POLITICA, MERCATO E NEOREPUBBLICANESIMO. OSSERVAZIONI SU UN ARTICOLO DI A. PANEBIANCO
Sul Corriere della Sera del 25.09.2011 Angelo Panebianco parla del problema del rapporto tra economia di mercato e potere politico dopo l’esplosione della crisi globale nel 2008. A tale proposito così si esprime il politologo:
<<La crisi globale ha favorito il ritorno di antichi pregiudizi ostili al capitalismo: in nome di una democrazia «virtuosa» e «partecipativa» si punta a restaurare la gerarchia del comando pianificato per mettere sotto controllo i «vizi privati» della società civile. È pertanto preoccupante ciò che la crisi economico-finanziaria sta provocando: le sempre più numerose invocazioni di un ritorno alla Politica con la p maiuscola, del recupero di un comando politico pienamente sovrano contro quella «anarchia dei mercati internazionali» che avrebbe dominato e permeato il mondo, le nostre vite e le nostre menti nell’ ultimo trentennio.>>
Panebianco osserva che – dopo il fallimento del comunismo storico e del modello dell’economia pianificata – i critici del capitalismo si stanno orientando in buona parte verso una antica e illustre tradizione del pensiero occidentale nota agli studiosi come «repubblicanesimo». Egli aggiunge anche che
<<il neorepubblicanesimo trae le sue fonti di ispirazione e i suoi modelli da precedenti storici (idealizzati) quali la repubblica romana, i comuni medievali, le repubbliche italiane rinascimentali>>.
Sembra proprio che dall’individuo consumatore, produttore e “speculatore” si voglia passare (o ritornare) al cittadino “virtuoso” e in un gioco di schematiche contrapposizioni si confrontano tra loro – nel nome dell’ideologia repubblicana – la democrazia e il mercato, il comando politico e l’ anarchia economica, la pubblica virtù e i vizi privati, il bene comune (così come è definito dalla politica) e i gretti, egoistici, interessi individuali. Secondo Panebianco il neorepubblicanesimo avrebbe l’ambizione di sostituire, per certi aspetti, il socialismo, ormai in declino, riproponendo in maniera diversa pulsioni e miti anticapitalistici a cominciare dalla finanza-farina del Diavolo fino alla demonizzazione delle lobbies economiche-politiche e della globalizzazione. Ma, ribatte il politologo, non c’è
<<democrazia senza mercato (anche se ci può essere mercato, Cina docet, senza democrazia), la finanza è il lubrificatore necessario dell’ economia, la globalizzazione non è altro che la dinamica proiezione transcontinentale di legami economici, sociali, culturali e le lobbies, infine, sono l’ inevitabile anello di congiunzione fra gli interessi generati dal mercato e la politica democratica>>.
Le obiezioni di Panebianco sono realistiche ma fino ad un certo punto, nella sua impostazione c’è una certa sottovalutazione del primato – non proclamato ma “reale”, fattuale- della politica sull’economia. Egli considera le lobbies, i gruppi di pressioni, come emanazioni della sfera economica che fanno presa sulla politica; al contrario, i gruppi di pressione, risultano essere una derivazione di gruppi costituitesi nella sfera politica che “giocano” le loro partite e i loro conflitti con i mezzi dell’economia e con gli strumenti forniti dal sistema politico e dagli apparati dell’ideologia. Ha un senso, parziale, anche l’altra considerazione dell’editorialista riguardo al fatto che non sempre mercato risulta essere sinonimo di anarchia e disordine e il comando politico, invece, di ordine e gerarchia, ma questo dall’autore dell’articolo non viene spiegato perché la validità dell’assunto può essere intesa solo se si comprende il ruolo della razionalità strategica che viene applicata al conflitto per la supremazia. Così il disordine può essere il sintomo endemico di un conflitto che non trova sbocchi per l’incapacità di una parte di imporsi sulle altre, come anche il risultato di una determinata opzione strategica di una potenza che vuole mettere in difficoltà gli avversari alimentando il caos. E, comunque, lo stesso Panebianco è costretto ad ammettere, controvoglia, alcune evidenze quando scrive:
<<Uno dei drammi della democrazia è che la retorica democratica obbliga i governanti – se non vogliono perdere le elezioni – a fingere, di fronte al pubblico, sicurezze che non possiedono, a dare a intendere di avere risposte chiare, che non hanno affatto, per le sfide e i problemi che dobbiamo fronteggiare. Guardate alla crisi attuale. Non c’ è governante (da Obama alla Merkel, da Sarkozy a Cameron a Berlusconi) che non cerchi di fare credere ai propri elettori di sapere esattamente cosa sta facendo e quali conseguenze benefiche ne deriveranno. Il che significa, semplicemente, che le regole della politica obbligano i governanti a mentire>>.
Non si tratta per niente di un “dramma”, illustre professore, ma di una necessità che obbliga i gruppi governanti (dominanti) in una determinata fase a usare le tattiche che vengono ritenute più opportune per mantenere il potere nel regime politico chiamato democrazia che viene spacciato per una oclocrazia (dal greco όχλος = moltitudine, massa e κρατία = potere) mentre risulta essere, con tutta evidenza, una oligarchia (dal greco “oligoi” (ὀλίγοι) = pochi e “archè” (ἀρχή) = potere, comando). In conclusione il “nostro” politologo condivide con molti suoi colleghi l’idea che i sistemi politico-economici chiusi (imperiali) finiscano sempre per strangolare sia l’ economia sia la libertà, mentre i sistemi politico-economici aperti (che combinano mercati internazionali e pluralità di Stati), oltre che risultare assai più dinamici e vitali sul piano economico, garantirebbero le libertà individuali e sbarrerebbero la strada all’autoritarismo; tutto questo, però, sempre secondo Panebianco, risulta valido a condizione che non prevalga – anche in quest’ultimo tipo di società – la “nefasta ideologia” del “primato della politica”. In un recente dattiloscritto non ancora completato La Grassa scrive:
<<Era mancata in Marx la consapevolezza di quelli che ho indicato quali strateghi del capitale; soggetti (non individuali in genere, anche se poi esprimono sempre un nome quale loro condottiero) che possono essere tranquillamente separati sia dalla proprietà sia dalla direzione (potenze mentali) dei processi produttivi in senso proprio.[…] Il problema centrale è rappresentato dal fatto che è la loro funzione ad essere separata e non derivata dalla proprietà o dalla direzione della produzione. E quando si tratti di personaggi (o di gruppi di individui) consci di qual è la funzione principale da esercitare per vincere nella competizione, si può essere sicuri che essi sanno mettere in secondo piano, se necessario, sia la funzione proprietaria (e i dividendi di cui godere in base ad essa) sia quella direttiva dei processi produttivi (lavorativi), cioè la stretta e rigorosa efficienza economica. Sono i loro ideologi[…] che elevano l’elegia al mercato come luogo in cui l’impresa è obbligata al conseguimento del minimo costo: con reciproco vantaggio per gli imprenditori (il profitto) e per i consumatori (la più alta utilità acquisita). Questi sono però gli intellettuali[…] che servono per irreggimentare il “volgo”; lo stratega sa bene ciò che deve fare per vincere veramente>>.
La supremazia, in ultima istanza di tipo politico, e il potere sociale sono l’obbiettivo dei gruppi dominanti – all’interno delle formazioni sociali particolari come anche della formazione sociale globale – e per questo parlare di primato del “mercato” o del “comando politico” nel regime sociale definito con l’espressione “società aperta” è in realtà privo di senso.
Mauro Tozzato 16.10.2011