PIANGI CHE BEN HAI DONDE, ITALIA MIA
Nel turbine degli eventi internazionali di questa fase la Signora Italia viene sonoramente sculacciata e disonorata senza che alcuno si preoccupi del suo onore e della sua dignità. “Or fatta inerme Nuda la fronte e nudo il petto mostri, Oimè quante ferite, Che lívidor, che sangue! Oh qual ti veggio, Formesissima donna!… Sì che sparte le chiome e senza velo Siede in terra negletta e sconsolata, Nascondendo la faccia Tra le ginocchia, e piange…” Forse retorica antica ma modernissimo dramma. “Chi la ridusse tale?” “Chi la tradì?” Non sapremmo da dove e da chi cominciare ma abbiamo sotto gli occhi i suoi abiti a brandelli e la sua sconsolata e sconsolante decadenza. Il mondo ha iniziato a giocare duramente e noi periferia ancillare dell’impero ci siamo ritirati senza tentare alcun gesto pugnace. E siamo finiti “in così basso loco” dove ci calpesta la storia e di noi fanno strame governi vicini e lontani. Eppure, una speranza fioca si era manifestata negli ultimi anni con un protagonismo economico e politico sulla scacchiera geopolitica che sembrava offrire diverso avvenire. Sono bastati pochi mesi per arretrare nuovamente di decenni. Un assalto ad un Paese amico che ci approvvigionava e ci apriva gli orizzonti arabi ed è crollato il ponte del mediterraneo. Con questa débâcle anche le rotte dell’est si sono fatte via via più impervie fino a lasciarci isolati in una affollata Comunità Internazionale dove ci tengono prigionieri e ci percuotono affinché nessun desiderio di gloria e di indipendenza si ripresenti. Leggevo ieri in una intervista al responsabile della sicurezza dell’Eni, ex 007 del Sismi, che con la guerra a Tripoli la nostra migliore impresa di punta, leader mondiale e assoluta dominatrice del mercato energetico, è stata costretta a sbaraccare e ad abbondonare celermente i suoi impianti. Lì avevamo praticamente sbaragliato ogni concorrenza ed eravamo i padroni assoluti del deserto e dei suoi giacimenti. Domani non sarà più così perché galli da combattimento, aquile imperiali e volpi aggressive hanno dichiarato e combattuto questa guerra per conquistare un terreno che non apparteneva loro. Ecco cosa racconta la barba finta: “Il 18 marzo, in coordinamento con l’unità di crisi della Farnesina, abbiamo concluso le operazioni di rimpatrio. Oggi in Libia non abbiamo più nessuno. La produzione è sospesa, in applicazione dell’embargo decretato dalla coalizione internazionale”. Ma il Ministro degli esteri Frattini, un’oca ammaestrata che si atteggia a rapace della diplomazia, dice che per l’Italia non cambierà nulla laddove tutto è già radicalmente mutato. Stessa situazione in Tunisia, Marocco, Iran, Pakistan, aree in ebollizione dove solo appoggiandoci ad alleati attrezzati e con interessi collimanti ai nostri avremmo potuto augurarci di mantenere salde le nostre prerogative. Ma si è spezzato quell’asse di cointeressenze e quella rete di rapporti che partendo da Mosca toccava Tripoli, Ankara, Algeri e persino Teheran. Se tutto si è dissolto così in fretta significa che la nostra azione in campo estero era debole, eppure il tracciato delle iniziative intraprese era corretto. Ci sono mancati la forza, la visione e gli uomini all'altezza. A tanto occorre inoltre aggiungere che l'Eni viene presa di mira pure dall'interno della nazione dove agiscono quinte colonne le quali dietro il paravento della tutela ambientale, l'idiosincrasia per la società dei consumi, l'ideologia rivoluzionaria anarco-comunistica si fanno strumento, più o meno consapevole, dell'indebolimento industriale e politico italiano. Il fatto grave però è che siamo stati ancora ingannati dai nostri governanti, abitanti della terra di Leopardi che si muovono come gattini ciechi. Ed Allora, “Piangi, che ben hai donde, Italia mia”.
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La denuncia del capo della sicurezza dell'Eni:
"Nostri pozzi assediati da Al Qaida e anarchici"
di Luca Fazzo
Parla Umberto Saccone, capo della sicurezza del gruppo: "In tutto il mondo dal 2009 abbiamo subito 49 attentati. Ci considerano un simbolo negativo della globalizzazione. in Libia la produzione è sospesa per l'embargo. Da gennaio abbiamo evacuato 373 dipendenti
Da Al Qaida agli anarchici: e nel mirino degli attacchi c’è sempre lui, il cane a sei zampe di Eni, simbolo del business petrolifero targato Italia. I dati degli attacchi a Eni in Italia e all’estero fanno impressione: 49 «atti ostili» in Italia dal 2009 ad oggi, 36 dipendenti rapiti qua e là per il mondo dal 2007. A fronteggiare gli attacchi, un ex 007: Umberto Saccone, colonnello dei carabinieri e poi capocentro del Sismi all’estero, dal 2006 capo della sicurezza di Eni.
I ribaltoni nei paesi arabi hanno cambiato lo scenario in cui vi muovete. Perché avete deciso di allontanare tutti i dipendenti Eni dalla Libia?
«Perchè non c’erano più le condizioni di sicurezza, che per noi sono una priorità. Il 18 marzo, in coordinamento con l’unità di crisi della Farnesina, abbiamo concluso le operazioni di rimpatrio. Oggi in Libia non abbiamo più nessuno. La produzione è sospesa, in applicazione dell’embargo decretato dalla coalizione internazionale. Le infrastrutture sono state messe in sicurezza in modo da riprendere la produzione appena la situazione lo permetterà».
Non è la Libia l’unico posto agitato, in quelli dove andate a estrarre petrolio.
«Abbiamo complessivamente diciassette aree di crisi. Dal dicembre 2010, è stato tutto un incendiarsi dal Marocco fino all’Iran, dall’Oman al Sudan. Da queste aree abbiamo evacuato da dicembre 373 persone. In Egitto e in Tunisia quando la composizione di un nuovo Stato ha preso forma li abbiamo riportati sul posto. Ma teniamo gli occhi aperti, perché non è detto che i paesi stiano andando verso una definitiva stabilità».
Come vivono i vostri dipendenti questo andirivieni?
«Sanno che quando li facciamo tornare in quei Paesi è perché siamo sicuri che la situazione si é tranquillizzata. Non ci assumiamo rischi non prevedibili e non gestibili».
Osama Bin Laden teorizzava l’attacco non ai pozzi, patrimonio del popolo arabo, ma alle infrastrutture, cioè proprio agli impianti di aziende come Eni. La sua uccisione migliora la situazione?
«Da anni il dibattito sui network della jihad globale afferma che colpire gli interessi petroliferi è la vera jihad economica, cioè il modo migliore per colpire gli infedeli. La morte di Osama non cambia lo scenario, il network jihadista ha cellule in Irak, nello Yemen, in Arabia Saudita, in Algeria, in paesi come Mali e Mauritania, fino all’Emirato islamico del Cucas
o. Io credo che esista un testamento ideologico ed economico di Osama. Ma alla fine la leadership verrà presa da chi sarà in grado di meglio colpire gli infededeli e di finanziare tutte le altre Al Qaida di questo network mondiale».
Dei paesi dove Eni è presente qual è oggi il più rischioso?
«Indubbiamente il Pakistan, dove Al Qaida ha dimostrato possibilità oggettive di muoversi e di colpire. Noi però siamo presenti al sud e nella capitale Islamabad dove il territorio è presidiato dalle forze di sicurezza in maniera più capillare».
Quanto vi preoccupano gli attacchi che subite in Italia?
«Preoccupa l’impennata molto forte che c’è stata dopo l’avvio della “rivolta dei gelsomini” nei paesi arabi. Ma a Bologna e a Firenze sono state fatte operazioni di polizia che hanno immediatamente circoscritto questi fenomeni».
Perché tanti ce l’hanno con voi?
«Ci sono gli avversari della globalizzazione, i difensori dell’ambiente, i movimenti contro i consumi. Le aziende con una forte identità come Eni sono un obiettivo privilegiato. Noi con queste realtà cerchiamo il dialogo, ci confrontiamo, cerchiamo di capire le loro ragioni e di spiegare le nostre».
E vi stanno a sentire?
«Con molti di loro si riesce a ragionare, gli spieghiamo il tipo di impegno di Eni nei paesi in cui opera, ragioniamo con loro su come migliorare ancora».
Ma gli attentati continuano. Alcuni, evidentemente, non li avete convinti.
«Evidentemente i loro motivi reali sono diversi da quelli che professano».
Lei ha scritto un libro, «La security aziendale nell’ordinamento italiano», in cui affronta anche i rapporti tra la security delle aziende strategiche e i servizi segreti. Come sono le vostre relazioni con la nostra intelligence?
«La partnership tra pubblico e privato è la migliore risposta a quanto sta accadendo nel mondo. I nostri rapporti con i servizi di informazione italiani sono ottimi, d’altronde abbiamo un obiettivo comune che è la creazione di maggiore sicurezza per tutti».
I nostri servizi segreti dovrebbero difendere la collettività. Voi vi occupate della sicurezza di una azienda privata. Che garanzie ci sono che le informazioni di cui entrate in possesso siano usate solo a difesa degli interessi pubblici?
«La risposta è semplice: le strutture di Eni approvvigionano energia al paese, e sono soggette al segreto di Stato. Lo Stato deve tenere salde le proprie prerogative. Ma tra queste c’è anche la difesa del proprio potenziale difensivo, di cui strutture come le linee di approvvigionamento energetico sono una componente indispensabile. Quindi è naturale che la tutela dei nostri asset avvenga sulla base di una integrazione tra i nostri dispositivi di sicurezza e quelli dello Stato».
Lei stesso è stato a lungo uno 007. Che differenza c’è tra il suo lavoro di allora e quello di oggi?
«L’approccio di fondo è lo stesso: un operatore dell’intelligence è uno che si colloca prima degli eventi, perché quando gli eventi si verificano vuol dire che lui ha già perso».