuore” nello Stato, da annientare (magari, secondo alcune “schegge impazzite”, tramite assassinio di suoi funzionari o agenti politici) – ora invece si frastaglia, sfugge all’ira dei proletari, nascondendosi nelle maglie della società. Il Capitale (centrale) muore, esplode, si multinazionalizza, anzi poi si transnazionalizza, si appiatta, si mimetizza, ormai terrorizzato dalla violenza di quei “terribili” ammucchiamenti di macchine desideranti – desideranti il Comunismo – che sono diventate le masse proletarie. Proletari, poi, possono esserlo tutti, dato che dove sia il Capitale nessuno lo capisce più bene. Chi grida al comunismo, chi vuole il comunismo, chi pretende il comunismo, è già un comunista perfetto e ha già fatto la sua rivoluzione comunista. Che poi non sappia nemmeno di che cosa stia parlando è assolutamente inessenziale; all’intellettuale basta sproloquiare e apparire, al seguace basta il cuore o la pancia o la tasca.
Ben ci si accorge allora che il povero Kautsky non c’entra per nulla. Era un “rinnegato” – si diede molto da fare affinché i lavoratori andassero alla guerra interimperialistica, facendosi massacrare per gli interessi delle loro “borghesie” – ma non era “scoppiato di testa”. Sapeva chi erano i capitalisti e chi gli operai, sapeva che esistono centri di potere in lotta, blocchi sociali variamente articolati fra loro e al loro interno; sapeva che la lotta politica richiede opportune strategie, formulate ed eseguite da determinati gruppi di agenti, conoscendo il terreno di lotta, valutando le proprie forze e quelle dell’avversario, ecc. Era positivista, determinista, un tantino schematico, ma non era in preda al delirio, alla farneticazione. E aveva l’idea del processo, non della precipitazione immediata delle contraddizioni. Predicava che, alla fine, si sarebbe realizzata la prospettiva ultraimperialistica, ma non che, fin da ora e anzi da sempre, l’affrontamento è tra Capitale e Classe dentro il processo di lavoro. In definitiva: aveva letto la prima sezione de Il Capitale, non era subito saltato alla quarta, ai metodi del plusvalore relativo, ai capitoli su cooperazione, manifattura, grande industria! Per certi versi era una persona seria, che studiava e ragionava, non un raffazzonatore di briciole di cultura pseudomarxista come gli operaisti italiani.
Secondo la mia opinione, inoltre, questi ultimi sono dei veri antiumanisti pratici, non semplicemente teorici. Abbiamo già detto del marxismo, quello iniziato in definitiva da Kautsky, che ha inavvertitamente spostato l’accento dalle funzioni agli uomini: dalla proprietà dei mezzi di produzione ai proprietari capitalisti (o padroni come detto soprattutto in gergo sindacale), dalla forza lavoro alla classe operaia o dei lavoratori (degli uomini che lavorano). Gli operaisti sembra che parlino apertamente e direttamente dei proletari nella loro concretezza di individui della specie umana lavoratrice, delle masse o moltitudini o come si pregiano di volta in volta di definire il “soggetto rivoluzionario”. In realtà, essi trattano di una sola funzione di queste masse; non quella produttiva, tipica della marxiana forza lavoro, ma quella di radicale insubordinazione al Comando del Capitale, quella del bisogno di comunismo, della riappropriazione delle proprie funzioni più essenziali, desideranti, ecc. Non mi interessa seguire tutte le versioni fornite di queste funzioni che comunque non riguardano mai, come già detto, la produzione, per cui non esiste problema di plusprodotto in nessuna sua forma, quindi nemmeno in quella specificamente capitalistica di plusvalore.
La teoria del valore è negletta dagli operaisti non perché vada incontro alle sue ben note aporie logiche. Della teoria del valore non c’è alcun bisogno per il semplice fatto che tutto è giocato o sul piano di uno scontro di potere, tra dispotismo del Capitale e insubordinazione Operaia; oppure su quello del consumo. Si parla, ad es., di bisogno di comunismo, ma nessun operaista indica che tipo di società sia, poiché non è un modo di produzione in senso marxiano né una qualsivoglia altra immagine di struttura sociale; è semplicemente un modo di appropriarsi i valori d’uso da consumare, essendo indifferente il come (cioè la forma dei rapporti sociali entro cui) essi vengono prodotti. Si parla, ad es., di macchine desideranti, cioè ancora una volta di consumi e di redistribuzione (violenta) di ciò che è stato prodotto. Se si vuole, si potrebbe scherzosamente – ma non irrealisticamente – sostenere che poiché, in senso proudhoniano, la “proprietà è un furto”, tanto vale opporle il “furto proletario”.
Come gli operaisti se ne infischiano del modo di produzione – non semplicemente della teoria del valore! – così pure non interessa loro definire in alcun modo l’imperialismo. Questo non è una fase del suddetto modo di produzione; magari non la leniniana “ultima o suprema fase” ma comunque una particolare struttura del capitalismo e della conflittualità intercapitalistica. No, nient’affatto: l’imperialismo è un altro modo di declinare superficialmente il Comando del Capitale. Un tempo questo era pensato concentrarsi soprattutto nello Stato; ora gli Stati sono finiti, superati, e il comando è disperso, disseminato in ogni dove. Tale comando però si oppone comunque al consumo delle “masse”; queste ultime – senza minimamente curarsi di chi produce plusprodotto/plusvalore e di chi invece se ne appropria per fondare il proprio potere, ma in una acuta lotta tra frazioni dominanti – debbono solo arraffare quanto più si può di valori d’uso. Il loro comunismo si riduce di fatto, coperto da una fraseologia roboante e ultrarivoluzionaria (sempre I Demoni di Dostojevskji!), a questo arraffamento, per conseguire il quale sono pronti a tanti compromessi con chi finanzia piccole imprese di servizio, magari no profit, o perfino banche etiche o altre “lungimiranti e generose” intraprese atte ad accoccolarsi nel miglior modo possibile, con il minimo sforzo possibile, nelle maglie economico-finanziarie di società “opulente” come quelle a capitalismo altamente sviluppato.
La classe lavoratrice – da cui essi originano la primitiva denominazione (operaisti) – è considerata superata in quanto soggetto rivoluzionario, non in base ad analisi delle dinamiche conosciute nell’ultimo secolo dal modo di produzione capitalistico (lo ripeto: gli operaisti non sanno nulla, oltre al nome, di un modo di produzione) così diverse da quelle previste da Marx, ma solo perché è del tutto superfluo fare distinzioni tra chi lavora e produce e chi no, tra chi presta lavoro esecutivo e chi quello direttivo, ecc. Gli operaisti, ad onta della loro denominazione d’origine, sono fondamentalmente dei sostenitori del consumo e dell’appropriazione diretta e immediata dei valori d’uso, cioè del soddisfacimento dei bisogni di neoclassica memoria, adattato però alle masse o moltitudini che desiderano, vogliono, pretendono fin da subito, il comunismo.
Questi esiziali individui sono stati pompati, intelligentemente, da tutta la stampa dei dominanti, che li ha fatti passare per il prototipo dei marxisti rivoluzionari, mentre essi né con Marx né con il marxismo hanno nulla a che spartire; possono al massimo ricordare, di volta in volta, gli anarchici, Proudhon, Dühring, e personaggi similari, contro cui Marx e i marxisti hanno sempre combattuto (e non solo teoricamente). Grazie però all’accorta pubblicità fatta loro dalla suddetta stampa, gli ambigui, ambiziosi, cinici, pericolosissimi, intellettuali d’origine operaista hanno avuto trent’anni di tempo per annientare il vero, anche se deficitario, marxismo, per cancellarlo dalla memoria delle nuove generazioni, in ciò servendo mirabilmente gli interessi delle classi dominanti. Anche adesso, mettendo le mani sull’imperialismo, che per loro non è un concetto ma un semplice flatus vocis, stanno seminando l’ideologia di un Impero senza centro, dunque senza veri dominanti, senza blocchi sociali, senza alleanze e conflitti interimperialistici, senza forze autenticamente antimperialiste salvo quelle che boicottano la Coca Cola o la Bayer, ecc. Ancora una volta, stanno lavorando per il nemico, per i dominanti (se gratis o meno, non mi interessa, anche se li penso strapagati sia in denaro che in ottime posizioni in apparati vari, e non sempre visibili). Gli operaisti sono quelli che “innalzano la bandiera rossa per meglio affossarla”, come dicevano un tempo i comunisti cinesi dei “neorevisionisti”. E l’hanno sempre innalzata per meglio affossarla, fin dal lontano 1968.
5. Torniamo a ciò con cui avevo iniziato. Il marxismo tradizionale ha “tradito” lo spirito scientifico di Marx sostituendo l’uomo (capitalista e operaio) alla funzione. Con questo “tradimento” si è dato la zappa sui piedi. Ha fatto come colui che, entrato in una grande città con una mappa della stessa, non se ne serve adeguatamente perché vuole, in ultima analisi, incontrare gli uomini veri; per cui si ferma nella prima osteria in cui si imbatte, onde sentire il calore umano degli “allegri” avventori. Poi esce, si immerge a casaccio nell’ombra dei vicoli e infine entra nella prima Chiesa dove, forse, verrà detta una messa e potrà godere dell’intenso raccoglimento dei fedeli ivi riuniti. Ecc., ecc. Tutto bello e avvincente, ma la mappa gli sarebbe servita per raggiungere meglio e più speditamente i suoi scopi. Se poi alla mappa fosse stato unito un elenco dei migliori ristoranti, con i loro giorni di chiusura e gli orari di apertura, ed uno delle Chiese con gli orari delle Messe, avrebbe avuto ulteriori vantaggi. Ma non certo per mettersi ore e ore seduto in panchina a consultare mappa ed elenchi. Alla fine, certamente avrebbe dovuto incontrare gli uomini, quelli in carne e ossa.
La scienza coadiuva, non sostituisce. Analizzare con freddezza la funzione proprietaria e quella lavorativa, indagare (e supporre) la loro articolazione, le varie problematiche del prodotto e plusprodotto (nel capitalismo: del valore e del plusvalore), e altro ancora, è utile per capire in quale società ci si muove, per quindi orientarsi e, se possibile, organizzare le “strutture” di attacco dei dominati contro i dominanti, scegliendo le congiunture più adatte di tale eventuale attacco, e via dicendo. Alla fine, però, gli uomini – ma non qualsiasi uomo – si debbono incontrare, si debbono valutare e organizzare, infondendo loro il senso della prepotenza e arroganza dei dominanti, della miseria (se non materiale, quella morale) dei dominati, ecc. Essere antiumanisti scientifici significa meglio prepararsi ad essere fortemente umanisti sul piano politico e sociale; significa precostituirsi degli strumenti di ricognizione del terreno della lotta di classe – strumenti che sono teorie basate su ipotesi rivedibili – onde sconfiggere l’immoralità dei dominanti (non di questo o quel membro della loro classe) e rovesciare intanto le condizioni di quel determinato assetto sociale che consente quella data forma di dominio.
La confusione tra funzioni e uomini, che certo (pseudo)marxismo ha provocato, modificando impercettibilmente la struttura teorica marxiana, va criticata e superata non per innalzare alle stelle, fino ad isolarle, le funzioni e la scienza che le studia, ma solo per dotarsi degli strumenti (razionali) atti a rovesciare il concreto dominio – nelle sue forme storicamente determinate – di certi uomini (minoranza) su certi altri (maggioranza); dove però il problema non è solo quello di abbattere questo o quel gruppo di dominanti, ma di rovesciare quella particolare forma del dominio. L’antiumanesimo scientifico è dunque – perché lo deve essere e deve volerlo – al servizio dell’umanesimo politico.
Cosa hanno invece fatto e fanno gli operaisti (pur quando si cambiano denominazione, come ormai hanno fatto da molto tempo)? Inneggiano agli uomini nella loro caleidoscopica mescolanza, senza pensare alcuna struttura dei rapporti sociali né alcuna forma di riproduzione degli stessi. Hanno preparato un grande calderone in cui apparentemente, come può credere il non aduso al ragionamento, si trovano gli uomini, quelli veri, quelli che incontriamo ogni giorno. Ma non è così. Vi è invece il massimo disprezzo per gli uomini concreti, una forma di supposta “furbizia” elitaria per cui si sa che, nel capitalismo opulento, si formano strati di emarginati che sono l’equivalente del lumpenproletariat ottocentesco, o dei miserabili di Victor Hugo, solo in condizioni di vita imparagonabili – materialmente e mentalmente – a quelle di un tempo. Si è detto che gli operaisti sono politicamente dei soreliani, e filosoficamente dei nietzschiani. Non sta a me dirlo. Degli elitari lo sono però senz’altro, e pure dei mestatori che credono di manovrare imponenti masse, mentre possono influenzare solo alcuni nuclei di intellettuali – difficilmente di tradizione scientifica – e gruppi di nullatenenti e nullafacenti, che in una società meno ricca sarebbero soltanto al puro vagabondaggio o alla piccola criminalità; in più, hanno l’appoggio di quote di “buonisti di sinistra” per descrivere la cui mentalità è sempre meglio ricorrere all’arte, ad es. ai film di Buñuel (tipo Viridiana o Nazarin).
In quanto teorico della società (capitalistica), mi sento di poter affermare con la massima sicurezza che questi personaggi non parlano in nessun senso di uomini, ma di generici ammassi di portatori di una funzione di mero consumo. A loro non interessa nulla del valore di scambio (ecco perché odiano tanto la teoria del valore lavoro), non interessa che questo si sia generalizzato in un processo storico che ha visto il formarsi di una “libera” classe di individui privi di mezzi di produzione e costretti a vendere come merce la propria forza di lavoro; non interessa che, tramite questo processo, si è costituita una particolare forma di appropriazione del plusprodotto (in forma di valore) di cui le classi dominanti, in una aperta e a volte aspra e distruttiva conflittualità tra le loro frazioni, si appropriano ai fini di prevalere nella società in quella data fase storica. Gli operaisti ignorano le forme della produzione, della distribuzione, dell’appropriazione e uso ecc.; sono indifferenti a tutto ciò che avviene e avverrà sempre, fin che dura il modo di produzione capitalistico, tramite la generale forma di valore che non è un feticcio da valutare in sé, ma solo quale espressione di una particolare strutturazione della società che va analizzata onde capire le strategie capitalistiche e le possibili controstrategie con cui opporvisi.
Agli operaisti – che oggi si mascherino dietro altre etichette non inganna chi li conosce bene da quarant’anni – interessa solo il valor d’uso; ai loro seguaci, l’odierno lumpen di cui sopra, rivolgono l’invito a trasformarsi in consumatori e, possibilmente, senza passare per l’uso della moneta. Negare, al limite anche mediante furto, il mezzo di scambio generale capitalistico è la loro unica ricetta per il comunismo. Il valore di scambio, secondo la loro opinione, non va criticato e combattuto tramite le opportune strategie di analisi, lotta e trasformazione dei rapporti di produzione capitalistici; va negato e basta, va anzi ignorato mirando direttamente al valor d’uso, che diventa il nuovo feticcio degli operaisti. Ne La miseria della filosofia, Marx afferma che, nel modo (e rapporti) di produzione capitalistico “non si deve più dire che un’ora di un uomo vale un’ora di un altro uomo, ma piuttosto che un uomo di un’ora vale un altro uomo di un’ora. Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al più la carcassa del tempo” ; e, in questo eccezionale suo brano, è messa a fuoco tutta la differenza, su cui ho tanto insistito, tra la funzione (lavorativa) e l’uomo (lavoratore)!
Per gli operaisti l’uomo diventa invece “carcassa” del mero consumo, viene trattato come un involucro, un contenitore, che deve riempirsi di valori d’uso. Solleticando i peggiori istinti degli uomini all’appropriazione di ciò che semplicemente desiderano – senza alcuna considerazione per gli altri, per quelli che producono quei valori d’uso in forma di merce, dunque secondo i precisi rapporti tra capitalisti (dominanti) e lavoratori (dominati) – questi pericolosi (e consapevoli) pasticcioni fanno leva su gruppi di emarginati, che esistono in ogni forma sociale pur caratterizzata da un determinato modo di produzione in quanto suo fulcro centrale, onde scatenarli contro i meri simboli del potere capitalistico, nel mentre impediscono in realtà ad altri più effettivi dominati, i venditori di forza lavoro in forma di merce, di organizzarsi e pensare le strategie più appropriate per opporsi allo stradominio del capitale. Ecco perché, in eventuali congiunture di grave crisi provocata dall’acutizzarsi delle contraddizioni tra gli agenti capitalistici (i dominanti), queste torbide teorie falsamente (ultra)rivoluzionarie, e gli strati sociali disgregati che le seguono pur senza afferrarne il vero senso, diventano la punta di lancia di movimenti caotici che attaccano i simboli del potere capitalistico, che agitano una propaganda “antiborghese”, per scardinare in realtà o per impedire la formazione di forze autenticamente anticapitalistiche.
Il marxismo tradizionale, tramite quell’impercettibile movimento concettuale che ha condotto alla confusione tra funzione e uomo, ha indebolito l’atteggiamento scientifico, dunque l’analisi delle condizioni del dominio capitalistico, anche nelle sue trasformazioni subite nel secolo e mezzo trascorso dall’opera marxiana. Ripristinare la distinzione in questione non è però un semplice sfizio da scienziati, bensì il mezzo per ridare potenza alla capacità trasformativa dei reali uomini soggetti a varie forme di dominazione e oppressione, uomini dotati di orientamento politico efficace. Gli operaisti – diciamolo adesso con chiarezza: oggi si travestono da “Movimento” (magari “dei movimenti”), ma sono gli stessi di sempre – con le loro chiacchiere prive di ogni contenuto razionale, puramente impressionistiche, suggestive, evocative, ecc., sembrano parlare di uomini, ma li hanno invece ridotti a macchinette con funzione di distruzione indiscriminata e di appropriazione per il consumo di beni. La distruzione riguarda qualche simbolo: materiale come vetrine di negozi, sedi di banche, ecc. ma pur sempre simbolo. Il consumo riguarda l’appropriazione di valori d’uso – al limite con il furto onde saltare l’equivalente generale del valore di scambio delle differenti merci – senza minimamente mettere in discussione il modo (cioè i rapporti sociali, di “sfruttamento”, di dominio e subordinazione) secondo cui i valori d’uso sono stati prodotti nella forma del valore (di scambio).
Il marxismo tradizionale va duramente criticato nella sua sclerosi attuale che lo sta portando all’estinzione, coinvolgendo in questa anche Marx e ogni marxista innovatore; bisogna tornare alla distinzione tra scienza e politica, ma per poi reintrecciarle strettamente, farle interagire per nuovi lidi di effettiva costruzione di strategie di lotta minimamente realistiche e capaci di effettiva trasformazione dei rapporti sociali. L’operaismo è una malattia, un cancro che ha già provocato una commistione, ormai inestricabile, di cellule sane con quelle malate; e queste ormai divorano ineluttabilmente le prime. Naturalmente, l’operaismo non va accusato di essere semplicemente antiumano, altrimenti ricadremmo nelle tesi dell’uomo in generale; e, soprattutto nell’epoca attuale, questo sarebbe politicamente un grave errore. L’operaismo, nei suoi attuali travestimenti, scaglia quei settori sociali, che ogni modo di produzione dominante crea nel suo “intorno” come rifiuti, non prevalentemente contro la classe capitalistica – cioè contro le sue frazioni in lotta per il dominio, cercando di sfruttare questa lotta a favore dei dominati – bensì contro l’esclusione dal godimento di quantità adeguate di valori d’uso, onde appropriarsene una fetta; e con il rischio che, alla fin fine, per esaudire al meglio questo desiderio di appropriazione – direttamente, immediatamente, tesa al consumo – tali settori marginali si scatenino contro i produttori dei valori d’uso in forma di merce, cioè contro frazioni decisive dei veri dominati nel capitalismo.