Pro)Fumo di Passera

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Mi riallaccerò al recente video di Gianfranco La Grassa (su Fb) in cui egli giustamente deride le idee buoniste di Corrado Passera sul Capitalismo del “bene comune” che il finanziere chiama Better Capitalism. Appena sento parlare di etica negli affari mi arriva al naso puzza di bruciato. Il capitalismo, o quello che oramai è, è un rapporto sociale. I valori di scambio delle merci non sono che funzioni sociali di queste. Parliamo di ”congegni” automatici effettivamente operanti, dai quali si desumono leggi intrinseche che non possono essere ignorate o minimamente “dirottate” dai sospiri di sognatori o sedicenti tali. Per intenderci, se cresce la domanda di un bene e l’offerta, per un certo periodo, non è in grado di adeguarsi alla prima, il prezzo di quel bene non può che aumentare. Il mondo delle merci, funziona con simili regole generali che devono sempre affermarsi sebbene, in alcuni frangenti, determinati effetti possano essere artificialmente “indotti” ma solo per un certo tempo. Prima o poi l’ “ordine” si ristabilisce da sé, almeno a livello generale. Per esempio, una impresa che domina il mercato perché detiene il monopolio di un prodotto può avere degli extra profitti, può decidere cioè autonomamente di imporre prezzi più elevati del normale approfittando della situazione, almeno fino a che la concorrenza non arriverà a erodere la sua posizione esclusiva, cosa che accade quasi sempre. Tuttavia, la legge dello scambio tra “equivalenti” in media resta in ogni caso la base oggettiva sulla quale opera il conflitto tra gli scambisti che altera temporaneamente quella base, e per lo più in particolari settori, ma nel complesso tutto finirà per “tornare”. Ora, le idee di Passera sulla “sostenibilità” imprenditoriale possono avere un valore soltanto se non sono sincere e diventano, a loro volta, un prodotto da vendere a consumatori pre-sensibilizzati su questioni (ugualmente enfatizzate) di vario tipo. Mi spiego meglio. Ci sono compratori disposti a pagare “qualche dollaro in più” un bene che è stato esitato rispondendo a presunti standard morali (ecologia, equosolidarietà, ecc. ecc.). Le imprese impacchettano questa sensibilità e la fanno pagare all’acquirente “consapevole” (di poco) che può permettersela. Più spesso la fanno pagare a tutti, sotto forma di tassazione, come avviene per le energie alternative che, pur non richieste ed essendo diseconomiche, ci ritroviamo in bolletta in nome di una impossibile riconversione del “modello di sviluppo”, il quale nel frattempo arricchisce i ciarlatani spalleggiati dallo Stato. Ciò che importa loro è, in ogni caso, rispondere alle esigenze della clientela per stare sul mercato o nelle sue nicchie. Pazienza se poi si imballa fumo, il cliente ha sempre ragione. Io ci trovo molta insostenibilità nei pregiudizi di Passera, tanto più che, come ricorda giustamente La Grassa, quando costui si è ritrovato a risanare imprese decotte ha pensato al corpo societario e non ai corpi dei lavoratori, dismessi o licenziati come esseri inanimati. Un’etica dei cuori di pietra, però necessaria per salvare il patrimonio aziendale.
Ricordo che anche Sergio Marchionne, poco prima di morire si intenerì, dopo aver inviato decine e decine di lettere di saluti definitivi alle maestranze, lasciandoci questo improbabile testamento umanitario:

“Non possiamo demandare al funzionamento dei mercati la creazione di una società equa perché non hanno coscienza, non hanno morale, non sanno distinguere tra ciò che è giusto e ciò che non lo è”… ”l’efficienza non è e non può essere l’unico elemento che regola la vita. C’e’ un limite oltre il quale il profitto diventa avidità e chi opera nel libero mercato ha il dover di fare i conti con la propria coscienza”…”gli eventi e la storia hanno dimostrato che ci reggevamo su un sistema di governance del tutto inadeguato. Soprattutto, hanno evidenziato la necessità di ripensare il ruolo del capitalismo stesso, e di stabilire qual è il corretto contesto dei mercati. Sono una struttura che disciplina le economie, non la società”… “se li lasciamo agire come meccanismo operativo della società, tratteranno anche la vita umana come una merce. E questo non può essere accettabile”…”la forza del libero mercato in un’economia globale è fuori discussione…nessuno di noi può frenare o alterare il funzionamento dei mercati…questo campo aperto è la garanzia per tutti di combattere ad armi pari…il perseguimento del mero profitto, scevro da responsabilità morale, non ci priva solo della nostra umanità, ma mette a repentaglio anche la nostra prosperità a lungo termine… [Occorre] creare le condizioni per un cambiamento virtuoso…per promuovere la globalizzazione che sia davvero al servizio dell’umanità”.

Come scrissi già allora è un caso di speculazione e “perculazione”. I mercati sono il regno anarchico delle merci ed il fatto che oggi si siano estesi a tutto il pianeta, secondo le dicerie globaliste, non muta il loro intrinseco funzionamento. Non vi è nessuna degenerazione nei mercati che sono anzi, seppur solo formalmente, il luogo dell’uguaglianza degli individui i quali vi si recano liberamente per acquistare e vendere i loro prodotti, secondo le leggi ferree di questa formazione sociale, leggi solo occasionalmente violate con truffe e raggiri ( puniti dai tribunali), che però non rappresentano la norma. Marchionne avrebbe voluto che i mercati non trattassero la vita umana come merce? In questo mondo non è possibile. Sui mercati la nuda vita non vale nulla, conta semmai la merce forza-lavoro. Gli unici corpi che interessano ai mercati sono quelli dei prodotti in quanto contenenti un (plus)valore da realizzare per trarne un profitto, non i corpi tout court. Non c’è rischio che la vita umana diventi merce perché se accadesse ci troveremmo dinanzi ad un arretramento, ad un ritorno della società ai vincoli personali di tipo schiavistico e feudale. Sarebbe una regressione secolare a forme di esistenza precedenti già superate dal modo di produzione capitalistico. Marchionne avrebbe voluto limitare i profitti? Lo sosteneva ma non lo pensava. Lo avrebbero lincenziato. “Il perseguimento del mero profitto, scevro da responsabilità morale, non ci priva solo della nostra umanità, ma mette a repentaglio anche la nostra prosperità a lungo termine” . Lui fu incaricato però proprio per perseguire la “dismisura” finanziaria non per perorare il senso della misura francescana. Infatti, anziché produrre veicoli competitivi, fu più aduso a far quadrare i bilanci attraverso “giochetti” quali scalate, fusioni o acquisizioni.

Come al solito, Nihil sub sole novum. Già Marx, qualche secolo fa, riconosceva a Ricardo la dote di saper fare scienza anziché moralismo in quanto costui considerava (questo passo di Marx è stato riportato nell’ultimo libro pubblicato da Gianfranco la Grassa, Denaro e forme sociali, Avatar, ordinatelo sennò vi banno):

“il modo di produzione capitalistico come il più vantaggioso per la produzione in generale, come il più vantaggioso per la produzione di ricchezza. Egli vuole la produzione per la produzione, e questo a ragione. Se si volesse sostenere, come hanno fatto degli avversari sentimentali di Ricardo, che la produzione in quanto tale non è il fine, si dimenticherebbe allora che produzione per la produzione non vuol dire altro che sviluppo delle forze produttive umane, quindi sviluppo della ricchezza della natura umana come fine a sé. Se si contrappone a questo fine, come Sismondi, il bene dei singoli, allora si afferma che lo sviluppo della specie deve essere impedito per assicurare il bene dei singoli e che quindi, per esempio, non dovrebbe essere fatta nessuna guerra in cui i singoli in ogni caso si rovinano (Sismondi ha ragione solo rispetto agli economisti che nascondono, negano questa antitesi). Non si comprende che questo sviluppo delle capacità della specie uomo, benché si compia dapprima a spese del maggior numero di individui e di tutte le classi umane, spezza infine questo antagonismo e coincide con lo sviluppo del singolo individuo, che quindi il più alto sviluppo dell’individualità viene ottenuto solo attraverso un processo storico nel quale gli individui vengono sacrificati, astrazion fatta dalla sterilità di tali considerazioni edificanti, giacchè i vantaggi della specie nel regno umano, come in quello animale o vegetale, si ottengono sempre a spese dei vantaggi degli individui, poiché questi vantaggi della specie coincidono con i vantaggi di particolari individui che in pari tempo costituiscono la forza di questi privilegiati. La mancanza di riguardo di Ricardo era dunque solo scientificamente onesta, ma scientificamente necessaria per il suo punto di vista. Ma perciò gli è anche del tutto indifferente se lo sviluppo delle forze produttive uccida la proprietà fondiaria o gli operai. Se questo progresso svalorizza il capitale della borghesia industriale, questo gli è altrettanto gradito. Che importa, dice Ricardo, se lo sviluppo della forza produttiva del lavoro svalorizza della metà il capital fixe esistente? La produttività del lavoro umano si è raddoppiata. Qui vi è dunque dell’onestà scientifica. Se la concezione di Ricardo è, nel complesso nell’interesse della borghesia industriale, lo è solo perché e in quanto l’interesse di questa coincide con quello della produzione o dello sviluppo produttivo del lavoro umano. Quando quello entra in conflitto con questo, egli è altrettanto privo di riguardi verso la borghesia, come del resto lo è verso il proletariato e l’aristocrazia. Ma Malthus! Ce Misérable trae dalle premesse scientificamente date (e da lui sempre rubate) solo conclusioni tali che siano “gradevoli” (siano utili) all’aristocrazia contro la borghesia e a entrambe contro il proletariato. Egli perciò non vuole la produzione per la produzione, ma solo in quanto essa conserva o rigonfia l’esistente, in quanto conviene al tornaconto delle classi dominanti. Ma un uomo che cerca di accomodare la scienza (per quanto errata possa essere), a un punto di vista non mutuato dai suoi stessi interessi ma da interessi mutuati da fuori, a essa estranei, esterni, io lo chiamo “volgare”. Non è volgare da parte di Ricardo mettere i proletari sullo stesso piano del macchinario o della bestia da soma o della merce, perché (dal suo punto di vista) la “produzione” esige che essi siano solo macchinario o bestia da soma, o perché in effetti nella produzione borghese i proletari sono solo merci. Ciò è stoico, obiettivo, scientifico. Nella misura in cui ciò può avvenire senza peccato contro la sua scienza, Ricardo è sempre un filantropo, come lo era anche nella prassi. Il prete Malthus invece abbassa gli operai a bestie da soma a causa della produzione, li condanna alla morte per fame e per celibato. Quando le medesime esigenze della produzione riducono al landlord la sua “rendita” o minacciano le “decime” della Established Church o l’interesse dei “divoratori d’imposte” o anche sacrificano la parte della borghesia industriale il cui interesse ostacola il progresso alla parte della borghesia che rappresenta il progresso della produzione – in tutti questi casi il “prete” Malthus non sacrifica l’interesse particolare alla produzione, ma cerca, per quanto sta in lui, di sacrificare le esigenze della produzione all’interesse particolare delle classi o frazioni di classi dominanti esistenti. E a questo scopo falsifica le sue conclusioni scientifiche. Questa è la sua volgarità scientifica, il suo peccato contro la scienza, a prescindere dalla sua impudente e meccanica attività di plagiaro. Le conclusioni scientifiche di Malthus sono “piene di riguardo” verso le classi dominanti in generale verso gli elementi reazionari di queste classi in particular, egli cioè falsifica la scienza per questi interessi. Esse sono invece senza riguardi quando si tratta delle classi soggiogate. Non solo è senza riguardi. Egli affetta una mancanza di riguardo, si compiace cinicamente, ed esagera le conclusioni nella misura in cui si rivolgono contro i misérables, anche oltre la misura che dal suo punto di vista darebbe scientificamente giustificata”.

Così è anche se non vi pare.