Primo dell’anno
Come primo dell’anno – e di un anno che si apre dopo la fine di uno assai “particolare” – mi sembra possa andare bene. Ma bisogna avere la pazienza di leggere anche il mio commento attuale che chiarisce il senso di questo “antico scritto”
NOSTALGIE DELLA PRIMA GIOVINEZZA (SCRITTO A CIRCA 20 ANNI)
Passano gli anni, struggenti di desiderio, della giovinezza. Sfumano i ricordi dai colori accesi in accenti di tenue e morbida tonalità. Le passioni dalla violenza esasperata e multiforme si trasformano in placida e monotona serenità; serenità non fatta di gioia e di gaia spensieratezza, ma di rassegnazione, di opaca amarezza. L’animo si piega, si corruga, si ritira in se stesso a difesa di quel poco che rimane dei sogni di tanto tempo addietro….di tanto, tanto tempo addietro.
E’ incredibile pensarci! Voltarsi e pensare a quelle sensazioni, a quei desideri, ai sogni di un tempo. Ma sono poi esistiti? Non ce li siamo inventati per non volere ammettere che la nostra vita è uno stagno, dove nulla accade, nulla si muove? E’ veramente esistito per noi l’azzurro del cielo, il verde fiorito dei prati, l’acqua chiara dei ruscelli, la veste bianca della purezza? Abbiamo veramente ammirato quei tramonti di fuoco che accendevano strani, occulti, desideri in noi, e poi degradavano in quel rosa sempre più tenue e sfumato di malinconia, e poi ancora in quell’azzurro-viola che empiva di tenerezza il nostro animo? Erano reali quelle stelle sopra di noi, stelle lucide, splendenti, ma non gelide come si dice; calde invece di forza gioiosa, di speranza e promessa di grandi destini, di eventi magicamente disegnati e prefigurati da una sensibile, tenera, mente infantile? E i fuochi della notte dell’Epifania, ammirati avidamente nel gelo pungente della sera, con quei veloci brividi di freddo e d’emozione che accarezzavano il nostro corpo; nel mentre densi fasci di faville venivano scagliati vorticosamente in alto, volteggiando poi lievemente e spegnendosi cadendo, simili ai desideri dei fanciulli così intensi, mutevoli e fugaci? E le luci, di cui si ornava la collina e il piano all’imbrunire; luci che significavano casa, focolare, famiglia riunita nella stessa stanza, calore di parole e di comunione di spiriti, sapore dolcissimo di contatti umani?
Tutto questo non sarebbe esistito? Non è così! I fatti c’erano; le cose che i nostri occhi hanno visto erano realtà. Il significato era tutto diverso. Abbiamo dato la vita a cose, a fatti, li abbiamo caricati di significati simbolici; ed essi hanno vissuto in noi, infondendoci una gioia immensa con la loro solidità apparente. E la realtà si muta così in leggenda. E quando la leggenda muore, e prende vita la realtà, ci sembra allora di avere perso qualcosa…..anzi tutto. Ed invece non abbiamo perso nulla. E’ soltanto mutata la posizione dalla quale guardiamo alle cose; che differenza fa se il risultato è il medesimo! Il risultato è vuoto, è sensazione di essere stati defraudati di ciò che avevamo di più bello, è rimanere soli, spauriti, senza più capacità di comunicare con gli altri. Il nostro mondo, così faticosamente costruito e conquistato, crolla e non ce n’è un altro di egualmente poetico, di egualmente armonioso, che possa sostituirlo.
Potessero almeno rimanere inalterate la nostre più intime profondità, con tutte le sensazioni belle che si erano sedimentate in noi in tanti anni di felici e dolci visioni! Cessate le visioni, anche il nostro mondo interiore viene scosso dalla tormenta che infuria. Qualcosa rimane, però, non tutto è spazzato via. Qualcosa rimane che contraddistingue il sognatore dagli altri. E’ migliore il sognatore degli altri? O è peggiore? Diciamo soltanto che è più sfortunato. La vita, la capirà sempre parzialmente.
Gli anni passano inesorabili. Trascorrono sempre più velocemente, ed invecchia anche chi ha paura dell’età matura e vorrebbe aggrapparsi alla sua felice e magica prima giovinezza, vorrebbe tenerla vicina a sé per sempre, con la sua irresponsabilità, con le sue scoperte che creano ogni giorno stati d’animo estatici, con i suoi sogni sempre intatti, con la sua divina capacità di annullare ogni particolarismo individuale in una sfera di interessi che abbraccia tutto il mondo, che sconfina oltre i limiti del mondo. E’ impossibile! L’età viene che richiede responsabilità, lotta, cattiveria, presa di coscienza (almeno parziale) della realtà. E ogni cosa perde il suo candore, ogni persona mostra il suo lato iniquo, e l’amore…..l’amore potrebbe riscattare tutti i sogni distrutti, ma è un sogno anch’esso. E’ il nuovo sogno dell’adolescenza e della prima gioventù, ed è tanto ingannevole e labile quanto lo sono i sogni dei bambini! E’ necessario farsi forza e vivere senza più l’aiuto di tutto ciò che era nostro, profondamente nostro e che ci è stato sradicato così brutalmente.
E dobbiamo trovare un po’ di serenità e di pace nella rassegnazione, chinandoci ad adorare il nuovo Dio: la realtà, le cose e i fatti reali, cioè senza vita, senza significazioni particolari. Serenità amara dunque, serenità disperata, ma che forse permetterà di vivere……di vivere e basta! Non diamo qualificazioni a questo vivere, perché non potremo mai sapere cos’è questa vita sorta dalle rovine della nostra fede in qualcosa di pulito, di bello. Ci sta davanti, la vediamo, la tocchiamo, ci ritraiamo spesso inorriditi, ma noi – nati e cresciuti con questa sfrenata tensione all’assoluto – non sappiamo definirla, non possiamo farlo. Ci è sconosciuta; noi conoscevamo un’altra vita, la vita dei sogni e degli stati d’animo incantati, rapiti nell’estasi; la vita della magia!
Rassegniamoci dunque. Serenità nella rassegnazione: questa la nuova parola d’ordine. E coscienza che la nostra personalità sarà sempre mutilata e che, durante tutto l’arco di nostra vita, spesso l’animo nostro si rattrappirà in spasimi dolorosi al pensiero amarissimo di tutto ciò che credevamo possibile, e non fu mai.
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Questi pensieri li ho nutriti in effetti ancora sostanzialmente adolescente, in uno di quei momenti di trapasso, in cui non si riesce a capire chi veramente si sia, che cosa stia accadendo dentro di noi, dove tutto sembra in stato di fermentazione. Però lo scritto risale a 3-4 anni dopo aver attraversato lo stato d’animo che si cerca di esprimere nel ricordo. Quando l’ho vergato, pensavo già diversamente rispetto ai 15-16 anni, ma ho cercato di ben descrivere quel periodo di incertezza. In ogni caso, mi ero ormai abbastanza stabilizzato; avevo deciso di non chiedermi più chi ero, cosa avrei fatto. Insomma avevo scelto di vivere, punto e basta.
Oggi, facendo un bilancio, devo dire che la mia vita è stata buona, oserei dire bella in molti momenti; a parte i dolori della perdita di genitori, parenti, amici, persone care in generale. Una vita più che discreta, in definitiva, che purtroppo è ormai trascorsa. Mi piacerebbe ricominciare, non sono proprio stufo né stanco di vivere. Tuttavia, bisogna riconoscere che questo mondo è proprio assai “mal combinato”. Vorrei viverci comunque, anche per sempre, lo confesso. Però, mi preparerei a viverlo con affanni e tormenti che sempre si alternano con i godimenti. Comunque, continuerei imperterrito a non chiedermi come sono fatto (male, di sicuro, ma così sono). Insisterei nel non pormi il problema: da dove veniamo, dove andiamo, siamo sicuri di star facendo il bene e il giusto, evitando il male e l’ingiusto? Per me sono domande inutili, superflue e da veri egocentrici (altro che il sottoscritto). Sono domande sostanzialmente ipocrite (è un falsone anche chi non sa di esserlo); potete farvi domande del genere ogni minuto, ma quando arriverà il vostro turno di ri-compiere azioni non apprezzabili, le rifarete. Poi, vi pentirete, vi strazierete il cuore per averle fatte, urlerete vane promesse di non farle più…… fino alla prossima occasione in cui non potrete evitarle. Smettetela di rimuginarci sopra e accettate d’essere fatti in modo tale da adeguarvi a questo mondo che, lo ripeto, non è “ben costruito”. E’ così e non lo si cambierà; e noi siamo fatti in un certo modo, pur esso per null’affatto esaltante, ma è tempo perso stare ad auto-interrogarsi sempre su chi siamo e che cosa vogliamo dalla vita. Viviamo e basta, senza batterci il petto, senza i falsi e transitori “mea culpa”. Ci sono alcuni che ci rinfacciano quello che siamo? E loro come sono fatti? Se lo chiedono sempre, ma non si danno mai la risposta giusta: sono soltanto capaci di angustiare la vita agli altri, a chi vorrebbe godere di quel qualcosa che si può godere.
Io sono come Peter Pan. Sì, certo, lo so e lo sarò sempre fino alla fine. Cerco di tenere nel mio orizzonte l’<<Isola che non c’è>>; perché per me non è una semplice utopia, un’aspirazione ideale (come in genere quest’isola viene pensata). Esiste, invece, è sempre in vista laggiù. E con un potente cannocchiale se ne intravede anche la struttura e la vita (animale e vegetale) in svolgimento nella parte subito antistante quel mare che ci separa da essa. Solo che la barca su cui siamo non può giungervi perché il mare è in realtà una spessa massa di fanghiglia. E’ in questa che siamo costretti ad arrangiarci per vivere. L’isola si può soltanto guardare nella parte appena ricordata; ma è comunque una vista che solleva lo spirito ed è chiaro che laggiù esiste sul serio, non è un’illusione ottica. Proviamo letizia alla vista di quell’isola che è proprio lì davanti a noi pur se non vicina; e muoviamoci alla bell’e meglio in quel mare tutto fangoso che ci separa da quella meraviglia.