PRENDIAMO UNA VACANZA (7 luglio ’11)

Per oggi è meglio che mi dedichi a certi ricordi (attualizzati ovviamente). La guerra di Libia procede creando disgusto per le menzogne, le arroganze e prepotenze con annessa ottusità; quella propria di assassini ottenebrati, solo pronti ad uccidere. L’hanno fatto con Bin Laden, adesso vorrebbero ripetere il colpo. I delinquenti da trivio del sedicente Consiglio di Bengasi, manichini mossi da criminali anglo-francesi al servizio di quelli ancor più truci al comando negli Usa, recitano la comica sceneggiata dell’apprestamento di squadre pronte a eseguire il compito, mentre è ormai noto (non alla “popolazione”, questo è chiaro) che vi sono gruppi di “assassini specializzati” inglesi e francesi già in territorio libico per studiare il colpaccio (non facile come quello effettuato in Pakistan dai loro simili statunitensi).

Non parliamo della manovra finanziaria da dementi totali in preda al cupio dissolvi, che colpiscono a man bassa salvo che la cosiddetta casta. Il governo è ormai in stato agonico e se ne dovrebbe andare il più velocemente possibile. Quanto al premier, è ormai spento e senza un’idea purchessia dal dicembre dell’anno scorso (quando non si avviò verso elezioni anticipate per non irritare i suoi “amici”/padroni statunitensi e il loro principale rappresentante in Italia). Il problema grave è che l’alternativa è comunque quella di un governo di piena e totale subordinazione agli Usa, alla Ue, alla Nato e a chiunque abbia bisogno di calpestarci e tenerci sotto stretta sudditanza. Tuttavia, ormai questo governo di sbandati totali, portati al precipizio da Tremonti (che sa bene quel che vogliono i suoi “mandanti”), è votato alla morte. Evidentemente, se il decesso viene ancora rinviato è perché gli stessi Usa (e il loro rappresentante italiano) manovrano per orientare nel modo “migliore” (per loro e malissimo per noi) la transizione al pieno servaggio del paese e all’impoverimento, io credo, di circa tre quarti della popolazione. La preoccupazione (loro) è che qualcosa sfugga di mano e si crei un caos eccessivo, con ingovernabilità accentuata e conseguente necessità di un intervento d’ordine che si vorrebbe invece evitare (affinché non si corrano gli stessi rischi esistenti al momento in Egitto, dove la situazione non è per nulla sotto pieno controllo).

Comunque passiamo alla “vacanza”.

 

1. Quando divenni comunista nei primissimi anni ’50, i “compagni” che incontrai erano pienamente innamorati di qualsiasi processo riguardasse la modernizzazione del paese, il suo sviluppo, il progresso scientifico e tecnologico. Si commettevano anzi molte ingenuità in proposito. Non ci si scordi che erano ancora gli anni del lissenkismo, anni in cui si credeva di poter abolire certe leggi genetiche tramite la semplice selezione di specie adattabili a qualsiasi evenienza (i famosi aranceti che avrebbero dovuto crescere in Siberia). Si trattava solo del caso estremo di una troppo ingenua fede nel progresso e nel dominio incontrastato della ragione (scientifica).

Dall’altra parte, vi era comunque l’attacco dei settori più retrivi degli “organismi” (Chiesa in primo luogo) che “amministrano” la(e) religione(i), tesi a diffondere timori per ogni forma di modernizzazione e sviluppo; perché quest’ultimo stava conducendo alla fine della società agraria (e di quello che Marx definiva “idiotismo rurale”), all’industrialismo e all’inurbamento con i vasti fenomeni di trasformazione della struttura sociale che si accompagnavano al completo rivoluzionamento della mentalità e dei costumi abituali, ecc. Già in quegli anni iniziò però l’opera più sottile di settori strettamente legati al “grande capitale monopolistico” (come si diceva allora): ad es. il Club di Roma, emanazione della Trilateral (che è come dire oggi Gruppo Bilderberg). Questi si ubriacavano di modernizzazione, soprattutto in tema di costumi, diffondendo però timori per i “limiti dello sviluppo”, per le distruzioni ambientali, il poco rispetto per la Natura (pronta a “ribellarsi”). Non fu difficile mettere in luce che si trattava di gruppi manovrati dagli Usa, i quali predicavano bene (e razzolavano male); diffondevano solo ciò che era utile al loro predominio. Tutti gli altri paesi sarebbero dovuti restare legati alle produzioni più moderne americane senza alcun intento di effettiva competizione (salvo che negli inganni ideologici relativi al “libero mercato”).

In fondo cambiano le forme, ma la sostanza di quanto sostengono i predominanti è sempre la stessa. Nel XIX secolo – quello della ragione positivistica tutto sommato trionfante, malgrado le varie reazioni “romantiche” – la teoria ricardiana del commercio internazionale “dimostrava”, in nome della competizione globale mercantile con reciproco vantaggio di tutti i concorrenti, che al “Portogallo” conveniva specializzarsi in produzione di vino mentre i manufatti tessili (industriali) dovevano rimanere appannaggio dell’Inghilterra. Non poteva a quell’epoca venire in mente alcun esaurimento di fonti naturali (salvo forse sporadici accenni), catastrofi o altro; meglio spingere i beoti all’adorazione delle oggettive leggi del mercato per sostenere la convenienza “globale” di un accentuato sviluppo industriale del paese mondialmente predominante in quell’epoca.

Nel XX secolo – in particolare dopo la seconda guerra mondiale con un ormai piuttosto numeroso insieme di paesi industrializzati e dediti allo sviluppo (sia capitalistico sia, in competizione non solo economica, “socialistico”) – alla “dimostrazione” di una convenienza reciproca a specializzarsi in settori diversi (quelli più avanzati e strategici in mano agli Usa, ovviamente) si è ritenuto utile aggiungere la paura delle catastrofi procurate dall’“eccesso” di industrialismo e di progresso scientifico-tecnico, dall’esaurimento delle fonti naturali, ecc. Il Pci fu all’avanguardia nel rintuzzare simili tesi, mettendone con una certa energia in luce, negli anni ’50 e primi ’60, la radice statunitense. Non era però il solo; tutto sommato, i socialisti (socialdemocratici in senso proprio), e più in generale quella che era la reale sinistra progressista, agirono di complemento, salvo eccezioni relativamente rare, fino agli anni ’70. Dal punto di vista editoriale, alle Edizioni Rinascita e poi Editori Riuniti (del Pci) si affiancavano quelle di Comunità (finanziate dal grande industriale illuminato Adriano Olivetti), che erano di tradizione appunto socialdemocratica.

La polemica, certo aspra e senza tante mediazioni, tra comunisti e sinistra progressista verteva soprattutto sul significato della “democrazia” (limitatamente “borghese” per noi comunisti) e sulla conseguente necessità di differenti metodi di accumulazione delle forze al fine di rovesciare gli assetti di potere instaurati in Italia con il predominio statunitense (e la Nato, ecc.). La “via italiana al socialismo” fu non a caso presa per un escamotage togliattiano (il “regime di doppia verità”) per ingannare il “popolo” sulle reali intenzioni dei comunisti protesi alla conquista “violenta” del potere. Per inciso, dico che fui sempre contro il togliattismo, che mai lo presi per un mascheramento considerandolo invece una pretta deriva “revisionista”; a partire dal 1956 ero quindi già “maturo” per aderire più tardi (1963) alle posizioni denominate filocinesi, quando la rottura interna al sedicente comunismo si manifestò apertamente. Ma questo non ha adesso importanza.

 

2. Non è qui possibile, per ragioni di tempo e di spazio necessari ad un’ampia riflessione, indicare (almeno iniziare a farlo) i motivi “strutturali” (relativi alla formazione dei gruppi sociali e della loro articolazione interattiva, formazione e interazione interessate da tumultuose modificazioni) di quanto avvenuto con il famoso ’68, preso per un fenomeno fortemente progressivo, ma che lo fu invece solo parzialmente conducendo ad un processo di sdoppiamento tra il conflitto per la modernizzazione dei costumi, da una parte, e il progressivo annullamento della capacità di analisi sociale, accompagnatosi all’appiattimento della riflessione teorica e alla deriva della lotta politica. Quest’ultima era prima piuttosto netta e ben definita nelle sue diversità progettuali, programmatiche, mentre poi procedette verso l’annebbiamento personalistico e al massimo moralistico, in cui si sono enucleate, proprio solo in base alla differenziazione di mentalità e modernizzazione dei costumi (in specie, e quasi esclusivamente, sessuali), le due etichettature di “destra” e “sinistra”.

Prima del ’68, la sinistra era considerata dai comunisti solo una corrente della politica borghese, quella appunto più modernizzatrice, detta “riformista”; ma non certo esclusivamente sul piano dei costumi e della mentalità “corrente”, bensì con riguardo a mutamenti dei rapporti di forza interni a settori politici (in quanto centri strategici) in stretta connessione con quelli economici, dove la lotta si accentrava sul diverso peso da dare alle nuove e più decisive branche industriali o invece a quelle “mature” e “ritardatarie”. Nel mondo bipolare, all’interno del campo detto “capitalistico” la predominanza statunitense era tale che non era nemmeno possibile accennare a reali affrancamenti dei paesi capitalisticamente “avanzati”. Senza tensione effettiva al multipolarismo – come quello affermatosi a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo in concomitanza con il lento declino della centralità inglese – non aveva più senso una reale distinzione tra la corrente riformista e quella conservatrice, interne al predominio delle classi borghesi capitalistiche. Destra e sinistra, rimanendo fenomeni detti “culturali” (come se la cultura si limitasse ai costumi, soprattutto sessuali), perdevano viepiù di significato.

E’ venuto più generalmente a cadere ogni riferimento al riformismo progressista e al conservatorismo in merito alla trasformazione complessiva delle economie dei paesi a maggior sviluppo capitalistico con crescente predominanza dell’industria e dei servizi ad essa connessi. Nel secondo dopoguerra, nel campo detto capitalistico, l’industria era generalmente affermata, salvo il caso italiano dove la reale trasformazione da paese agrario/industriale in industriale/agrario si è avuta con il boom (1958-63); da lì è poi partito l’ulteriore sviluppo dei servizi che ha posto infine su un piano “moderno” la posizione dell’agricoltura, ormai sempre più una sorta di branca dell’industria. Nel campo specificamente capitalistico non vi è però mai stata in tutto il periodo una lotta del tipo di quella tra neoricardiani e listiani nel XIX secolo. Anche sotto il predominio “keynesiano”, che valeva soprattutto sul piano interno, il commercio internazionale è stato fondamentalmente liberista; al vertice gli Usa, con molto maggiori possibilità di sviluppare i settori strategici dell’ultima fase dell’industrializzazione (la cosiddetta “terza rivoluzione industriale”); mentre in Europa e in Giappone (in Italia non ne parliamo) tali settori rimanevano relativamente asfittici (comunque sempre legati al predominante “carro americano”), mentre conoscevano maggiore rigoglio i settori “maturi”, quelli delle passate fasi dell’industrializzazione (ma “nuovi” soprattutto per il nostro paese).

E’ del tutto evidente la necessità che in Italia, dato il suo abituale ritardo, venga condotta un’indagine particolare per capirne i mutamenti di struttura sociale (quella che un tempo si definiva “analisi di classe”) e la particolare arretratezza culturale, che rende il paese sempre debole in fatto di penetrazione di una mentalità e cultura scientifiche. In un certo senso, va ripreso, in una fase di industrializzazione ormai predominante, il programma di ripensamento critico che fu di Gramsci nell’Italia pre-guerra. In ogni caso, siamo dentro un’area più vasta (l’“occidente” capitalistico), in cui ancor oggi – in una situazione internazionale comunque in netto mutamento – prevale una specie di neoricardismo, l’idea che si debba restare entro l’ambito della “libera competitività globale” (puramente economica). Il sistema produttivo assume perciò aspetto piramidale, ha un carattere simile a quello tradizionalmente definito, almeno in campo marxista, “ultraimperialistico” o di “capitalismo organizzato”.

In realtà, non si tratta affatto di organizzazione, come l’attuale crisi sta dimostrando, ma solo di subordinazione politica al centro statunitense che decide – utilizzando organismi vari fra cui quelli comunitari europei (e la BCE, in cui è ormai ben piazzato un suo “agente”) – come deve “disporsi” la presunta competitività: i settori nuovi e strategici negli Usa e solo subordinatamente in Europa e Giappone; quelli “maturi” soprattutto verso le “periferie” (dell’area capitalistica avanzata, ovviamente). Le apparenti “eccezioni” – ad es. Chrysler-Fiat – appartengono a questo quadro complessivo poiché la loro funzione è diversa; si tratta di industrie “mature” fatte crescere al “centro” (ma assai ben “decentrate”) con altre finalità (non tutte scoperte e chiare).

Non mi lancio adesso in analisi piuttosto lunghe e difficili. Dico solo che la cultura risente di simile situazione, venutasi a creare per complessi percorsi storici post seconda guerra mondiale, ma in parte orientati dai predominanti. Essa è poi del tutto specifica in Italia, dove esiste una struttura del cosiddetto “ceto medio” diversa che altrove. Il passaggio “ritardatario” alla fase di avanzata industrializzazione, tutta compiuta nell’ambito del sistema unipolare dominato dagli Usa – ben diverso il processo negli altri paesi avanzati europei, che divennero prevalentemente industriali nel periodo del conflitto policentrico – ha comportato la formazione della (sedicente) “classe” operaia secondo modalità differenti: la trasformazione è stata accelerata, ma l’assimilazione di detta “classe” alla riproduzione capitalistica è stata meno “perfetta”. E tuttavia, essa è stata nel complesso sconfitta prima dell’assimilazione in questione, il che comporta modificazioni non indifferenti per quanto riguarda il problema del “riformismo” (socialdemocrazia).

Qualcosa di analogo riguarda gli altrettanto sedicenti “ceti medi produttivi” (come sappiamo, un concetto-ripostiglio). Mentre l’industrializzazione (il boom) portava contadini dal sud al nord per formare le “avanguardie” operaie, essa provocava nelle aree del nord la trasformazione del contadino in “artigiano” (piccolo produttore industriale). Si è venuta quindi creando una sorta di “dualismo” (economico e ancor più sociale) del tutto differente da quello tradizionale nord-sud. Un dualismo non riconosciuto, non risolto dalla politica dei “ceti medi” che fu l’“ossessione” di tutti i partiti della prima Repubblica, con il Pci buon ultimo arrivato a prenderli in considerazione. La crisi “dualistica” – in piena sconfitta sostanziale della “classe” operaia – ha provocato poi il fenomeno leghista, con tutte le sue ristrettezze di visione, la sua incultura strategica, la mancanza di senso nazionale.

Intendiamoci bene; un certo risentimento antimeridionale non è del tutto ingiustificato. Ma doveva essere superato da una forza politica nazionale con capacità di sintesi, in grado quindi di capire veramente sia la sconfitta della “classe” operaia prima della sua assimilazione nella riproduzione capitalistica (assimilazione ormai avvenuta, sia chiaro, ma appunto sulla base di una sconfitta), sia la particolare formazione dei “ceti medi produttivi” al nord (sempre dalla massa contadina), anch’essi in definitiva non vincitori malgrado l’arricchimento e un certo potere conquistato. Appunto, però, senza una visione politica complessiva, con l’illusione di un’integrazione verso il nord Europa, mai avvenuta e che rende i nostri “piccoli imprenditori” i lavoranti per conto di chi ha una più ampia visione dei problemi mondiali, pur essendo comunque, come tutti gli europei, ormai succube della predominanza “centrale”, sempre più pericolosa per le nostre sorti di medio-lungo periodo.

 

3. Questo sostanziale fallimento delle “classi” decisive nel sistema produttivo ha lasciato intero spazio alle bande grande-capitalistiche del tipo più parassitario, di carattere vetero-industriale e finanziario (iugulatorio, vessatorio). Le quali non possono, per ragioni “strutturali”, avere una visione complessiva nazionale. Per questo le ho sempre paragonate agli Junker prussiani, ma soprattutto ai “cotonieri” del sud degli Usa a metà ‘800. Abbiamo sulle spalle gruppi di sanguisughe, dotati però di grandi mezzi a causa dei loro legami “servili” (da servi di lusso) con il capitalismo statunitense. Con questi mezzi, “succhiati” agli sconfitti o non vincitori (operai e ceti medi produttivi), hanno totalmente disfatto e infine controllato i deboli conati (molto appariscenti, ma privi di reale sostanza) del ’68 e movimenti successivi: in Europa, ma in modo appunto del tutto specifico e molto più “penetrante” nel nostro paese.

Così si è formato questo ceto intellettuale mostruoso, capace di assorbire – alla guisa della Cosa di Carpenter – ogni corrente culturale (perfino il marxismo, con la sola difficoltà di “digerire” il leninismo), “ricacandole” tutte in un tripudio di “libertà sessuali” e di “costume” e di arretratezza scientifica e produttiva. Una cultura che è improprio definire “umanistica”, poiché l’Uomo è ridotto ad ombra di un “androide” (non però simpatico come quello di “Guerre stellari”). Si tratta di un “primitivo”, che si spaventa alla “caduta del fulmine”, che fugge a gambe levate, che abdica alla conoscenza. Siamo così passati dall’ingenuità ultrapositivistica dei primordi del movimento operaio – che, nella ritardataria Italia, significano partito comunista degli anni ’50 e ’60, dove però si svilupparono fin da subito anche le correnti promosse dai Galvano Della Volpe, dai Cesare Luporini, dai Ludovico Geymonat, ecc. nient’affatto “ingenui positivisti” – al sentimento pregalileiano dei “raffinati” intellettuali da “salotto”, pagati dall’industria e finanza sanguisughe già ricordate, che sanno bene dove vogliono arrivare, chi vogliono continuare a servire per godere dei riconoscimenti dei predominanti centrali.

Si sarà notato che non sono intervenuto sul nucleare, che non interverrei sugli OGM e altri argomenti del genere. Quello che mi ha respinto non è semplicemente il cupo antiscientismo dei critici – tutti mossi da interessi precisi esattamente come i sostenitori del nucleare o delle altre innovazioni energetiche, biotecnologiche, ecc. – ma appunto lo spirito complessivo di crociata contro tutto ciò che è nuovo, che provoca nella sua novità errori o deviazioni. Mi ha disgustato sentire cianciare nello stesso modo in cui si discuteva dei “disastri” aerei negli anni ’50 (si pensava a quel mezzo di trasporto come al più pericoloso perché gli incidenti avevano molto maggiore risonanza, ma sappiamo ormai che è il più sicuro). Ho vissuto tutta la vita sentendo annunciare catastrofi, glaciazioni secolari e poi subito dopo surriscaldamenti e crescita del livello dei mari altrettanto secolari; e via con tutte le altre “maledizioni” terrene e divine. Ho addirittura sperimentato personalmente l’oscurantismo. Nel 1950 già si trovava la penicillina. Ma se ne aveva timore; quindi fui curato per la mia broncopolmonite ancora con i sulfamidici che, da allora, hanno provocato l’indebolimento dell’apparato intestinale, il mio punto debole.

Quindi, mando al diavolo tutti quelli che manifestano fisime da trogloditi e scimmioni. Non voglio prendere in modo preconcetto posizione a favore di ogni (a volte presunto) progresso tecnico. Tuttavia, disprezzo nel modo più completo coloro che, in modo altrettanto preconcetto e irragionevole, urlano contro le innovazioni non appena accade un incidente, magari a volte una catastrofe. Sono particolarmente sensibile a tale problema poiché è il sintomo della terribile, autentica, catastrofe culturale legata all’unipolarismo dell’“occidente” capitalistico e al solito ritardo delle trasformazioni sociali in Italia; ritardo accompagnato da una insipienza sesquipedale delle “classi” dirigenti – perpetuamente mignatte e al servizio altrui – le quali corrompono il tessuto politico e culturale creando escrescenze e bubboni pestilenziali paurosi.

Non c’è altro da fare che reimpostare, “gramscianamente”, il lavoro teorico-storico-sociale relativamente alla nuova epoca che sta attraversando questo disgraziato “stivale”; almeno servisse a prendere a calci i coglioni che imperversano nel paese, impestandolo da Colfrancui a Zagarolo a Canicattì!