PRESA DI POSIZIONE NETTA
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1. Mi sbaglierò, ma credo che la resa dei conti in Italia, cioè una svolta decisa, sia vicina. E se viene rinviata – con una tira e molla di cui seguire gli sviluppi – serve solo a conciare meglio il nostro paese per renderlo malleabile al predominio straniero (Usa) e ai settori ultramaturi dell’industria e ai parassitari della finanza, che premono in direzione di questa sudditanza, in grado di consentire loro una buona compartecipazione all’assorbimento di quanto prodotto dai reali ceti lavorativi del paese. Sono comunque assai perplesso sulla possibilità di tirare avanti in questa situazione politica troppo a lungo. Andiamo per gradi e chiedendo pazienza ai lettori poiché mi permetterò molte giravolte, e partendo da lontano. Alla fine, tuttavia, la presa di posizione sarà il più possibile priva di ambiguità (per la verità, quest’ultima non è stata mai la cifra di questo blog).
Che cosa contraddistingueva le cosiddette “democrazie popolari”, cioè i paesi dell’est europeo una volta passati sotto la sfera d’influenza sovietica? In essi non si erano verificate vere rivoluzioni (o guerriglie con successiva presa del potere) come in Russia, in Cina, e più tardi a Cuba e in Vietnam, ecc. Sappiamo bene che l’ascesa dei partiti sedicenti comunisti nell’est europeo (non posso qui sviluppare il discorso teso a dimostrare che il “comunismo” era solo presunto e non effettivo) fu dovuto alla presenza in quell’area delle forze d’occupazione sovietiche. I Governi di quei paesi, inamovibili, furono costituiti da un nocciolo duro rappresentato appunto dal partito “comunista” circondato da fittizi partiti d’altro genere, che servivano di contorno ma contavano ben poco.
Ebbene, si è tentata un’operazione simile, ma opposta, in Italia all’epoca di “mani pulite”. Caduto il “socialismo reale” nell’est europeo (1989) e dissoltasi l’Urss (1991), la “manina d’oltreoceano” (definizione di Geronimo, alias Cirino Pomicino), con al seguito l’industria/finanza “privata” italiana asservita (per i suoi interessi) agli Usa, decise che si poteva eliminare il vecchio regime Dc-Psi (nonché il settore “pubblico” dell’economia che ne era forte base di potere); e non per i fatti di corruzione (senza dubbio reali) ma perché, approfittando delle opportunità concesse dall’appartenenza al “campo occidentale” in un mondo per oltre quarant’anni bipolare, tale schieramento politico governativo aveva spesso tirato un po’ la corda nei confronti del “padrone” americano, facendo in qualche, non solo occasionale, contingenza gli interessi italiani. La bastonata assegnata all’Eni, decapitandola del suo massimo e geniale dirigente (Mattei), aveva reso più “miti” i propositi autonomisti dei vertici politici italiani, ma non li aveva spenti del tutto, in specie dopo l’entrata in campo del Psi guidato da Craxi; allora criticato e perfino odiato “a sinistra” (anche dal sottoscritto), ma che bisogna avere il coraggio di parzialmente rivalutare come personaggio in grado di avere alcuni “scatti di autonomia”.
Ovviamente, i “moralisti” – facendo finta di credere che la politica persegua gli interessi di un paese come la “buona massaia” lo fa per quelli della sua famigliola (e questo nel paese che vanta tra i suoi più grandi un Machiavelli!) – vedevano nel nuovo segretario del Psi l’“avvoltoio” che aveva preso il posto della “colomba” De Martino (la “brava persona”, quella che conduce al fallimento una qualsiasi politica). Craxi divenne anche l’obiettivo principe del Pci quando da Togliatti – per me “revisionista” (e non cambio opinione), ma di notevoli vedute strategiche – passò sotto la direzione del “moralista” Berlinguer, che iniziò la lunga marcia del partito verso il rinnegamento completo di ogni suo precedente schieramento. Berlinguer morì prematuramente e i successori accelerarono l’opera di “svaccamento” totale del partito, liquidando ogni più piccolo barlume di onestà politica (in contrasto con il sempre proclamato moralismo che del resto, diciamolo senza perifrasi, è solo apparente e assolutamente ipocrita, poiché i moralisti sono i più preparati a tradire e accoltellare alla schiena chiunque per i loro bassi e miserabili opportunismi).
Il Pci era ormai trasformato in una accolita di banderuole e voltagabbana quando si presentò l’occasione di mettere alla prova il “moralismo” dei suoi dirigenti, pronti a tutte le svolte politiche che si richiedessero per sopravvivere. Crollarono “socialismo” e Urss ed ecco i piciisti pronti alla “grande trasformazione” (in realtà ad un piccolo perfezionamento della loro corruzione ormai all’ultimo stadio,
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assieme al saccente e disgustoso ceto intellettuale di loro riferimento, già da tempo dilagato nelle Università, nei media, nell’editoria, in pieno servizio permanente attivo agli ordini dei dominanti parassiti dell’industria/finanza italiana). Stati Uniti e i suddetti parassiti ebbero immediatamente la visione di ciò che diveniva infine possibile: liberarsi degli infidi Andreotti, Craxi & C. mettendo al loro posto i riciclati di cui sopra. Questi ultimi cambiarono anche ufficialmente nome (per divenire “democratici”, pur se non più “cristiani”) e furono salvati dai processi che spettavano loro di “pieno diritto” (chi indagava su di essi, tipo Tiziana Parenti, fu ostacolato nello svolgimento delle sue mansioni), ecc.
Ovviamente, non potevano restare soli; anche piccoli nuclei di socialisti e democristiani dovevano circondarli. Così, ci si ricordò del modello “democrazie popolari”; e lo si perseguì in modo speculare. Cosa significa tale termine? Che si ottiene lo stesso risultato, ma cambiato di segno. Il regime è similare, ma opposto. Il fulcro dello schieramento politico al governo nei “socialismi” dell’est era un vero Pc, legato all’Urss; gli altri partitini facevano da contorno a mo’ di satelliti dando fumo negli occhi. Qui da noi, fatti fuori i partiti che avevano funzionato durante il mondo bipolare, il fulcro sarebbe dovuto diventare il partito dei “rinnegati” di quel piciismo, che avrebbero adesso preso ordini dalla potenza antagonista dell’Urss, cioè dagli Usa, rimasti ormai soli come superpotenza. I partitini di contorno sarebbero stati i rimasugli – ben bastonati e convinti a non far più scherzi, poiché li si era salvati dai processi per obbedire – dei vecchi partiti del precedente ordinamento politico.
Come suol dirsi, il diavolo insegna a fare le pentole ma non i coperchi. “Mani pulite”, grazie a procuratori ormai vanagloriosi e presi nelle vorticose spire del successo e della notorietà, esagerò; lasciò in vita veramente modesti e scadenti residui dei vecchi partiti governativi. La gran massa dell’elettorato democristiano e socialista, per quanto disorientato, prese così un’altra strada e permise a Berlusconi di giocare il ruolo del granellino di sabbia che inceppa l’organismo così ben studiato, ma assai male “fabbricato”. Così, da sedici anni, si chiacchiera tanto di Seconda Repubblica, ma non vi si è mai arrivati. I “grandi intellettuali” – quasi tutti vecchi reazionari riciclatisi in “progressisti” perché ben pagati dalla “manina d’oltreoceano” e dai parassiti industrial-finanziari italiani – hanno perso ogni funzione cultural-egemonica, si sono liquidati come persone serie, apparendo dei semplici pennivendoli in fregola di vaniloqui. Una vera congrega “massonica” di bavosi, ringhiosi, cani da guardia dei “poteri forti”, dei potentati economici ormai distruttori del tessuto sociale e produttivo del nostro paese.
2. Occhetto, con la sua “gioiosa macchina da guerra”, mise sotto minaccia Berlusconi (d’ora in poi B.) e i suoi interessi di imprenditore. Non fu lui però il vero gradasso poiché agiva, come sempre hanno fatto gli ex piciisti, per conto dei mandanti al cui vertice stava la “manina d’oltreoceano”, ma che erano ben rappresentati dai cosiddetti “poteri forti” italiani, la grande imprenditoria privata con alla testa la solita Fiat, la “grande disgrazia” del nostro paese, molto peggio che avere il Vaticano. B. era trattato in fondo quale residuo importante del mondo craxiano (e di quei settori economici che si erano fatti le ossa in quel periodo); fu quindi considerato – alla fine in effetti sembra lo sia stato – un ostacolo alla completa devastazione dell’assetto industriale “pubblico”, base del regime Dc-Psi, devastazione già decisa, ora lo sappiamo, sul panfilo “Britannia” da personaggi tutti schierati con la sinistra.
Ci si scorda che B. non voleva entrare direttamente nell’agone, cercò il “sostituto in politica”, ma l’unico tentativo che sembrava riuscito, con la firma del patto tra Mariotto Segni e Maroni (verso la fine del 1993), fu fatto saltare in 24 ore da Bossi (evento certo un po’ strano; sottolineo che fu proprio il leader della Lega ad effettuare un anno più tardi il ben noto “ribaltone”, facendo cadere il primo governo B.). Alla fine quest’ultimo entrò direttamente in politica e “si prese” i voti democristosocialisti lasciati in libertà. Tuttavia, da quel momento iniziò la “grande commedia” della politica italiana, che si trascina fino ai giorni nostri. Da 16 anni si finge il passaggio alla seconda Repubblica che mai è in realtà avvenuto. Il capitalismo – in specie quello che ha ancora le stimmate, non più che queste, della sua fattispecie borghese – mal tollera la “confusione” tra sfera economica e politica. Le
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sedicenti classi dirigenti (dominanti) devono stare dietro le quinte e far agire sul palcoscenico i loro attori politici. Con B. la struttura della recita saltava. Da qui tutta la pantomima del “conflitto di interessi”. Per mezzo secolo, la Fiat ha ottenuto una bella quantità di aiuti di ogni genere, ma nessuno ha parlato di conflitto di interessi per quando riguarda la sua famiglia proprietaria (e ogni volta che sono saltate fuori, anche ultimamente per questioni ereditarie, “strane cose”, l’azione giudiziaria si è sempre impantanata e dispersa e poi di fatto dimenticata dal pubblico).
Anzi, si è sempre raccontata la “balla” che gli interessi italiani coincidevano con quelli della Fiat, a causa dell’occupazione che “dava” (per gli ideologi dei dominanti i capitalisti sono “datori di lavoro”, con “simpatica” inversione della realtà dei fatti che vede i lavoratori offrire la loro merce e chi ha i capitali domandarla per impiegarla al fine di ottenere un profitto dalla propria impresa; come vedete non entro nella discussione intorno allo sfruttamento, cioè estrazione di pluslavoro/plusvalore). Quando poi la Fiat ha ridotto drasticamente l’impiego di “mano d’opera” (altro termine edulcorato) nell’azienda, si è però detto che, nell’indotto, “dava lavoro” ad almeno sette persone per ognuna di quelle impiegate direttamente. Resta il fatto che le scelte governative dettate da quell’azienda, e che ad essa portavano vantaggi e profitti, non sono mai state conflitto di interessi, bensì un premio per la “benefica” funzione da essa svolta a favore del lavoro italiano. Guai, però, se si entra di persona in politica; si contravviene alle regole della recita, e se ne pagano le conseguenze, soprattutto quando la magistratura agisce di fatto come longa manus dei già segnalati mandanti, che avevano già mostrato dove volevano arrivare distruggendo, con la Dc e il Psi, chi era di intralcio sulla loro strada.
Indubbiamente, però, la Fiat e “gli altri” non rappresentavano tutto il potere economico italiano del dopoguerra. L’industria “pubblica”, creata dal fascismo, non era stata distrutta; fu invece ereditata dal regime post-fascista, che poi la potenziò con due “pezzi da 90”: l’Eni (1953, per merito appunto del lungimirante Mattei) e l’Enel, sintesi dell’accordo tra Dc e Psi (fine 1962), che portò al primo governo di centrosinistra nel 1963 (presieduto da Moro). Ci fu spesso frizione tra cattolici e laici nella conduzione dell’economia “pubblica”, ma essa ebbe sempre grande rilevanza e fu un asse del potere di quel regime durato, di fatto, fino a “mani pulite” (sempre si ricordi però chi volle la sua distruzione). Inoltre, con il Psi di Craxi, il settore “pubblico” divenne anche, in specie nel suo lato bancario, la molla per la nascita di un’ampia area economica privata (di cui senz’altro B. dovrebbe essere stato un pezzo rilevante) in concorrenza con l’ormai insopportabile potere di Fiat & C., di cui il tanto “cantato” De Benedetti divenne poi la “mano sinistra”, comprando la Repubblica, giornale nato nel 1976 ad opera di Scalfari-Caracciolo (e oggi divenuto fin troppo settario e forse controproducente per il capitalismo “arretrato” italiano, che gli preferisce il “Corrierone” e il Sole24ore). Per coincidenza, nel 1976 Craxi diviene segretario del Psi e lo rilancia su nuove basi e con diverso (maggiore) potere. Sempre in quell’anno il Pci ebbe il suo massimo elettorale (34,4%) e nacque il III governo Andreotti; si può considerare il momento dell’accelerazione del “consociativismo” (nel 1979 venne creata la terza rete TV assegnata ai piciisti).
3. Importante, per non dire decisiva negli ultimi 16 anni, è la questione dell’antifascismo, e del mutamento storico che questo andò subendo dopo l’entrata in campo dell’ala “sinistra” dei “poteri forti”, in specie confindustriali. Cossiga ha recentemente ammesso che l’80% della Resistenza era costituita da comunisti. Naturalmente, non si può pensare che essa potesse vincere da sola; oltre a tutto, essa ha interessato solo una parte (il nord soprattutto) del territorio italiano. Come nei paesi est-europei fu decisiva l’Armata Rossa, così in occidente, e in Italia, lo furono le truppe “alleate”, cioè americane e inglesi (la Francia è considerata tra i vincitori, ma l’incisivo documentario di Marcel Ophúls, Le chagrin et la pitié del 1970, ha ben mostrato come una fetta importante di piccolo-media borghesia francese fosse non semplicemente “occupata” dai tedeschi, ma in sostanza piuttosto favorevole alla “Repubblica di Vichy”). Malgrado quanto appena detto, è del tutto assurdo considerare la Resistenza come semplice “Liberazione” dal nazifascismo. In primo luogo, gli statunitensi, per la funzione svolta
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nel dopoguerra, vanno considerati più invasori che liberatori. In secondo luogo, non vi è dubbio che, dati i patti di Yalta, i veri resistenti antifascisti (all’80% comunisti) non poterono realizzare i loro obiettivi: una trasformazione, magari anche con compromessi vari, dei rapporti sociali in Italia e, in ogni caso, non la semplice restaurazione del tipo di capitalismo prima esistente, arretrato e divoratore di risorse (parlo di quello privato, e della Fiat in primo luogo).
Va tenuto presente che il capitalismo combattuto fu infatti principalmente quest’ultimo, che si gettò con l’antifascismo solo a guerra persa; fu quel capitalismo che appoggiò il colpo di Stato monarchico del 25 luglio 1943 con il cambio di alleanze, per ottenere appunto l’appoggio ad una piena restaurazione a guerra finita. Questo fu l’antifascismo “dell’ultima ora”, l’antifascismo fino all’ultimo fascista che mostrò il suo viso pienamente reazionario subito dopo la caduta del “governo di unità nazionale” (1947) e le successive elezioni del 18 aprile 1948; e che condusse la sua opera nefasta per tutti gli anni ’50 almeno fino al governo Tambroni e ai “fatti” del luglio 1960. Dopo il 1962-63 cambiò la sua “struttura” interna di potere (decaddero rapidamente i Volpi di Misurata, i Pesenti, ecc.) ed esso dovette accettare la convivenza con un settore di industria “pubblica” decisamente rafforzato da Eni ed Enel. Con l’avvento del piciismo berlingueriano, non più soltanto revisionista (errore commesso da tanti “gruppuscolari”, compreso ancora una volta il sottoscritto) ma di vero spostamento politico e ideologico ad occidente (cioè in senso sempre più prono agli americani), l’antifascismo mutò natura, in esso presero il sopravvento, grazie anche ad una opportuna opera mediatica compiuta dal ceto intellettuale di sinistra (corrotto ormai oltre ogni limite), i successori dell’antifascismo voltagabbana del 25 luglio ’43, quello dell’“ala sinistra” del grande capitale (dei “poteri forti” privati) con il loro giornale Repubblica.
Lascio stare i cosiddetti “anni di piombo”, che meriterebbero un discorso a parte, ma non sono essenziali nel contesto che sto illustrando in modo schematico. Ricordo solo il fatto, comunque non indifferente, che molti degli ambiziosi sessantottardi (ben pitturati da Pasolini; e almeno su questo mi sento tranquillo per non averli mai gran che apprezzati), oltre a dar vita a “bande” che fecero chiaramente il gioco dei restauratori, hanno infestato tutti i media, l’editoria, il cinema e spettacolo in genere, ecc. diventando il braccio sedicente intellettuale (di una miseria infinita) di questa “ala sinistra” del grande capitale; più tardi cianceranno di grande rivoluzione tecnologica, di toyotismo e altre futilità varie, per incensare la Fiat della “qualità totale”. Anche in tal caso mi sento tranquillo per avere criticato recisamente questi “grandi pensatori”, che tuttavia hanno devastato con la loro cialtronaggine la cultura detta di sinistra in questo disgraziato paese.
Ciò che più conta è che tale antifascismo dell’ultima ora – assolutamente privo degli ideali della Resistenza, interessato a salvare solo i suoi privati e individuali vantaggi parassitari, mai combattuti però, et pour cause, come “conflitto di interesse” – è stato quello che, con l’ulteriore sdraiarsi ai piedi degli Usa, ha deciso di svendere tutto l’apparato pubblico a se stesso, cogliendo così i classici due piccioni con una fava: abbattere una importante base del potere Dc-Psi (con le sue propaggini in certi settori privati, cui dette il suo favore soprattutto Craxi, tipo appunto quelli di B., ma non solo) e impadronirsi di profittevoli e importanti settori industriali e bancari. Ovviamente, non sarebbe riuscito a tanto se – aiutato dalla “manina d’oltreoceano” con il suo “pentito” di turno – non avesse potuto scatenare “mani pulite” con l’operazione ormai ben nota; ma per nulla conosciuta, dato che la sinistra (politica e intellettuale), al servizio del grande capitale già indicato, ha totalmente oscurato il problema, seguita da quell’elettorato fasullo formato da una parte del ceto medio (non produttivo), che si dà arie di cultura per quattro romanzetti moderni che legge, un po’ di cinema, tante mostre visitate ma mal digerite, ecc.
Nel 1992 venne trasformata in società per azioni l’Eni, la nostra principale azienda strategica. Per fortuna il 30% e più di azioni, e dunque il controllo, resta al Tesoro e alla Cassa Depositi e Prestiti (CDP). Questo fatto non la rende però sicura rispetto agli attacchi che, ripetutamente e ancor oggi (anzi diventano più pressanti), le vengono portati da sinistra – sempre per conto di americani e grande
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capitale italiano ad essi supino – con la richiesta, finora sempre respinta al mittente, di separare la rete di distribuzione dalla produzione, al fine di indebolire e magari poi addomesticare la nostra impresa strategica, staccandola dai rapporti vitali e decisivi con la Gazprom. Quello che anni fa sembrava l’amerikano per eccellenza, il “signor B.” – magari per affari suoi; non me ne può fregare di meno – si dimostra meno coricato di fronte agli Stati Uniti, che hanno invece la loro rappresentanza più schietta nella sinistra (e nella destra con essa connivente). Tale posizione di totale servilismo di questa parte politica trovò una clamorosa dimostrazione nell’attacco italiano alla Jugoslavia al seguito degli Usa (Cossiga sostiene, mai smentito ma solo ignorato, che è stato lui a far cadere Prodi nel 1998 per portare alla presidenza del Consiglio un uomo di ancor più provata fede filo-americana). Fatto oggi ignorato dall’intera sinistra “radicale”, che è ormai anch’essa prona ai voleri d’oltreatlantico, con la scusa del “nero” (e quindi “diverso”, da “adorare” perciò come tutti i diversi) Obama.
4. Ormai la natura dell’antifascismo è stata completamente snaturata; siamo in presenza degli opportunisti dell’ultimo momento, non certo degli eredi dei resistenti, di quelli delle commoventi e nobili Lettere dei condannati a morte della Resistenza (europea e italiana), libri che non vengono più, non a caso, propagandati, diffusi, letti. Chi ha in mano stampa, editoria, insegnamento, ecc. preferisce ignorarli perché ogni loro riga sarebbe una denuncia di questi mentitori e usurpatori del blasone di resistenti, avvilendolo al seguito di esagitati e interessati eversori al servizio di una potenza straniera, che ha preso nel dopoguerra il posto della Germania anni ‘30.
Questo paragrafo è di intermezzo proprio per spiegare un fatto essenziale. Nella storia, nulla rimane fisso salvo che per gli sclerotici. Posizioni un tempo rivoluzionarie diventano dopo alcuni decenni il loro contrario, giudizi che sembravano assodati vengono scossi dalle fondamenta, pensatori che hanno aperto nuove vie vengono imbalsamati e sterilizzati rendendoli innocui ripetitori e scopritori dell’“acqua calda”. Facciamo esempi concreti. Mai sarò un “revisionista storico”, nel senso che non nego affatto l’Olocausto nella sua sostanza. Se leggo oggi Il diario di Anna Frank non posso che provare la stessa emozione di un tempo. Del resto molte delle lettere dei condannati a morte appena ricordate sono scritte da ebrei, e hanno la stessa forza di allora. Tuttavia, proprio per essere fedele a quei sentimenti (e a quelle ragioni), condanno apertamente e senza mezzi termini Israele per le sue crudeltà ed efferatezze contro palestinesi e arabi in genere, per la sua prepotenza ed arroganza, senza alcuna pretesa di fare graduatorie e gerarchie (che mi sembrerebbero disumane) tra gli atti criminali di oggi e quelli perpetrati 70 anni fa dai nazisti.
Sono contro e basta. Inoltre, a parte eccezioni particolarmente encomiabili e da esaltare, non posso non constatare che la stragrande maggioranza degli ebrei sta con Israele e la sua continua aggressività e oppressione di altri popoli. Non mi interessa trincerarmi sempre dietro l’antisionismo, sono semplicemente contro i persecutori. Per di più ho anche precise motivazioni geopolitiche per esserlo, visto che considero Israele (e chi l’appoggia) un “braccio armato”, particolarmente violento e selvaggio, degli Stati Uniti; non mi passa per la testa di invertire le posizioni e di pensare che siano gli ebrei a complottare e a servirsi della superpotenza per i loro fini. Non mi sono mai perso dietro alle fregnacce della razza (superiore e inferiore), magari delle diversità genetiche, e simili. Non riconosco i “diversi” né per caricarli di tutte le nefandezze né per stendermi ai loro piedi e amarli e leccare loro il culo. Non ci sono diversi; solo onesti e farabutti, sinceri e mentitori, generosi e meschini e, ovviamente, oppressi e oppressori, massacrati e massacratori, in tutti i continenti, a tutte le latitudini, in tutte le epoche della storia, ecc.
Critico senza mezzi termini Israele e la maggioranza degli ebrei che è d’accordo con le feroci prepotenze di tale paese; e ricordo, con particolare disprezzo, che simile accordo era assai minore durante la prima intifada palestinese, condotta con soli sassi da una parte e piombo dall’altra. Finché i palestinesi si facevano impallinare come piccioni, molti ebrei dimostravano pietà. Quando hanno usato armi (mitra contro aerei e carri armati, missili artigianali contro quelli di precisione e potenza cento
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volte superiori), allora dagli allo “sporco arabo”, che equivale allo “sporco ebreo” di 70 anni fa. Ripeto, tutto nella storia cambia segno; gli ebrei da massacrati sono divenuti massacratori. Vogliamo fare differenza di numero, di modalità di uccisione? Va bene, se vi va di tenere simile contabilità e studio “raffinato” dei diversi modi di sterminare, dimostrate di essere voi, oggi, gli sterminatori, di non tenere in alcun conto la vita umana; non una vita qualsiasi, ma quella di coloro che pretendereste vi obbediscano, eleggano i rappresentanti (alla Abu Mazen) che volete voi poiché così li manovrate e sono molto “moderati” (cioè accettano le vostre soperchierie e i vostri ordini). Se vogliono essere liberi, e avere chi li rappresenta realmente nei loro fondamentali interessi, allora li volete eliminare.
Vi accuso per questo vile comportamento, e non accetto di mettermi a fare confronti e disquisizioni “sottili” sui tipi di massacro. Dite che sono antisemita? Ed io vi accuso di essere dei solenni mentitori; fra l’altro non sono semiti anche gli arabi? Non mi interessa il giudizio di massacratori e di complici di massacratori. Forse sono diventato fondamentalista islamico? Ancora una volta, rigetto la menzogna. Resto con la mia cultura occidentale; sono nato in questa, questo è il mio orientamento di fondo e qui io vivo; senza essere orgoglioso di tale fatto ma senza nemmeno avere sensi di colpa o vergognarmi. Sono quello che sono per nascita ed esperienze sociali e culturali. Sono uno che apprezza moltissimo il cinema americano, la letteratura americana, il jazz, perfino il pragmatismo come corrente filosofica; e tuttavia, sono contro la politica degli Stati Uniti, nemmeno mi faccio incantare dal nuovo “serpente” alla Casa Bianca. Non ho nulla a che vedere con un tipo di mentalità e cultura alla talebana; ammetto onestamente che ne resterei inorridito. Tuttavia, sono favorevole a che gli afghani caccino via dal loro territorio chi lo ha occupato per ragioni di supremazia mondiale e di sfere di influenza da conservare ai fini della propria superiore potenza. E pur essendo un “occidentale”, aborro gli studentelli filo-occidentali iraniani semplicemente al servizio degli Stati Uniti in una di quelle “rivoluzioni colorate”, che stanno a dimostrare quale porcheria e vergogna senza fine è divenuta la cosiddetta “democrazia” all’americana, copiata anche da noi; e in modo del tutto particolare dalla “sinistra”, dallo sporco antifascismo del tradimento.
Ed eccoci al dunque. Perché ho infatti scritto la digressione di cui sopra? Perché anche l’antifascismo ha cambiato segno nel corso degli ultimi 70 anni. C’è stato un antifascismo “nobile”, quello degli uccisi e perseguitati, del carcere e del confino, quello che ha iniziato a resistere nei veri anni bui (i ’30) in cui non si vedeva la luce in fondo al tunnel, in cui le sconfitte si susseguivano alle sconfitte. Non nego affatto che ci furono i Matteotti e i fratelli Rosselli e altri ancora di orientamento non comunista. Non nego la grandezza dei Parri, dei Calamandrei, dei Calogero, ecc. Tuttavia, cerchiamo di essere seri. Si tratta in tal caso di singoli personaggi, che come sempre avviene portano il loro nome nei libri di storia, per cui sembra che le correnti di trasformazione siano rappresentate da loro. Vi è invece un’ossatura ben più salda e ramificata che regge veramente quelle correnti, che le fa scorrere magari per molto tempo in profondità (carsiche) per poi portarle in superficie, rendendole impetuose. Sappiamo bene da chi fu costituita quell’ossatura nel reale antifascismo: da operai e contadini, da artigiani e piccola gente del popolo (piccola solo nel senso di non nota né ricca né dotata della cultura per scrivere libri e restare nella storia con il loro nome); e per la maggior parte formata, direi forgiata, dal comunismo. Resa dura, salda, inattaccabile e resistente in senso proprio. Senza questa gente non si fa nulla, anche se nei libri di storia entrano con un breve cenno cumulativo, mentre poi si tornano a leggere le imprese e le belle frasi dei “colti” che riempiono pagine e pagine.
L’ossatura che dico fu appunto comunista; non lo dico per banale orgoglio, si tratta di ben altra preoccupazione, eminentemente politica. Già nel dopoguerra ci fu una piccola distorsione “storica”, mettendo il “partigianesimo” (mi si passi l’orrendo termine) cattolico sullo stesso piano di quello comunista; anche in tal caso non c’entra nulla un atteggiamento anticlericale e, del resto, ricordo ancora una volta la recente ammissione di Cossiga, che non può essere accusato di parzialità filocomunista. In ogni caso, ritengo quell’atteggiamento un modesto “falso” storico (promosso anche da film peraltro notevolissimi come Roma città aperta). Il vero tradimento della storia si è operato più tardi; e
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bisognerà ricostruirlo passo passo, con calma, cosa che non sono qui in grado di fare. Credo sia cominciato con la svolta berlingueriana nel Pci; e ciò mi conferma nell’idea che i più falsi e ipocriti di tutti sono i moralisti giacché non rispettano alcuna verità, anzi la pervertono a loro piacimento secondo scopi politici di bassa lega e intrisi di reazionarismo. Sono falsi moralisti, effettivi amorali che usano l’arma della menzogna e/o della falsificazione.
Di sicuro, alla degenerazione ha contribuito in grande misura tutta una genia venuta dalle fila del ’68 e ’77, assieme alla svolta più radicale del Pci con la Bolognina (199 1) e all’accordo con la “manina d’oltreoceano” e il grande capitale privato italiano per l’operazione “mani pulite” e tutto ciò che ho già sopra ricordato. Gli eredi del vecchio comunismo, ormai da tempo degenerati in servi dell’“occidente” capitalistico (con al suo vertice gli Usa), lasciarono fare ad un ceto intellettuale “di sinistra” (pagato dal grande capitale privato), che diede all’antifascismo un significato non resistenziale e di semplice appoggio alla “liberazione” da parte degli “alleati”. In questo, tali falsi antifascisti non si riallacciavano affatto ai grandi, ma ormai isolati, nomi dell’antifascismo azionista; puramente e semplicemente erano i (o gli eredi dei) finti antifascisti del tradimento perpetrato il 25 luglio 1943, quelli che poi restaurarono pienamente il capitalismo (privato) italiano più reazionario, che guidarono le sanguinose repressioni alla Scelba, che istaurarono i reparti confino alla Fiat, arrivando fino al Governo Tambroni e al luglio 1960.
Dopo ci fu un periodo più complesso, intricato, con i tanti “misteri” nient’affatto risolti e che, lo ripeto, andranno studiati per capirne meglio il significato politico di lunga lena. Comunque, la questione svoltò e si chiarì con il “crollo del muro” e la dissoluzione dell’Urss, con la riunione sul Panfilo “Britannia”, ecc. ecc. L’antifascismo divenne soltanto quello dei traditori, dei voltagabbana non appena vista la mala parata della sconfitta nella seconda guerra mondiale; se vogliamo, divenne soprattutto quello degli eredi di quell’antifascismo dell’ultima ora. Non appena il loro mirabile “organismo” di totale asservimento alla superpotenza rimasta – quell’organismo che, dal punto di vista della struttura politica, voleva mettere in piedi, come già rilevato, una “democrazia popolare” all’incontrario – fu inceppato dal granello di polvere berlusconiano, tale antifascismo, con dietro tutti i media della Confindustria e dell’establishment italiano, si mise all’opera su più fronti.
La magistratura continuò, e continua tuttora, a imperversare. L’importuno fu accusato di perseguire interessi personali, il ben noto conflitto di interessi, che invece sparisce non appena i gruppi imprenditoriali privati perseguono i loro, soddisfacendo anche quelli dei predominanti centrali (Usa), servendosi però a tale scopo di date forze politiche prone ai loro voleri. Basta separare formalmente l’economia dal suo apparato di servizio politico, e il conflitto di interessi sparisce. Basta pagare bene una serie di studiosi di diritto, economia, politologia, ecc., mettendo a loro disposizione media, editoria – e logicamente cattedre universitarie, posti in consigli di amministrazione di imprese o in istituzioni statali, seggi parlamentari nazionali o regionali, ecc. – e tutti costoro spiegheranno che ogni cosa (in realtà sporca) è trasparente, onesta, lecita, che la classe dirigente è monda di ogni peccato.
Questi antifascisti, del rovesciamento di alleanze non appena i loro interessi del tutto particolari lo esigono, si sono messi ad urlare all’ascesa di un nuovo fascismo. Impossibile chiedere a questi energumeni in quale altro paese e momento della storia un fascismo, dopo 16 anni di ascesa, non si sia ancora installato saldamente al potere, avendoli fatti fuori definitivamente affinché non si sentano più le loro urla stentoree; quando mai un fascista si sia fatto buttare giù da un “ribaltone”, dopo aver vinto le elezioni, e abbia accettato di perderne due, rimanendo tranquillamente all’opposizione; in quale altro regime fascista conosciuto (ma anche in un regime di appena modesto ordine e autoritarismo) un capo di governo si sia fatto insultare, dileggiare, spiare nella sua vita privata, minacciare da “toghe” assatanate; come mai, se ci sono talvolta squadracce di violenti e disadattati in azione dissennata, queste si ricollegano sempre, sia pure tramite la finzione di centri sociali, no global, social forum, ecc. alla sinistra. Inutile porre simili domande, perché ormai la “sinistra” del grande capitale, e del servaggio verso gli Usa, non deve rendere ragione a nessuno; e quella detta “estrema” ha raggiunto
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livelli di corruzione fin troppo alti. Inoltre, il cervello dei seguaci ed elettori di entrambe si è decisamente rammollito per cui essi non capiscono nulla di nulla, salvo che “devono distruggere B.”.
5. Va comunque detto con la massima decisione che non è accettabile come viene trattato, da una parte e dall’altra, il comunismo. Si parla a vanvera dei crimini commessi da quest’ultimo in tutta la sua storia. Inaccettabile; ancora una volta non per semplice sentimentalismo, ma perché viene offesa ogni sia pur minima intelligenza. La Storia è tutto un susseguirsi di crimini; e non certo commessi da “chi sta sotto”, che al massimo ogni tanto dà in una bella sfuriata, ma viene poi sterminato con ferocia inaudita. In particolare, ci si rende conto dei crimini dell’epoca del capitalismo? Genocidi totali (civiltà precolombiane, indiani dell’America del nord, e non so quanti altri). Imprese coloniali, che sono un susseguirsi di eccidi di massa con sottomissione in schiavitù di interi popoli. Tratta dei neri; milioni e milioni, di cui arrivava a destinazione ben meno della metà e poi sappiamo a che cosa servivano e come venivano “mantenuti”. Processi dell’accumulazione originaria, che furono un altro abominio non indifferente, anche se magari non con uccisione immediata; ragazzini mandati in miniera a 7-8 anni (e meno), uomini abbrutiti dalla fatica e dalle malattie contratte nel lavoro, che a trent’anni erano ormai “al macero”. E poi tutto il seguito delle repressioni di ogni minimo sussulto per conquistare una vita più dignitosa; e guerre continue, fra cui due mondiali con grande massacro generalizzato (sono state scatenate dai comunisti, brutti mentitori?). E le bombe atomiche e gli immani “crimini contro l’Umanità” compiuti dagli Usa in questo secondo dopoguerra (e ancor oggi), li tralasciate? Se ci fosse la giustizia che invocate, ci sarebbero dovuti ormai essere non so quanti Tribunali di Norimberga per questi “assassinii in massa”; non quello dell’Aja, addomesticato per servire i vostri interessi criminali.
Dato debitamente dei mentitori a coloro – anche storici “insigni” e vari banditi denominati intellettuali – che parlano dei delitti del comunismo, va detto che bisogna trarre la lezione, puramente storica, della fine dello stesso. Negli ultimi tempi, mi sono convinto che non si può semplicisticamente parlare di fallimento del processo iniziato nell’ottobre del 1917, poiché i risultati d’esso si sono visti nel corso di tutto il XX secolo e, per di più, credo che proprio adesso quell’evento lontano stia producendo alcuni effetti importanti con l’ascesa a nuove potenze di Russia e Cina. Bisogna levarsi dalla testa che i risultati di certe azioni storiche siano quelli voluti e perseguiti da coloro che le hanno poste in essere. Non è mai successa una cosa del genere; la cosiddetta “eterogenesi dei fini” è costantemente all’opera, non smette mai di stupire. Dunque, si valuti meglio ciò che si dice quando si parla di fallimento del comunismo.
Tuttavia, se qualcuno ancora pensa agli obiettivi che le rivoluzioni comuniste si erano posti, allora va in effetti affermato che si è in presenza di un fallimento; ma si tratta più propriamente di delusione dei “credenti”. Tale fatto, pur se riguarda molte persone (ma ormai un numero in decrescita esponenziale), è di tipo puramente personale, esistenziale. Politicamente, non ha proprio più alcun significato. Ormai i comunisti (la “falce e il martello”) sono ridotti a poveri residui avvizziti. Ci sono certo alcuni farabutti che continuano a predicare quella “fede” per utilizzare questi scampoli in senso elettorale, sperando di poter proseguire per qualche anno ancora il loro vivere alle spalle di povera gente, da trascinare nei loro sempre più laidi giochi di alleanze con la sinistra (l’antifascismo del tradimento), una sinistra pienamente filoamericana e ormai eversiva, portatrice di violenza a favore dei loro padroni banco-confindustriali con alle spalle gli interessi geostrategici dei “nuovi” Usa del “Serpente”.
I dirigenti che ancora sbandierano il rosso vanno indicati come puri mascalzoni; perché sono speculatori, “mercatoneristi”, delle credenze e della fede di gente amareggiata e delusa, che si aggrappa ancora, con sincerità, alla speranza di risorgere. Non nascondo, tuttavia, che mi irritano pure questi speranzosi da “ultima spiaggia”. Rispetto i credenti in Dio, i religiosi di fede sicura e profonda. Mi sono più simpatici loro che certi atei arroganti e presuntuosi, convinti di essere furbi perché non si fanno ingannare dalle “bubbole dei preti”. Così pure, sono pronto a rispettare anche gli ultimi credenti
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nel comunismo. Non possono però scaricare la loro amarezza, la loro crisi esistenziale per i traguardi non raggiunti, per la sensazione di una imminente fine anche delle loro ultime speranze, sragionando e insultando, senza lo straccio di un’argomentazione, chi è giunto dopo lunga riflessione alla conclusione che la prospettiva del comunismo va abbandonata per non ingenerare ancora confusione, ulteriori delusioni, brucianti sconfitte.
Per quanto mi riguarda non ho mai rinnegato – per di più senza la benché minima riflessione autocritica come hanno fatto i piciisti – il mio passato comunista. Semplicemente, pur rispettando chi ha fede sincera e autenticamente sentita, non credo per fede, non sono abituato a nutrire speranze salvifiche. “Credevo” nel comunismo perché fondato su analisi realistiche della società capitalistica di una certa epoca (quella inglese di metà ottocento), con la convinzione di poterne trarre la previsione di precise tendenze verso una trasformazione dei rapporti sociali tale da porre basi oggettive solide per una nuova forma di società. Mai creduto, nemmeno da bambino, alla “bontà umana”, alla ipocrita affermazione di sentimenti morali portati al collettivismo e comunitarismo. Ho visto in Marx uno che, nemmeno lui, credeva a questi “buonismi” da strapazzo, ma poneva le basi trasformative su solidi pilastri, non solo parolai come quelli dei “filosofi a briglia sciolta”. Essendo poi stato leninista prima ancora che marxista, mi sembrava di buon senso tutta una serie di precisazioni (e innovazioni rispetto a Marx) del dirigente bolscevico, che non ripeto qui perché vi ho scritto centinaia di pagine; ma si trattava di lucide analisi e del segno di grande capacità e intuizione strategica. Ho anche pensato non fosse del tutto errata la concezione maoista dell’“accerchiamento delle città da parte delle campagne”.
Tutto questo è alle spalle, non ha prodotto buoni risultati. Non mi sento in crisi esistenziale, ritengo di poter abbandonare quella prospettiva accettando la realtà di un nuovo percorso di analisi senza bisogno di strapparmi i capelli. Soprattutto, però, ho ben capito che i fu comunisti (ormai del resto molto deteriorati) sono divenuti dal 1991 gli ignobili rappresentanti del peggiore e più reazionario capitalismo della nostra fase storica. Qui in Italia, per mascherare questo repentino e drastico cambiamento di campo, hanno trovato, negli ultimi 16 anni, la bella scusa del Diavolo B., il male assoluto, quello che bisogna combattere, su cui scaricare tutte le colpe che sono invece le loro, le colpe del loro tradimento. Chiunque cada in questo tranello può benissimo mostrare il suo cuore esulcerato, il suo dolore e chiedere di poter ancora sperare in un futuro migliore, di affrancamento dall’oppressione, ecc. Lo potrei ritenere un po’ deboluccio di nervi, ma comunque scusabile; non però quando si scatena nell’antiberlusconismo e con ciò si schiera a fianco dei rinnegati e traditori, dei farabutti e venduti che stanno appoggiando il grande capitale privato reazionario, parassita, succube degli Usa. Questo non lo scuso; considero nemici a tutto campo coloro che assumano una simile posizione. E allora la loro amarezza mi fa schifo, li indico al disprezzo di tutti coloro che ancora ragionano. Credano e sperino; ma non si schierino in quel modo! Curino altrimenti il loro spleen (oggi non mancano gli psicanalisti).
6. Se questi sono ormai i fu comunisti, che pensare allora di coloro che ancora speculano sul comunismo e vi trovano rifugio per una “debolezza” speculare? Da 16 anni, da quando entrò in politica e fu combattuto per aver rovinato i piani dei devastatori d’Italia, B. continua a dire che è attaccato dai “comunisti”, che le toghe eversive sono “rosse”. Mi dispiace, ma questa menzogna, speculare all’altra, ha creato in un popolo ormai assai spoliticizzato una confusione mentale pericolosa. Non sono nella testa di B. e quindi non so se pensare a carenza di cultura o a un tentativo di maldestra furbizia, che oggi sta mostrando la corda. Nemmeno sono in grado di conoscere con esattezza il perché di una politica estera indubbiamente diversa da quella che comporterebbe l’assoluta subordinazione agli interessi americani, quell’assoluta subordinazione che Cossiga vide evidentemente nel fu comunista D’Alema quando, secondo quanto lui afferma (mai smentito, soprattutto dal diretto interessato), lo portò alla presidenza del Consiglio per scendere in guerra dietro agli Usa contro la Jugoslavia.
So solo che non sono i comunisti ad attaccar B. e a volerlo far fuori, bensì i rinnegati del piciismo (e alcuni “falce e martello” che stanno in coda alla “sinistra”, in specie alla più eversiva, per bassi e ormai
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miserrimi interessi), che dovevano rappresentare nel palcoscenico della politica quella sorta di “democrazia popolare” all’incontrario di cui già detto; con dietro le quinte gli ormai ben noti, a chi mi sta leggendo, mandanti interni e stranieri (statunitensi in specie). Finché l’unica superpotenza rimasta ebbe la sensazione di poter realizzare i suoi progetti “imperiali” (durante le presidenze dei due Bush e di Clinton), ci si limitò a contenere la politica estera di B. utilizzando il livore e la mala fede della sinistra e tenendolo comunque “sotto pressione”, ma senza spingere troppo a fondo il pedale. Del resto anche B., fino al 2003, appariva tutto sommato non meno “amerikano” degli altri. Cosa sia accaduto in quell’estate (caldissima) del 2003 in Sardegna, durante l’incontro con Putin (che veniva dal nord Africa; o Libia o Algeria o entrambe), evidentemente non lo so.
D’altra parte, dopo aver raggiunto il massimo dell’inganno “terroristico” (Al Qaeda che serve a tutti gli usi possibili) nel 2001, trascinandosi dietro pure la Russia (interessata a combattere i suoi “terroristi” in Cecenia), venne sempre più alla luce un contrasto di interessi a lungo raggio fra gli Usa e alcuni grandi paesi che, ad un certo punto, apparvero come possibili nuove potenze del futuro (a non troppo lungo periodo). Ci si accorse in modo più distinto che, pur con giri e rigiri e tante difficoltà, si stava procedendo verso il lento avvio del multipolarismo. Da questo momento, diventa pure visibile una politica meno dipendente da parte di alcuni settori di punta italiani (ancora in parte non privati; sia però chiaro che non è questo il problema, pur se non posso qui affrontarlo; del resto l’ho già fatto in molti scritti e in libri). Soprattutto appare decisiva la funzione geostrategica dell’Eni, che da allora stringe sempre più i suoi rapporti con la Gazprom. Non so se è stato un gesto significativo o meno, ma segnalo comunque che, a poca distanza da quell’incontro estivo tra B. e Putin, viene sostituito Mincato con Scaroni alla guida della nostra azienda energetica.
Malgrado già negli ultimi due anni della presidenza di Bush jr. si constati un certo cambiamento tattico-strategico degli Usa, è con la nuova presidenza che quest’ultimo viene maggiormente in evidenza; sebbene alcuni uomini della vecchia amministrazione siano riciclati nella nuova e, soprattutto, il mutamento sia più di parole, d’immagine, che di sostanza. In ogni caso, gli Usa prendono atto dell’avvio del multipolarismo e a questo almeno cominciano ad attrezzarsi. Ritorno all’indietro, pur se oggi la situazione è assai diversa. Un giorno, la storia rimetterà al suo posto molti personaggi. Uno di questi è Nixon. Faccio un nome, ma intendo un’intera “amministrazione” cioè ben precisi gruppi politici, che avevano come consigliere uno stratega di prima qualità: Kissinger.
In quegli anni, gli Stati Uniti rinunciarono a proseguire la guerra in Vietnam. Non credo avessero possibilità di vincerla, ma di tirarla ancora in lungo, questo sì. Ciò avrebbe rischiato di favorire la frazione filocinese del Pc vietnamita. La vittoria rinsaldò invece i suoi legami con l’Urss, mise il Vietnam contro la Cina per la Cambogia (dove venne rovesciato il regime favorevole a Pechino) e fece scoppiare il breve conflitto sino-vietnamita (1979). Nel 1972, con il famoso viaggio in Cina, Nixon aveva già cominciato a sfruttare la rivalità tra il paese asiatico e l’Urss. Il socialimperialismo sovietico venne dichiarato già a quel tempo, da tutti i maoisti, il nemico principale rispetto all’imperialismo statunitense. Con la mossa nel Vietnam, e le sue conseguenze a cascata, si riuscì ad accentuare ancor più il contrasto tra Cina e Urss. In definitiva, la politica di Nixon (in realtà, di Kissinger) – se magari (forse) costò il Watergate e le dimissioni del presidente nel 1974 (nel 2005 si seppe che la “gola profonda” dello scandalo era Felt, il numero due dell’FBI a quell’epoca; il merito dei due “famosi” giornalisti andrebbe almeno ridimensionato) – tramite percorsi tortuosi ha contribuito a quanto è poi accaduto nel 1989-91. Tutto il merito del “crollo socialistico” è stato invece attribuito a Reagan; l’interpretazione, volgarmente economicistica, del fatto fu l’aver costretto l’Urss a spese militari che non poteva sopportare. E’ veramente una storia da riscrivere, ma non è rilevante nel contesto del mio scritto.
Non vi è dubbio che, in un certo senso, Obama ha compiuto una mossa – viaggio in Cina, rifiuto di ricevere il Dalai Lama – che riprende quella via, ma in una situazione molto diversa. Non c’è un mondo bipolare, di cui sgretolare uno dei due “campi”; siamo alle avvisaglie sempre più nette del
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multipolarismo ed ogni mossa, in una data direzione, provoca reazioni sull’insieme dello scacchiere internazionale non valutabili con la semplicità di allora. Essere troppo favorevoli alla Cina irriterebbe l’India, che non ha certo rapporti di rottura con la Russia. Anche il Giappone potrebbe esserne poco contento. D’altronde l’aiuto cinese – ancora una volta gli economicisti sono all’opera e vedono solo i Buoni del Tesoro americani in mano alla Cina, più il possesso di azioni in alcuni istituti finanziari americani, ecc. – è utile per tentare di stabilizzare la situazione in Pakistan (tradizionalmente amichevole verso Pechino), eventualità che si spera sarebbe vantaggiosa anche per la situazione afgana, ma ancora una volta meno felice in direzione indiana. Vi è poi tutta la complessa rete di influenze nelle Repubbliche centroasiatiche; ad esempio, gli Usa hanno perso posizioni nel Kazakistan, mentre la Cina vi tenta una sua penetrazione che si urta con l’attuale decisa prevalenza dell’influenza russa. Ecc. ecc. Tutta una problematica intricata da seguire e valutare di periodo in periodo.
Non sarà per nulla facile agli Usa perseguire certi obiettivi come tanto tempo fa nel mondo bipolare. Molte sciocchezze strategiche sono state dette in questi ultimi anni. Dopo la guerra alla Jugoslavia per il Kosovo, si sostenne che ormai la guerra era cambiata: si poteva vincere con il semplice uso dell’aviazione (vi ricordate di questa stupidaggine, propagandata da militari statunitensi con in testa il gen. Wesley Clark, a meno che non ricordi male?). Due anni dopo è venuto l’Afghanistan e nel 2003 la seconda guerra contro l’Irak, che hanno dimostrato la futilità della tesi. Si è poi pomposamente sostenuto che l’esercito Usa poteva sostenere perfino tre guerre contemporaneamente in “teatri” d’operazioni anche lontani fra loro. Adesso si constata quali difficoltà ci siano pur soltanto in terra afgana. Gli Usa stanno subendo una grossa crisi, ma non si cada di nuovo, per favore, nel solito superficiale economicismo. Il fatto vero è che il multipolarismo mette “sotto frusta” le varie mosse geostrategiche; ed ogni mossa provoca tali multilaterali effetti (a ramificazione) che nessuna valutazione – nemmeno quella delle necessarie forze da mettere in campo – è mai completamente esatta (è anzi decisamente aleatoria).
La crisi ha semmai un altro significato, proprio per la geopolitica. Pian piano, mi sembra si stia verificando quanto da due anni vado supponendo (non esprimo in proposito una certezza di un qualsiasi genere, solo ipotesi da verificare strada facendo). Non c’è un drastico sprofondamento dell’economia mondiale, ma nemmeno la ripresa e il futuro “rischiarato” che ci vogliono far vedere. Per il momento, vi sono sintomi debolmente positivi (a parte l’occupazione, su cui si è pessimisti), ma dopo aver iniettato massicce dosi di “droga” – sul piano bancario come su quello automobilistico, ecc. – e i pericoli di “rinculi” sono quindi notevoli. Tuttavia, ciò che appare sempre più evidente è la difficoltà di uscire dalla crisi con una nuova rigogliosa crescita. Credo ci si dovrà rassegnare ad un periodo di sostanziale stagnazione. Qualche mese fa, in una riunione trevigiana della Confindustria (con intervento dei vertici), sentii ventilare da qualcuno l’ipotesi di una situazione simile alla giapponese tra i primi anni novanta e il 2003-4 (ma mi sembra che ancor oggi quel paese non sia definitivamente uscito dalla fase di difficoltà).
Più propriamente, ricorderei il passaggio dal monocentrismo (inglese), durante la prima metà dell’800, al multipolarismo antecedente lo scoppio aperto del conflitto policentrico nel corso della prima metà del XX secolo. Quel passaggio si ebbe dopo la guerra franco-prussiana (1870-71), quando si entrò in un presunto “lungo periodo di pace” (salvo alcuni “allegri” massacri come nelle imprese coloniali, nelle guerre anglo-boere, nella guerra russo-giapponese, ecc.), che vide in campo, per la successione all’Inghilterra, Usa, Germania e Giappone. Si trattò di circa un quarto di secolo (1873-96), che non ignorò periodi, brevi e deboli, di crescita, ma con sostanziale stagnazione; si verificarono tuttavia trasformazioni notevolissime dei rapporti sociali, la seconda (e più rilevante) rivoluzione industriale e, soprattutto, la prima fase di una drastica riclassificazione dei rapporti di forza a livello mondiale tra le diverse potenze.
Nulla si ripete esattamente con le stesse forme fenomeniche; tuttavia, vedrei pure le somiglianze legate appunto alla nuova configurazione mondiale – quella esaltata fino ad ieri quale virtuosa
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globalizzazione con crescente “libertà” dei mercati e cooperazione fra i vari paesi – avviata verso la competizione multipolare. Si faranno tante chiacchiere, ma si accentuerà il conflitto tra i vari paesi, in particolare tra le potenze (quella che vinse sul “campo socialista” e le altre in rafforzamento, in specie “a est”). Gli economisti, smarriti (in specie coloro che “scoprono” la necessità di una nuova ondata “etica”, il che fa solo sorridere), alzeranno alti lai avvertendo che la crisi si risolve solo cooperando e non chiudendosi in sé. Non hanno mai capito nulla dello sviluppo ineguale, che non discende dal semplice protezionismo – al massimo una manifestazione fenomenica particolare – bensì da un ben più acuto contrasto per le sfere di influenza, indispensabile proprio alla trasformazione profonda degli assetti mondiali, senza la quale si resta nel bagnasciuga di una tormentosa stagnazione. Conflitto e trasformazione vi furono appunto a fine ottocento; e da lì se ne uscì senz’altro nel modo drammatico che sappiamo.
Non è detto che si debba ripetere tutto come allora; anzi, a naso, non credo alle guerre mondiali che sono caratteristiche del secolo scorso (prima parte). Difficilmente però – comunque non ci credo – se ne uscirà senza una nuova trasformazione degli assetti (geo)politici, e anche sociali, comportanti dure lotte tra Stati e tra varie “partizioni” della società.
7. Questo il quadro generale. Nella fase attuale, gli Usa dovranno rassegnarsi, dopo l’ubriacatura “imperiale” (di, al massimo, una dozzina d’anni), a giostrare con le potenze in ascesa “a est”; tenteranno, come già fanno, di metterle le une contro le altre, ma avranno molti grattacapi. Questi ultimi si sono presentati pure nel cosiddetto “giardino di casa” (Centro e soprattutto Sud America), dove mi aspetterei sorprese non troppo lontane. L’area che è sempre stata molto ligia all’ordine imposto dagli Usa (salvo la parentesi gollista, ormai chiusa, che del resto non era di grave impiccio nel mondo diviso in “due campi”) è stata quella europea. Dopo il collo del “socialismo” e dell’Urss, tale area si è notevolmente ampliata, comprendendo paesi particolarmente sensibili all’influenza statunitense in funzione antirussa.
Mi sbaglierò, ma proprio la Russia, se si mette in secondo piano la semplice economia (in specie la finanza) e si va al sodo della politica di potenza, sarà la vera antagonista degli Usa; pur sempre, lo ribadisco, in un mondo avviato al multipolarismo, del tutto diverso da quello conosciuto per poco meno di mezzo secolo dopo la seconda guerra mondiale. Continuare a mantenere un deciso controllo di un’area come quella europea (per di più allargata dopo il 1989) – che comprende paesi ad alto sviluppo, e con economie rese “complementari”, e dunque subordinate, a quella Usa – è di notevole rilevanza nel mondo conflittuale sempre più prossimo. Il vantaggio acquisito tramite la Nato – oggi ulteriormente estesa, non a caso, mentre una superficiale logica ha fatto pensare al suo scioglimento in assenza di conflitto con l’Urss – è stato duplicato dalla UE, i cui organismi sono ancor più piattamente allineati agli interessi statunitensi degli stessi Stati nazionali europei.
Si pensava all’ulteriore rafforzamento di questa UE con l’entrata di un paese di potenza da non sottovalutare come la Turchia; questa però sta, almeno al momento, “tralignando”. Si può sopportare che un altro paese, come l’Italia, si comporti internazionalmente in modo poco fidato? Domanda retorica. Non sono assolutamente in grado di decifrare il perché proprio B. abbia dato il via ad una politica estera con qualche “sfizio d’autonomia” di troppo (troppo per gli Usa). In questo momento lo considero un “mistero”; però la politica di un certo tipo è sotto i nostri occhi da ormai qualche anno. Parti della destra non l’hanno sopportata e se ne sono andati o stanno adesso tramacciando per rovesciarla. Secondo il mio punto di vista, strutturalmente, una destra come quella di B. dovrebbe essere filoamericana senza troppi tentennamenti. Del resto, se guardiamo all’atteggiamento sempre favorevole ad Israele, ai settori arabi “moderati” – cioè conniventi di fatto con tale paese, più o meno, diciamo scherzosamente, come Fini lo è con il centrosinistra – e al contrasto netto con l’Iran, con il Venezuela di Chavez (e paesi similari), non se ne può dedurre nessun distacco dagli Usa e dalla sua area di predominio.
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Dobbiamo al momento accettare il “mistero”; non abbiamo tutte le informazioni che ci occorrerebbero; anzi siamo proprio all’oscuro di quasi tutto. La difesa che B. fa della sua posizione – lasciando perdere la scemenza circa l’amicizia con Putin – è però assai debole. Continua ad accusare i “comunisti” (e le toghe “rosse”, quale loro strumento) di volerlo perdere perché sarebbe il difensore degli “ideali” liberali e delle “convenienze” liberiste. C’è da restare di stucco. L’ho già detto e lo ripeto brevemente. I “comunisti” sono i rinnegati del piciismo e i più ferventi sostenitori della subordinazione agli Usa. Le toghe non hanno nulla di “rosso”; appartengono allo stesso armamentario che fin da “mani pulite” servì – non mi interessa appurare se in buona o mala fede; forse alcuni magistrati erano in buona, altri in mala fede – sia per la distruzione del regime non del tutto “fedele” agli Usa sia per il tentativo di mettere dei sicuri lacchè al suo posto. Il tutto, però, favorito dai sedicenti “poteri forti” italiani (il capitalismo privato parassitario e succhiatore di quanto i ceti produttivi creano), quelli del panfilo “Britannia”, ecc. ecc.
E’ contraddittorio che proprio gli ambienti della “destra” di B. appoggino D’Alema come Ministro degli Esteri nella UE in quanto rappresentante d’Italia, sostenendo nel contempo che si deve comunque tenere conto che è stato “comunista”. Certa gente “c’è o ci fa”? Malgrado quel po’ di autonomia che detti ambienti sembrano voler perseguire in politica estera (soprattutto verso la Russia), si decide di favorire la nomina negli organismi europei, già pregni di filo-americanismo, di un tizio che – ripeto, lo ha detto Cossiga, mai smentito nemmeno da questo personaggio – fu Presidente del Consiglio anche al fine di servirsi meglio del nostro paese nell’attacco statunitense alla Jugoslavia, con la successiva creazione di basi militari della superpotenza in Kosovo e in altre parti dell’Europa orientale. La sinistra, accusata ancora di comunismo, è la più servile verso gli Stati Uniti; non per conto suo, bensì di una classe dirigente (anche economica) subordinata a tale paese per suoi interessi precipui.
Se mi si consente un fugace paragone storico, è quanto fecero per buona parte dell’‘ 800, mutatis mutandis, gli Junker prussiani e i proprietari di piantagioni di cotone nel sud degli Stati Uniti nei confronti dell’Inghilterra, cui si voleva continuare a vendere materie prime e prodotti agricoli, consentendole di restare il predominante centrale dell’epoca grazie alla sua forza industriale. Gli Usa divennero quello che poi diventarono perché il nord schiacciò sanguinosamente il sud, protesse la propria industria, continuò di fatto il conflitto contro l’Inghilterra fino a ridurla, dopo la seconda guerra mondiale, quasi uno Stato dell’Unione.
Non dico che in Italia si possa oggi schiacciare l’industria e la finanza servizievoli nei confronti degli Stati Uniti; oltre a tutto non diventeremmo mai una vera potenza. Cercare però, com’è giusto, un minimo di autonomia nazionale – rafforzando i settori di punta (Finmeccanica ad es.) o strategicamente rilevanti (come l’Eni, ad es.) – senza raccontare la panzana che si è attaccati da “comunisti” e toghe “rosse”, forse si potrebbe; comunque sarebbe più razionale e spiegherebbe alla “gente” l’arcano di questo B. accerchiato, sputtanato, perseguito da 16 anni dalla Magistratura (non rossa, ma solo al servizio altrui), mentre lo si accusa di tentare un “colpo di Stato fascista”.
Siamo poi all’assurdo quando lo si protegge da possibili attentati di Al Qaeda. Anche il rigurgito ricorrente di anti-islamismo è puramente dannoso. Lasciamo stare che cos’è Al Qaeda; il problema cruciale è che essa serve solo a coprire i più nefandi misfatti degli “occidentali”. Quando Mattei fu soppresso (vogliamo ancora credere all’incidente aereo?), lo fu forse dagli arabi, con cui aveva ottimi rapporti? O fu la mafia per lesi interessi siciliani? Sarebbe possibile dire, pur senza avere prove sicure, che fu fatto fuori da precisi altri interessi, e non soltanto economici (sempre in mezzo le multinazionali, le “sette sorelle”)? Fu eliminato per precisi interessi geostrategici, di carattere mondiale. B. è più o meno (molto meno io credo) nelle stesse condizioni. Ciò significa accusare di progettato omicidio un Capo di Stato, e che Stato? Nemmeno per sogno. Se si dispone di seri, molto seri ed efficienti, Servizi Segreti, questi sanno da soli qual è l’interesse del loro paese. Non c’è alcun bisogno, non deve esserci bisogno, che il Capo di uno Stato, e che Stato, sappia qualcosa. Non deve saper niente, deve avere le
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mani pulite e la coscienza tranquilla, perché così funziona meglio. Quando Nixon fu scoperto a “rubare la marmellata”, fece una pessima figura oltre al danno che gliene derivò.
E’ del tutto evidente che è la sinistra ad essere la migliore fucina di sicari dei “poteri forti” italiani (industria e finanza sanguisughe) subordinati agli interessi geopolitici fondamentali degli Usa; e lo sono da quel momento cruciale di “mani pulite”. E’ questa sinistra che, attraverso una non troppo lunga né difficile opera di corruzione e inglobamento, rende sicari anche i sinistri detti “estremi”, perfino quelli della “falce e martello”, tutti tesi (ma via via con minor forza e convinzione) a mascherarsi con sempre più risibili dichiarazioni “antimperialiste”, dove la malafede si è sempre accompagnata alla totale mancanza di analisi e alla stanca ripetizione di slogan dell’epoca di “Marco Cacco”. Solo che in un primo momento – quella dozzina d’anni, o poco più, in cui la superpotenza, rimasta sola, accarezzò progetti “imperiali” (di nuovo monocentrismo mondiale) – ci si permise di tollerare la sedicente anomalia di B. Adesso siamo al momento cruciale, non si può aspettare molto oltre. Tutto – anche il cosiddetto centro e pezzi dell’altrettanto cosiddetta destra – vanno recuperati per tornare alla “normalità”, all’Unione Europea senza incrinature serva degli Stati Uniti nella complicata epoca multipolare che si annuncia. Mai più una politica italiana verso est, in specie verso la Russia (forse oggi si concederebbe qualche eccezione nei confronti della Cina; ma con cautela e assai provvisoriamente, in attesa di vedere se il grande paese asiatico risponde alle aspettative del “Serpente”, dando fastidio alla Russia su quel fianco!).
Si è creato uno schieramento politico sfrangiato per coprire tutte le eventualità. Al centro ci sta proprio il Pd di Bersani (cioè di D’Alema); apparentemente “a sinistra” i guastatori ed eversori dell’Idv, che tengono i contatti con la magistratura più accanita e con spezzoni dei “sinistri estremi”. In apparente libertà, e ufficialmente condannati, si vanno formando squadracce di violenti, cupi e torvi nella loro ottusità; ricordano certe squadre “nere” all’opera nei primi anni venti. Non si creda troppo alla loro condanna da parte dei “sinistri per bene”, che urlano sempre in favore della “legalità”, della “libertà di stampa”, ecc. Il gioco delle parti è ormai ben noto nella storia di tutte le eversioni. A “destra” del Pd si colloca il “centro dei Casini”. Ancora un po’ più in là Rutelli che stava entrando nell’Udc, ma è meglio lo faccia dopo, poiché al momento è utile intrallazzi con chi non può spingersi troppo oltre. Poi viene l’An finiana e, infine, Alemanno, che gioca la parte di chi resta ancora fedele, ma con “distinguo”, al Pdl; e si tratta di distinguo pronti per la prossima infornata di dissidenti verso il partito del Dittatore.
Una tela del ragno, dalla quale mi sembra – mi si corregga se sbaglio – il nuovo “italo Amleto” non sa districarsi; un po’ minaccia nuove elezioni (magari per interposta persona), poi le smentisce e si dimena abbastanza inutilmente. Inoltre, come già detto, lancia accuse del tutto fuori bersaglio che non aiutano a capire chi gli sta facendo le scarpe e perché. Chiama “comunista” D’Alema, poi lo appoggia per la UE; dice di farlo per senso di responsabilità nazionale, per distinguersi da quei comunistacci che ci dileggiano all’estero, però intanto porta il bombardatore della Jugoslavia, in servizio permanente attivo per gli Usa (non lui come persona, spero lo si sia capito; ed è proprio questo il grave della faccenda), in una posizione in cui potrà rafforzare i danni che la UE filo-americana ci sta già procurando in tanti sensi, primo fra tutti l’appoggio al Nabucco e il tentativo di azzoppare l’Eni con la separazione di distribuzione e produzione. Anche B.,allora, “c’è o ci fa?”.
E’ comunque necessario dire che se, come può ben essere, si arrivasse ad una sorta di ripetizione della pantomima del 1995, quando venne promosso – sul palcoscenico politico, ma con i soliti mandanti spero ormai noti – il governo Dini per buttare fuori dai piedi B., si svolgerebbe una recitazione tipica della prima Repubblica. Però, con attori pessimi; nulla a che vedere con Andreotti, Craxi, Berlinguer e altri. Perfino un Flaminio Piccoli farebbe la figura del “prim’attore amoroso” rispetto a questi saltimbanchi da caravanserraglio. Per di più l’epoca è ben cambiata; e in peggio se non si sa recitare. B., certo, se ne andrebbe, anche perché non è eterno nemmeno dal punto di vista strettamente biologico. Tuttavia, guidare il paese attualmente – perfino se venisse recuperato un
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Tremonti o qualche altro, magari anche della Lega, perché nessuno di questi “mal recitanti” ha a mio avviso una qualche coerenza – sarebbe complicato. Un po’ per la crisi che non è affatto superata, ma in via di divenire “male cronico”; molto invece per il solito fatto del multipolarismo. Nemmeno i “vecchi” personaggi di un’altra epoca – tipo Andreotti – sarebbero in grado di navigare in un mare così ondoso e con correnti che mutano direzione in continuazione. Lo sfascio, in un “pauvre pays” come il nostro, è pressoché assicurato; forse non immediato, ma vicino. Bene, allora adesso traiamone qualche indicazione di massima e, per il resto, affidiamoci alla “roulette”.
8. Le questioni fondamentali mi sembrano già delineate. Quelle politiche più specifiche vanno affrontate in altra sede e, in un certo senso, caso per caso. E’ nella mia piena consapevolezza che non si osserva mai la “realtà” con l’ingenua convinzione di saperla leggere così com’essa è veramente. Occorre munirsi di lenti adatte, che solo lo sviluppo della teoria – e c’è bisogno di una radicale svolta in questo campo – consente di apprestare (formulando però solo ipotesi, sempre rivedibili, sulla “realtà”), senza la solita mania secondo cui teoria e prassi fanno tutt’uno, atteggiamento che comporta sempre uno “spontaneismo” disastroso e per l’una e per l’altra. D’altra parte, è anche certo che per molare nuove lenti (teoriche) è indispensabile una presa di posizione. Basta che non si tratti di semplice fissazione, di ferrea volontà di vedere il mondo con quelle lenti per sempre; se le diottrie aumentano o se da miope uno diventa pure presbite, è bene mutare presa di posizione e lenti teoriche.
In questa sede vanno accennate soltanto alcune questioni molto generali, tali tuttavia da chiudere ogni inutile discussione con chi è sordo perché non vuole o non può sentire. La prospettiva comunista – non parlo nemmeno della comunitarista che è come il caffè d’orzo rispetto a quello normale – va definitivamente accantonata. Però, se serve a qualcuno per poter vivere, non ho obiezioni da fare. Quando una persona a me molto cara, ufficialmente credente e praticante, fu vicina al “dunque”, mi chiese spesso se pensavo ci fosse veramente qualcosa nell’al di là. Non sapendo fingere di avere un’idea che non ho, rispondevo un po’ banalmente che l’importante è ciò che si sente dentro se stessi; risposta insoddisfacente, e di cui non andavo fiero, poiché se qualcuno ti rivolge una simile domanda è proprio perché dentro di sé non avverte gran che e vorrebbe essere rassicurato. Ai residui comunisti rispondo sinceramente che, a mio avviso, sono ancora degli illusi; tuttavia, che almeno non si servano di quella menzogna per ingannare e assumere posizioni soltanto reazionarie come quelle sostenute dai “falce e martello” in Italia, ma non solo (che fine hanno fatto ad esempio quelli irakeni e altri dei paesi arabi?).
Va detto senza tante esitazioni che oggi non si può più rilanciare l’“internazionalismo proletario”; del resto sempre assai carente, fin dall’inizio dell’ideologicamente rappresentato “movimento operaio”, salvo che in rare occasioni con carattere del tutto diverso (ad es. nella guerra civile spagnola). Meno che meno, in specie nei paesi a capitalismo avanzato e in quelli oggi in forte sviluppo quali nuove potenze, si deve parlare di “lotta di classe”, che presuppone una visione semplicistica e manichea della strutturazione sociale. Si può parlare di “blocchi sociali”, ma sapendo che, in questo momento, nemmeno questi sussistono effettivamente; soprattutto in Italia, dove il tessuto sociale appare sfibrato, lacerato, sbrindellato. In questo momento la lotta è tra lobbies, gruppi di interesse, autentiche bande o cosche devastanti, che si servono di “guitti” nel palcoscenico politico; e fra questi ultimi c’è di tutto, anche quelli che recitano da “comunisti” o da “solidaristi”, da finti cultori della cooperazione e degli interessi comuni.
Secondo la mia opinione, esiste solo la possibilità di unirsi e di stabilire alleanze, talvolta anche amicizie reali, per finalità convergenti di conflitto e di lotta (non di classe, rigorosamente non di classe, basta con le bugie dei ciarlatani che predicano simile inganno). Bisogna intanto afferrare i punti salienti della fase attuale, quella che si suppone non duri l’espace d’un matin. Già questo compito è di estrema difficoltà; è necessario essere pronti a nuove prospettive quando si comincia a capire che la situazione è
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mutata o che si è preso un granchio nell’interpretarla, proposito facile da formulare ma non certo da mettere in pratica (ognuno di noi ha le sue rigidità).
Sarebbe bello poter avere idee un po’ più chiare per quanto riguarda la politica interna, pur nelle sue linee generali. Ancora una volta, la strada da battere sembra abbastanza facile da indicare, terribilmente difficile da imboccare; e con quali misure effettive? Dato quanto ho appena affermato in merito allo sbriciolamento del tessuto sociale italiano e alla necessità di ripensare ad un blocco di alleanze che costituisca la base più sicura per una politica efficace, sono convinto che la soluzione del problema consista nel trovare solide convergenze tra strati maggioritari del lavoro dipendente (salariato) e di quello detto “autonomo”. La prima condizione sarebbe, però, lo sgretolamento dell’assetto sindacale odierno poiché, se esso dura ancora a lungo, tutto continuerà a marcire. Il cosiddetto sindacalismo di base mi sembra ormai largamente fallito, anche perché portatore di un vecchiume ideologico che ormai gioca in favore della sinistra reazionaria, malgrado le intenzioni (espresse, ma sono sincere?).
Difficile anche agire sul lavoro “autonomo” – evidentemente nei suoi strati medio-bassi, non certo presso i cosiddetti professionisti di livello – perché l’individualismo è forte, altrettanto la sostanziale spoliticizzazione. Se ci si deve basare sul carisma di una persona per convogliarlo, è evidente che non ci siamo proprio. Occorre allora trovare una solida base di interessi, ma al momento non vedo alcuna indicazione sufficientemente forte. Il vero fatto è che, senza esistenza di blocchi sociali, la cosiddetta “democrazia” è quella delle lobbies, gruppi di interessi dominanti ristretti, bande in lotta che, se non vogliamo fare i moralisti (i peggiori opportunisti e maneggioni che ci siano, perché di bassa lega), hanno, oserei direi, quasi necessità di collegarsi a reti che non sono in odore di legalità pura e semplice. Se non c’è la politica in senso alto – tale da coinvolgere più vasti raggruppamenti sociali in qualche modo strutturati, ma non alla guisa del gregge che segue i “burocrati sindacali”, professionisti della pura manipolazione per propri interessi particolari e per quelli del gruppo di guitti che si muovono nell’avanspettacolo della politica, loro sodali nell’imbroglio – si scade per forza di cosa al complotto, alle meschine manovre “di corridoio”, al raggiro e inganno da “magliari”, in cui il personale politico della prima Repubblica si teneva almeno ad un più alto (o meno basso) livello.
Una via più breve per sopperire alla mancanza di raggruppamenti strutturati sarebbe la sospensione di questo tipo di “democrazia”. Non spetta però a me (né ai miei amici) pensare e risolvere simili problemi, che richiedono ben altri rapporti, introduzione ad “ambienti speciali”, organizzazione ferrea, capacità comunque di forte mobilitazione di gruppi sociali motivati e determinati, e quant’altro. Lo dico solo per sottolineare l’estrema debolezza dell’Italia e dei paesi europei in genere. Mi giunge adesso la notizia della nomina (o quasi sicura nomina) dell’inglese Ashton, invece che di D’Alema, a Mr. Pesc. Intendiamoci bene: già la candidatura dell’italiano (di “sinistra”) era un chiaro segno di piena disponibilità alla servitù verso gli Stati Uniti. La Ue sceglie però addirittura il rappresentante di un paese supinamente coricato sugli interessi degli Stati Uniti. Tanto valeva nominare direttamente uno dei Governatori federali; “Terminator” sarebbe andato ad esempio benissimo, oppure una governatrice se c’è.
Assolutamente comica (proprio demenziale alla Marx brothers) la dichiarazione del rappresentante del Pse Martin Schultz, secondo cui c’è da rammaricarsi della non nomina di D’Alema, ma era il candidato di un governo “non socialista”. In ogni caso, a parte l’involontario umorismo di questi nefandi e perversi organismi europei, prego tutti di comprendere, anche da questa vicenda, come l’intera sinistra europea sia la più supina serva degli Usa. Essa va quindi considerata, in senso assoluto, il nemico principale di chiunque si batta per un minimo di nostra autonomia. Con chi ancora non lo capisce, arrivati ad una simile evidenza solare, è da sospendere immediatamente ogni rapporto, ogni minima interazione. Sono appestati, teniamoci a debita distanza, anche perché disgraziatamente non ci sono, in questa sfatta società, i monatti che si incarichino della faccenda (ci sono invece squadracce di violenti e dissennati, formate dagli stessi diffusori della malattia).
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9. Procediamo e concludiamo. Dubito che si possa trovare nella selva dei piccoli partitini, movimenti, gruppuscoli, di che iniziare a costruire alternative. Siamo obbligati a ragionare sul “come dovrebbe essere”, ma senza garanzie di tempi per l’inizio di un processo che conduca nella direzione utile. Proprio per tale motivo, penso che si debba, in questa fase, battere principalmente sul tasto della politica internazionale (o della geopolitica). Inutile, ad esempio, pensare alla possibilità di costituzione di un certo blocco sociale, costruito mediante una politica in grado di perseguire la sintesi (certo non scevra di crepe interne) tra interessi degli strati medio-bassi del lavoro dipendente e autonomo, se prima non si riesce a definire e stabilizzare una posizione del nostro paese nell’ambito della società mondiale, di cui prevedere almeno a grandi linee la configurazione nei prossimi dieci-venti anni.
La “scommessa” – che sono convinto si vincerà – è quella, già affermata, dell’avvio del multipolarismo. Vi sarà un “mondo” in tumulto e con crescita di nuove potenze (sicuramente non globali) che si muoveranno in aree diverse, dividendo il mondo in partizioni interconnesse, ma anche dotate di relativa autonomia. In un mondo “sconosciuto”, nel senso soprattutto di mutevole e tumultuoso, i dominanti continueranno a lungo nella loro pantomima circa la comune cooperazione; i loro ideologi, di livello intellettuale sempre più scadente, ci riempiranno la testa con la loro chiacchiera sul fatto che ci si salverà tutti assieme o si affonderà tutti insieme. Le solite bugie colossali; proprio abbracciandosi, si sprofonda nell’acqua e ci si affoga in “allegra compagnia”. La salvezza è nello studiare e poi praticare politiche di riconfigurazione – che possono modificarsi in fasi diverse – delle alleanze, ma non per semplicemente sorreggersi vicendevolmente, bensì per dare attuazione alle strategie di competizione, e se necessario di conflitto aperto, contro altre alleanze che hanno lo stesso scopo. Contrariamente al cosiddetto “buon senso” – che è quello dell’“uomo medio”, quello descritto da Pasolini ne La ricotta (lasciando la definizione in bocca ad Orson Welles) – perfino la possibilità di salvezza comune (o quasi comune) risiede nel conflitto; giacché non ci si salva se non introducendo la novità (cioè la riconfigurazione sopra rilevata), e non esiste quest’ultima se la si affida all’opera di “tutti”; ogni lavoro di équipe ha valore e manifesta la sua efficacia solo se si scontra con quelli di altre équipes, basati su obiettivi e ipotesi concorrenti.
Nella lotta multipolare che si preannuncia vigorosa, gli Usa – abbandonata solo furbescamente e momentaneamente la volontà imperiale (ripeto che si è passati dalla politica della “tigre” a quella del “serpente”) – puntano a mantenere unita sotto il loro dominio l’intera area europea (compresa quella conquistata dopo il crollo del “campo socialista”), avendo precisa coscienza che il nemico principale della prossima fase sarà la Russia; un po’ meno la Cina e ancor meno l’India (e quasi niente il Brasile). L’ultimo viaggio di Obama a Pechino può essere considerato un effettivo fallimento, coperto da tante parole pressoché inutili su tutti i temi decisivi del confronto. La Cina non sarà uno stabile alleato degli Usa, anzi molto infido; tuttavia non lo sarà nemmeno, in modo saldo e fidato, della Russia, che mi sembra comunque molto meno diffidente verso est che verso ovest; e ha pienamente ragione, a mio avviso.
Se ci si limitasse a ragionamenti puramente economicistici, in voga presso i nostri ideologi che si fingono scienziati (nel migliore dei casi sono tecnici capaci al servizio di politici scadenti), la Russia dovrebbe stancarsi dei continui ostacoli frapposti ai suoi progetti energetici in direzione europea (i gasdotti ben noti come South e North Stream, ecc.) e sfruttare solo l’enorme domanda di tali risorse da parte di Cina e India. Invece insiste proprio perché, con atteggiamento speculare rispetto agli Usa, avverte l’importanza del suo fronte “a ovest”, dove appunto sta la UE. Se si guarda, grosso modo, alla linea del Southstream, che dovrebbe poi utilizzare gli accordi con l’algerina Sonatrach e la libica Noc, ci si accorge che si va dalle zone caucasiche fino, appunto, al Nord Africa; in mezzo c’è la Turchia, ma anche l’Iran, area molto fastidiosa per gli Usa e il suo “fido” Israele, ecc. Non si pensi, con la solita mentalità, che sono gli interessi economici (petrolio e gas) a guidare certe scelte politiche; è assai più esatto attenersi al contrario. Certamente, singoli personaggi possono muoversi per vantaggi
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fondamentalmente economici; nell’insieme sono però motivazioni strategiche a comportare l’uso di tali vantaggi al fine di modificare le relazioni (i rapporti di forza) tra paesi e tra aree geopolitiche.
Francamente, credo meno a motivazioni sostanzialmente culturali; non sono molto convinto della possibilità di saldare per tale via un’area che va dall’Europa verso l’Asia (in particolare verso la Russia) grazie ad una loro supposta maggiore omogeneità socio-culturale rispetto all’area (nord)americana. Sarà una sensazione molto personale, ma non mi sento culturalmente antagonista degli Usa; credo però che siano molti gli italiani e gli europei ad avere la stessa sensazione, e questa non muterà tanto rapidamente. Anche ammesso che in molti sbagliamo, dubito che si possano attendere i tanti decenni (o anche di più?) necessari al verificarsi, solo eventuale, di simili spostamenti. L’Europa, nel suo complesso, non sarà “trascinata” verso est. Bisogna partire dalla “scommessa” del multipolarismo, della fase di probabile stagnazione (aspetto secondario), con la profonda trasformazione dei rapporti tra diversi paesi e aree a causa dello sviluppo ineguale (aspetto principale), per proporre un certo avvicinamento ad est di una parte dell’area europea “occidentale”, per proprio interesse e volontà di non decadere rapidamente (cioè nei prossimi due decenni). Non quindi tanto per motivi culturali ma politici (ed economici), che poi comportano le possibilità di non regredire quanto a stile e tenore di vita (altro che farsi fautori della decrescita!); del resto, lo spostamento ad est – in tempi non brevi, ammesso che si possa attuare – comporterebbe, alla fine del periodo, buoni rapporti con Turchia, Iran, parte del mondo arabo, ecc.; e qui supporre vicinanze culturali mi sembra proprio problematico.
Ovviamente, per la fase storica necessaria a lavorare nella direzione considerata, possono – anzi debbono – essere praticate collaborazioni con tutti coloro che comunque siano interessati allo spostamento in questione; perfino per questioni religiose – a mo’ di semplice esempio, per la convinzione di una maggiore vicinanza tra cattolici e greco-ortodossi – che, personalmente, non mi appartengono. Mentre è del tutto ovvio che gli ottusi solo (non anche) bisognosi di “laicismo” – o addirittura ateismo – o della lotta delle classi lavoratrici contro lo “sfruttamento” (estrazione di plusvalore) da parte del Capitale, saranno da considerare come la “peste bubbonica”. Sono coloro che nulla hanno capito della lezione del secolo scorso, oppure piccoli mascalzoni e farabutti che per tutta la vita hanno praticato la professione del politicante (e del sindacalista, che è ormai lo stesso) e non vogliono tornare a svolgere un qualche lavoro utile: tertium non datur. Con costoro, solo rottura netta; è spiacevole, per certi versi, ma non si può più perdere tempo a convincere questa feccia o questo piccolo insieme di rimbambiti. Si chiuda con loro ogni rapporto.
10. Quindi, prevalenza di fase della politica internazionale e della politica estera da preferire (e appoggiare) anche per quanto riguarda il nostro paese, che potrebbe svolgere una funzione importante nel senso già visto: spostare un’area europea verso est, contrastando le forze che vogliono rendere l’Europa del tutto omogenea quale campo di predominio assoluto degli Stati Uniti nella lotta multipolare che si apre. Lotta senza quartiere a coloro che sono, al di là delle chiacchiere e delle mere apparenze, i veri sostenitori della subordinazione agli Usa, mascherandosi perfino dietro la presunta lotta di classe o il “progresso” (solo lo stupido politically correct) o la morale, ecc. In questo senso, il nemico principale e più laido è la sedicente sinistra, oggi coadiuvata dai finti “laici” della destra. Però, nessuna concessione di fiducia a chi svia la lotta contro la sinistra, fingendo che sia ancora “comunista”, cercando quindi di tenere il piede in due staffe (anche quella americo-israeliana); con tutto ciò che ne consegue e cui ho già sopra accennato.
Per quanto mi riguarda, nessun antiamericanismo preconcetto (e culturale); solo contrapposizione politica per favorire il multipolarismo, situazione assai più favorevole ad un medio paese come il nostro nel contesto mondiale. Chi vede in tale posizione una sorta di nazionalismo – o addirittura di patriottismo – è dal mio punto di vista, come già detto, un deficiente o un cialtrone farabutto; non concedo più altra scelta. Se non ci si libera di simile zavorra, non credo si potrà mai risanare questa
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sfatta società italiana. Abbiamo a che fare con un cancro; lo si dovrebbe asportare chirurgicamente, con meticolosa pulizia di tutti i linfonodi ormai infetti. Al momento, non esiste in Italia nessuna forza politica capace di un’operazione certo invasiva, ma necessaria per la sicura salvezza dell’organismo.
Evidentemente, una politica internazionale come quella indicata ha ricadute su quella interna. Innanzitutto – e questa è stata la linea di analisi e di polemica del blog – attacco deciso e senza girarci intorno alla nostra finanza “weimariana” (e spero che il riferimento storico sia conosciuto) e alle grandi imprese delle passate stagioni dell’industrializzazione; anche qui, per chi sa (nemmeno poi a menadito) la storia, le paragono agli junker e ai proprietari di piantagioni di cotone nel sud degli Usa, ceti sociali che favorivano il predominio centrale inglese e che, per fortuna dei rispettivi paesi, furono strabattuti politicamente e socialmente. Oggi, in Italia, ciò significa appoggio alle industrie di punta (della più recente rivoluzione industriale) e strategiche. Pochi nomi a mo’ di esempio, ma anche perché non ve ne sono molti di più: Eni (in primis) e Finmeccanica. Dei cialtroni, che vedono solo il Capitale e non le contraddizioni interne tra diversi capitalismi (con i legami internazionali ben noti), ho già detto: fuori dai coglioni! Nessuna discussione con costoro, il tempo a disposizione è esaurito.
Bisogna brevemente chiarire che l’appoggio alle suddette grandi imprese strategiche non significa alcuna predilezione del “pubblico” contro il “privato”. Ci sono i “vecchi bisonti” che fanno finta di dimenticare il colossale fallimento del “pubblico” nel sedicente socialismo. Dall’altro lato, rispondono altri ottusi con la favoletta della massima efficienza qualora il mercato venga lasciato “libero” (mai lo è stato e mai lo sarà; è un luogo di conflitto tra strategie che sono politiche tout court). In Italia, il settore “pubblico” per eccellenza è l’amministrazione statale (e ramificazioni regionali e locali, ecc.). Sappiamo bene che è una palla di piombo al piede; e senza dubbio una recisa critica (e sfoltimento) dei ceti sociali che vi allignano (e che, non a caso, sono ormai la principale base elettorale della “sinistra” e di certa “destra”) è necessaria e improrogabile. Nessuna difesa preconcetta di simili settori e ceti, parte importante del cancro di cui sopra detto. Tuttavia, ricordiamo bene le privatizzazioni dell’industria “pubblica” (quelle decise, anche se non va sempre enfatizzato questo avvenimento, sul panfilo “Britannia”) a vantaggio dei parassiti di quella privata e della finanza asservita alla statunitense. Di conseguenza, non c’entra il regime proprietario; fondamentale è l’attuazione delle politiche di autonomia nel multipolarismo e perciò l’attacco ai parassiti e l’appoggio ai settori di punta e strategici a tal fine. E’ chiaro, pseudomarxisti, keynesiani, liberisti, ecc.?
Non può attuarsi però la strategia “autonomistica” di cui sopra se non si va verso la formazione di blocchi sociali con il coinvolgimento dei ceti sociali produttivi, sia della base lavoratrice salariata (compresa quella operaia) che di quella “autonoma”. Leggo oggi – e sul Giornale (la “reazione in agguato”) che, guarda un po’, li appoggia – della rivolta, non so ancora quanto incipiente o già in sviluppo, di settori della “piccola” imprenditoria (guidati da certo Belloli). E’ troppo presto per emettere un giudizio ponderato ma, in linea di principio, si tratta di sintomo positivo, da augurarsi che si estenda rapidamente; se poi prendesse di punta quelli che hanno chiesto sempre aiuti statali fingendo di essere il pilastro d’Italia (leggi Fiat), sarebbe una pacchia.
Sarebbe però anche ora che alcuni lavoratori salariati e operai, lasciando perdere il cosiddetto “istinto di classe”, iniziassero una nuova stagione di lotte sensate (pensanti) per difendere e possibilmente innalzare senz’altro livelli di vita sempre più “spiacevoli” (e precari), ma con una nuova consapevolezza della fase attuale, del livello di schifo e di corruzione cui è giunta la sinistra politica e sindacale, della posta dello scontro anche a livello internazionale. La lotta non va fatta solo per difendere posizioni acquisite, ma che oggi rappresentano spesso solo la base (elettorale) per continuare a far “mangiare a sbafo” il marcio e fetente personale politico e sindacale della “sinistra”, favorendo nel contempo le cosche industrial-finanziarie che stanno divorando il paese a loro vantaggio e per gli interessi di una potenza straniera nel prossimo conflitto multipolare.
Se si cominciassero a muovere i ceti del lavoro autonomo, bisogna che molti lavoratori salariati sappiano cogliere la palla al balzo. Occorre però che essi si accingano intanto a spazzare via tutta la
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marmaglia che da oltre 30-40 anni continua a impestare i vertici dirigenti delle organizzazioni alle quali hanno fin qui aderito passivamente, seguendo a guisa di pecoroni dei maneggioni, poltroni, infingardi, venduti ad interessi che non sono più quelli dei lavoratori produttivi, bensì di saltimbanchi del palcoscenico politico, del mondo giornalistico e dello spettacolo, letterario e pseudoscientifico (magari “ambientalista”); il tutto rinforzato da un ceto (quello semicolto e invece ignorante e rincitrullito) che impesta i settori dell’amministrazione detta “pubblica”. Non li chiamo “fannulloni” perché non sono d’accordo con la campagna brunettiana (ma di ciò in altra occasione, non è oggi la questione più urgente); li indico tuttavia come la “bassa base” (in senso politico e sociale) del cancro che corrode la società italiana e su cui non occorre insistere.
E adesso, cari amici del blog ma soprattutto cari possibili alleati o simpatizzanti (o almeno non antipatizzanti), sarebbe bene mettersi al lavoro sul serio.
Finito il 21 novembre 09
PS Tengo a precisare che, quando parlo della sinistra, non intendo parlare di quei settori (pochi io credo) – per lo più della vecchia guardia, per di più quasi sempre di quella “migliorista”, verso la quale era recisa un tempo la mia critica – che mantengono dignità di pensiero e di coerenza. Malgrado sia poco d’accordo anche oggi con le tesi che sostengono, li rispetto e mantengo la massima stima nei loro confronti.
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