PROSPETTIVA POSSIBILE MA….. (CONCLUSIONE PROVVISORIA) di Giellegi (7 sett. ’10)
1. Difficilmente ormai la traiettoria degli eventi mondiali si discosterà molto da quella che porta al multipolarismo, con cui intendo solitamente la fase in cui continua a sussistere, per un dato periodo di tempo, una dissimmetria di forza tra uno dei poli rispetto agli altri. La tendenza presenterà discontinuità, momenti di (più o meno reale o apparente) inversione; ma la direttrice di fondo sarà verso un maggior equilibrio quanto a potenzialità, che si configurerà come avvento di un policentrismo più nettamente conflittuale. Nessuno è in grado di prevedere con precisione i tempi di svolgimento del processo e le singole tappe da esso attraversate. Come sempre avviene si tenterà, talvolta persino con “sincerità”, di evitare scontri acuti, di arrivare anzi a forme di collaborazione, con ciò sperando di scongiurare conflitti troppo gravi e irrimediabili. Si troveranno sempre gruppi di ideologi che si lanceranno in elucubrazioni varie per dimostrare come l’accordo sia la via migliore per conseguire, tramite cooperazione, risultati più soddisfacenti per tutti o almeno per la maggioranza, senza che nessuno abbia a perderci troppo.
La realtà – qualunque cosa essa sia effettivamente, comunque la si possa e voglia rappresentare nel nostro pensiero – avrà alla fine un duro impatto per la gran parte dei soggetti agenti. Ben lungi dal rassegnarsi alla sua più o meno “reale” oggettività, costoro riterranno che qualcuno abbia imbrogliato, che qualcuno stia cercando di imporsi con la forza o con l’astuzia. L’andamento dei “fatti”, così come nettamente percepiti dai vari “soggetti”, creerà nei più la convinzione che qualcun altro sta realmente barando, che qualcun altro vuole avvantaggiarsi. Inizierà il periodo della crescente diffidenza, punteggiato da ulteriori tentativi di accordo per almeno smussare le punte più acute del conflitto; si cercherà con continue giravolte – alleanza ora con gli uni ora con gli altri, ora contro gli altri ora contro gli uni – di mantenere un qualche equilibrio. Fino a quando non si arriverà alla conclusione che è meglio unirsi in gruppi contrapposti al fine di regolare i conti, il che non avviene mai una volta per tutte, conosce diverse tappe e gradazioni con il mutamento della composizione interna dei gruppi in conflitto sempre più aspro.
Siamo in fondo, in termini storici, solo all’inizio di un simile percorso; eppure esso è cominciato in modo tale che se ne può intanto ipotizzare con un altissimo grado di probabilità l’andamento, pur a zig zag e con diverse svolte, verso il multipolarismo. Ci conviene dunque ragionare in questi termini, smettendo di pensare genericamente o alla possibilità di conseguire un “bene comune” o al semplice scontro duale: classe contro classe, dominanti contro dominati, oppressori contro oppressi o magari uomo contro natura (ambiente), genere contro genere, ecc. Scontro elementare da cui concludere, a seconda della visione ideologica preferita, circa la necessità della vittoria di uno dei due poli in lotta o invece la possibilità di un equilibrio tramite cui entrambi si avvantaggerebbero con soddisfazione reciproca.
Si pensi invece, assai più realisticamente, alle probabilità di questo o quello scenario del conflitto – nient’affatto duale, ma multidirezionale e con svariate composizioni possibili delle forze in campo – la risoluzione del quale è, al presente, nella “mente di Dio”, cioè rientra nel campo dei più differenziati esiti, a lungo incerti e aperti a quello che ci appare attualmente come casuale. Solo verso la fine del processo si comincerà a nutrire la certezza di un dato esito, che significa semplicemente l’attribuzione a quest’ultimo di una probabilità sempre più prossima al 100%; d’altra parte, quando tale processo potrà dirsi concluso, si prenderà atto, poiché la “storia” non finisce mai, che si tratta invece di una provvisorietà, da cui ripartire rifacendo lo stesso percorso di ipotesi, previsione, azione, correzione della previsione e dell’azione, ecc.
2. Tutto ciò premesso, se lo scenario prossimo venturo che prevediamo è multipolare, i protagonisti già oggi visibili sono Usa, Russia, Cina; India e Brasile li metterei per “quasi” sicuri, e senza dubbio ve ne saranno altri come minimo quali subpotenze regionali, destinate ad alleanze con le potenze ma non piattamente subordinate ad esse. Il Giappone dovrebbe rientrare fra queste (anche se al momento non pare proprio ben messo al proposito), così Il Pakistan (forse), Iran, Turchia; ovviamente Israele, che ha uno statuto speciale.
L’Europa è del tutto fuori gioco? Si, certamente, se continuerà per troppo tempo a “pestar acqua nel mortaio” con le indecenti e ignobili istituzioni dell’Unione Europea (ivi compresa la ridicola Banca Centrale). Tali organismi sono una sorta di “aggiunta” alla Nato, per curare gli interessi non militari ma economico-finanziari; tuttavia, esattamente con lo spirito con cui l’organismo del Patto Atlantico cura quelli militari, cioè in una posizione di sudditanza rispetto alla potenza centrale del fu campo capitalistico nell’epoca del mondo bipolare. Quell’epoca è finita, morta, sepolta. Tuttavia, di fronte al risorgente multipolarismo, gli Usa, come in un gioco di prestigio, vorrebbero risuscitare lo spirito e la funzione delle organizzazioni allora create. L’Europa, ivi compresa quella orientale dopo il crollo socialistico, è piena zeppa di basi militari statunitensi; così come di istituzioni che si dicono europee mentre sono pura zavorra per noi e una manna del cielo per gli Stati Uniti.
Non credo possa durare. Non si tratterà di tempi brevi, perché il predominio americano, favorito dalla bipolarità, ha snervato, disossato, questa povera Europa. Tuttavia, non penso proprio che una nazione, capace di dar vita al nazismo, si sia così smidollata da non avere capacità di rinascita nel momento in cui il mondo sta così rapidamente cambiando assetto. Semmai, si può temere un “effetto di rimbalzo” dopo una sì lunga ignominia nazionale. Non credo affatto a tutte le chiacchiere “psicologiche” (trasferite impropriamente dalla coscienza individuale a quella “collettiva”) circa i sensi di colpa del popolo tedesco, ecc. Per il momento questi ultimi sono solo il sintomo di una dipendenza dalla potenza centrale durata fin troppo a lungo perché, dall’altra parte, c’era il cosiddetto socialismo vissuto dal capitalismo “occidentale” (ormai in buona parte assimilatosi a quello dei funzionari del capitale di tipologia americana) quale suo antagonista. Quel pericolo è caduto. I paesi europei orientali non sono proprio colonie, ma certo subordinati e succubi del capitalismo nella sua forma “occidentale”. La Russia è invece una “neo”-formazione sociale, ma di tipologia capitalistica (seppur ancora indefinita e indefinibile); ecc., ecc.
La Germania dovrebbe, entro un congruo periodo di tempo, reimmet
tersi a pieno titolo nel conflitto multipolare. I “sensi di colpa” si mostreranno per quello che sono: la costrizione ad una posizione di subdominante legata alla particolare storia del secondo dopoguerra fino al crollo socialistico del 1989-91 e al periodo di monocentrismo statunitense fino all’inizio del nuovo secolo. La direzione del processo storico è “svoltata”. Il mondo si va frammentando in più sfere d’influenza, fra loro intrecciate e certo di dimensioni differenti (di gran lunga la maggiore è ancora quella degli Usa). Nelle “zone franche” – che tutti questi maggiori o minori “circoletti”, in “iridescente” frammentazione e tendenziale scontro, vanno creando – si apriranno spazi per giochi conflittuali delle nazioni (quegli Stati nazionali che, per certi “cervelloni” soprattutto della “sinistra radicale”, erano spariti) ormai affrancatesi dalla cristallizzazione del bipolarismo, ma ancora troppo infiltrate e paralizzate dai miasmi velenosi dell’influenza del paese predominante nel campo capitalistico “occidentale”, appunto quello occupato dalla formazione sociale dei funzionari del capitale.
Questa pesante storia passata (dal 1945 ad oggi) – che ha contribuito all’attuale spostamento verso est della formazione di nuove potenze considerate, tutto sommato, capitalistiche, ma solo perché sono lontanissime dal “socialismo immaginario” durato mezzo secolo – impedirà probabilmente alla Germania di conoscere quello che ho prima chiamato “effetto di rimbalzo” rispetto allo smidollamento del secondo dopoguerra; il che è del resto positivo onde evitare altre tragedie tipo quelle degli anni ’30 e ’40. Non ostacolerà invece la rinascita di una buona subpotenza tedesca, forse più forte di quanto oggi non s’immagini.
3. Altro processo, che sembra proprio avviarsi nella direzione dal sottoscritto pensata fin dal 2008, è la crisi mondiale. Tutti hanno esageratamente insistito sul suo carattere finanziario. Alcuni vi hanno per l’ennesima volta visto la fine del capitalismo, altri un epocale mutamento per quanto riguarda i suoi caratteri di competizione troppo poco intonata all’“etica”. Sempre più tale processo si avvia ad essere il periodo di gestazione più che decennale della nuova configurazione che andranno assumendo i rapporti tra paesi, in specie tra potenze, nella fase di sviluppo ineguale, caratteristica decisiva di ogni epoca multipolare in cui declina il predominio centrale di una di esse, che aveva in qualche modo la funzione di regolazione della sua vasta area d’influenza.
La crisi sarà lunga, con alti e bassi, con nuove “scosse finanziarie” che non determineranno il crollo del sistema, ma saranno sintomo (in quanto effetto) della sua profonda trasformazione. Siamo del tutto impreparati a coglierla poiché ragioniamo ancora in base a tutti gli ismi del passato: sia apologetici che critici del capitalismo, considerato per di più un sistema sociale fondamentalmente eguale a se stesso, mentre dovrebbe essere declinato al plurale. Proprio per l’arretratezza delle diverse teorie (opportune mappe interpretative, quando però sono “ben” costruite in vista del nostro operare), non riusciamo a cogliere adeguatamente gli essenziali mutamenti dei rapporti sociali in aree mondiali diverse; e nemmeno, troppo spesso, siamo attrezzati ad afferrare la modificazione dei rapporti di forza in campo internazionale, dei rapporti di autonomia o dipendenza delle varie formazioni particolari in quanto, quasi sempre, società nazionali.
Si esalta di solito la funzione della cultura, e quindi anche delle diverse etnie, religioni, ecc. che si scontrano nel mondo. Non saranno affatto queste, in definitiva, a guidare il conflitto in cui si andrà riconfigurando lo spazio (sociale) mondiale. Ancora una volta, si constaterà la decisività degli apparati in grado di condurre a “buon fine” il suddetto conflitto; apparati che, certamente, si formano nel campo in cui quest’ultimo si svolge – e in cui, senza dubbio, si scontrano pure le differenti aree culturali – ma assumeranno in definitiva la loro relativa autonomia nel “combattimento”, condotto nei suoi termini “materiali e fisici” (non sempre bellici, non si confondano i due ambiti), fra i quali spiccano gli interessi dei diversi gruppi dominanti in lotta. Alla fin fine non vince una “cultura”, prevalgono questi interessi (non puramente intesi in senso limitatamente economico, ma di supremazia), quando sono però difesi e serviti da apparati dotati della necessaria forza. La cultura è soggetta alla forza e alla vittoria conquistata tramite quest’ultima; pur se, a giochi fatti, i predominanti di turno metteranno in bella mostra l’aspetto culturale, “pagando” gli ideologi affinché con esso venga “ben verniciata”, possibilmente “raffinata”, la loro egemonia complessiva (di cui, lo ripeto, la supremazia tramite uso della forza è il nucleo duro e decisivo).
Tornando al problema centrale, prefigurerei che, entro un decennio all’incirca, la Germania sarà il paese di questa “vecchia” area europea, apparentemente fuori gioco attualmente, in grado di riacquistare sufficiente forza allo scopo di divenire uno dei poli del conflitto multipolare. Per ottenere un simile risultato, dovrà necessariamente allentare i rapporti con gli Usa, o comunque mantenerli – e ciò richiederà il supplemento della lotta – entro l’ambito di una loro utilità ai fini della maggiore autonomia. Mi sembra evidente che un simile fine esige un’evoluzione dei rapporti tedeschi verso est, verso la potenza Russia in modo particolare. Ciò non potrà non influire alla lunga sull’atteggiamento, e dunque sugli assetti politici, dei paesi europei orientali.
4. Ci interessa però soprattutto l’attrazione che l’eventuale sviluppo della Germania, nella direzione ritenuta probabile (per più del 50% a mio avviso), potrebbe esercitare sull’Italia. Difficile dire quale sarà l’articolazione della “sfera politica” italiana fra un decennio. In un modo o nell’altro, credo che il periodo caratterizzato dall’ossessione pro o contro Berlusconi sarà finito. Fin quando però l’Europa resterà nell’attuale lamentevole situazione, di dipendenza sostanziale dagli Usa, non vi è grande speranza di effettivi cambiamenti migliorativi del “sistema Italia”. Che questo si risollevi per capacità intrinseche, senza bisogno di impulsi esterni, è ben poco probabile.
Un’accelerazione tedesca – pur nell’ambito, lo ripeto, di una complessiva “crisi”, che implicherà trasformazione e non mera dissoluzione come sostengono prefiche o interessate o di visione troppo corta – sarebbe eventualità decisamente favorevole, poiché dovrebbe provocare finalmente una benefica polarizzazione nella politica italiana. In realtà, prima di polarizzarla la “creerebbe”; la farsa che si sta recitando da quasi vent’anni in tale sfera sociale è semplicemente l’agitazione scomposta in senso scandalistico e ipocritamente moralistico di residuati (zombi) di un’età ormai scomparsa. Diet
ro di essi, si muovono gli interessi (mascherati) di putridi avanzi della nostra finanza “weimariana” e di un’industria “matura” (di vecchie fasi dell’industrializzazione), semplici agenti del predominio statunitense. La rottura, che alcuni vedono all’interno di questo gruppo di parassiti, è in parte reale, in parte sopravvalutata. In ogni caso, nessuno dei contendenti esplica effetti positivi per il “sistema-Italia”; è una lotta tra servi, che vogliono scalzarsi gli uni con gli altri nella considerazione dei padroni.
Una reale autonomizzazione della Germania, divenuta almeno subpotenza regionale, servirà alla “precipitazione” della politica italiana e alla sua “condensazione” secondo due linee prevedibili, pur per tratti molto sommari. Intanto il nord, già molto connesso all’economia tedesca, sarebbe spinto ad un intreccio ancora più spinto, ad una effettiva alleanza fondata su cospicui interessi. Vi sarà il pericolo di una nuova complementarietà dipendente; in ogni caso con la maggiore solidità del tessuto produttivo, anche e soprattutto quello medio e piccolo, oggi troppo chiuso nell’orizzonte di una strategia dettata dalla solita potenza predominante da troppo tempo. Si avrà quanto meno l’apertura del ventaglio delle possibilità, sia pure al seguito della (ricordiamolo sempre: eventuale) subpotenza tedesca con la sua crescente sfera d’influenza verso l’est europeo e con legami molteplici in direzione di nuove potenze in crescita, in particolare verso la Russia.
Con quest’ultima, alcuni settori (e grandi imprese) di punta italiani hanno già una serie di intrecci di non indifferente portata. Non a caso, però, sempre messi in discussione da ambienti politici, con nucleo essenziale nella “sinistra” ma trasversali, che vivono della corruzione operata dalla vecchia (super)potenza in solo relativo declino e ancora munita di punti d’appoggio nella finanza e industria “matura” italiane già più volte citate. Uno spostamento di baricentro, come quello che si potrebbe verificare in tempi non troppo lunghi, determinerebbe comunque la nascita di una vera politica italiana aperta ad altri fronti (quelli che vengono definiti, con termine limitativo e di effettivo disorientamento, “mercati”, mentre sono aree d’influenza). I parassiti della sfera politica, che fanno tutt’uno con quelli industrial-finanziari, verrebbero messi in seria difficoltà da un simile spostamento provocato dall’ampliarsi della zona d’influenza tedesca in connessione con quella russa.
Si verificherebbe tuttavia uno “stiramento” non indifferente tra l’economia del nord (o centro-nord) rispetto a quella del centro-sud; certamente con qualche possibile effetto deleterio sull’unità italiana. Uno squilibrio eccessivo tra le due parti del paese non metterebbe però semplicemente in difficoltà la sua unità; accrescerebbe pure le possibilità di una dipendenza del nord dal sistema tedesco con i suoi allargamenti e intrecci d’interesse verso l’est. Le stesse grandi imprese di punta italiane (ad es. l’Eni) che hanno oggi ottimi punti di appoggio verso aree orientali, soprattutto con la crescente potenza russa, potrebbero trovarsi obbligate a subire una sorta di supervisione tedesca riguardo alla loro attività in quella direzione; magari quindi con la necessità di allentare i legami con il “sistema Italia” (e già si ha la sensazione che tali legami non siano stretti come potrebbero e dovrebbero). In effetti, malgrado l’insulso chiacchiericcio sul potere autonomo delle multinazionali (talvolta stupidamente denominate transnazionali), queste ultime hanno invece sempre dietro di sé, a loro disposizione, non la mercantile “mano invisibile” bensì il pugno chiuso e nodoso di un loro Stato nazionale. Quando questo manca, altri subentrano o altrimenti quella multinazionale è destinata ad arretrare e a perdere di vitalità.
5. Vi è un’altra possibile via da percorrere, per sfruttare la quale è però indispensabile la politica, in senso proprio e alto. Gli economi(ci)sti piuttosto rozzi – e in questo campo possono darsi la mano neoliberisti, neokeynesiani, marxisti scolastici – sono convinti che sia l’economia a determinare la politica. Le loro convinzioni risultano casualmente corrette solo quando un sistema economico è complementare – e subordinato nella sua complementarietà – ad un altro preminente; così come avviene per l’industria e finanza italiane nei loro prevalenti rapporti con gli Usa. In tale paese predomina la politica, anche quella che orienta le scelte grande-imprenditoriali finanziarie e industriali; una politica che non è diretta da un’unica “mente”, bensì è il risultato del conflitto tra più attori nel campo delle scelte tattiche e strategiche.
Tuttavia, sono appunto le mosse in tale campo a determinare quanto avviene nella sfera economica, i cui vari settori, imprese, ecc. sono di fatto “strumenti” della politica, pur se non certo manovrabili come quelli utilizzati da un bravo artigiano. Si tratta di “macchinari complessi”, le cui parti sono messe in azione secondo molteplici decisioni fra loro in contrasto, per cui è del tutto usuale la sconnessione e a volte il caos (le crisi). Le mosse degli attori in un sistema (nazionale) predominante hanno fra i loro “strumenti” (i “macchinari complessi”) anche i (sub)agenti della sfera economica dei sistemi dipendenti; ed è in questi che l’economia – i suoi attori in quanto (sub)agenti – può prevalere sulla politica, dove allora allignano i servi (politici) dei servi (economici) dei centri strategici del sistema predominante.
In definitiva, per non cadere da una subordinazione (agli Usa) ad un’altra (alla Germania e, per suo tramite, ad altre potenze in crescita), occorre la politica. E tuttavia, in tal caso, essa dovrebbe essere agita da un prevalente centro strategico, senza formazione del quale e lasciando straripare in tale campo il contrasto tra più attori (ripeto: meri subagenti), verrebbe difficilmente conseguito un risultato unitario. Se si formasse questo prevalente centro strategico, esso tratterebbe la sfera economica in funzione degli interessi italiani, non in quanto solo complementari (e dunque subordinati) a quelli tedeschi. Certamente, anche in una visione di autonomia e indipendenza, potrebbe sorgere la tentazione di seguire nell’azione politica la via apparentemente più corta: concentrare gli sforzi nel nord, già ampiamente sviluppato e in modo più omogeneo – anche con riguardo al rapporto tra grande, media e piccola imprenditorialità e tra queste e le varie infrastrutture, i servizi “pubblici”, un certo humus sociale favorevole all’iniziativa per lo sviluppo, ecc. – rendendolo però alleato, non succube, della Germania.
In fondo, anche soltanto il nord, in una visione di più corto respiro, può servire da collegamento tra l’asse Germania-est europeo-Russia e i paesi del Mediterraneo, con visione allargata verso sud-est. Tuttavia, credo che si potrebbe invece sfruttare l’occasione per un processo, pur se più lento a questo punto, di effettiva unità del paese. In effetti, il centro-sud avrebbe le caratteristiche per diventare la naturale base, o almeno il prolungamento di quest’ulti
ma, per un’espansione nei confronti dei “paesi rivieraschi” (secondo l’espressione di Gheddafi) del Mediterraneo, ma soprattutto per una politica – che la UE non è in grado di fare, ma che nemmeno lo sono al presente i singoli paesi europei (ivi compresa la Germania) – verso Iran e Turchia, nodi essenziali per l’allargamento dei “mercati” (cioè delle aree di influenza) verso sud-est in accordo, o almeno senza forti frizioni, con la Russia. Proprio per una politica simile, che unisca l’autonomia e il rafforzamento del nostro paese ad un processo di almeno tendenziale omogeneizzazione dell’intero tessuto sociale italiano, è indispensabile un notevole grado di centralizzazione (detto meglio: di forza e autorità) e la capacità di evitare alcuni “svarioni” del passato.
Non è più ammissibile che si continui a ripetere la “questione meridionale” nei termini usati da più di un secolo, insistendo pedantemente sull’annessione del sud al nord, sul “dualismo” provocato dai “processi circolari cumulativi”, e via dicendo. Non è il caso di discutere qui circa la validità di simili tesi in passato (lasciamo questo compito, nient’affatto superfluo, agli storici). Oggi è però ora di “cambiare disco”. Non si può continuare a “chiagnere”, a blaterare circa la necessaria solidarietà verso i presunti diseredati meridionali. Ed è anche indispensabile dire basta alla solfa della lotta alla criminalità organizzata.
6. Mi si conceda un necessario inciso. Gli Stati Uniti sono divenuti una grande potenza anche tramite l’alleanza tra grande capitale e criminalità, perseguendo nel contempo quest’ultima per poi sempre rivitalizzarla. I funzionari del capitale non sono la vecchia borghesia (che negli Usa era localizzata a Boston, Filadelfia ecc., cioè nel nord-est, in quanto prolungamento della borghesia inglese, che però fu combattuta da quella americana per conquistare l’indipendenza). La borghesia si avvalse di un processo di accumulazione originaria basato sul mantenimento di forti differenze di “casta” (di classe) con “sfruttamento” intensivo della forza lavoro salariata (e largo uso del “plusvalore assoluto”); proprio perché la borghesia – soprattutto nel “modello” del capitalismo borghese (l’Inghilterra) a lungo predominante su scala mondiale (epoca monocentrica per gran parte dell’800), nonché quello su cui Marx costruì, da scienziato qual era, la teoria del modo di produzione capitalistico – aveva ampie connessioni “d’eredità” (culturale come politica) con la vecchia classe nobiliare. Il capitalismo americano, soprattutto dopo la guerra di secessione (o civile), fu tutt’altro tipo di formazione sociale. Vi furono certo ampi fenomeni di “sfruttamento” – soprattutto dei “nuovi arrivati” – ma decisivo fu pure lo scontro tra dominanti con i forti processi di centralizzazione dei capitali e l’eliminazione della “piccola produzione”.
I film western americani sono illuminanti – nelle verità e nelle falsità che propalano – per capire il processo. Verità in quanto la centralizzazione fu promossa “con colt e winchester”; falsità perché il “lieto fine” imponeva la vittoria dei piccoli produttori “democratici”. Nella realtà questi si assunsero il compito della prima onda d’urto per l’eliminazione dei sedicenti “pelle rossa”, ma furono poi sostituiti, con metodi assai rudi ed essenziali, dal grande capitale in possesso di ben altre capacità organizzative e di “potenza di fuoco”. Finita l’epopea del “Far West”, e utilizzando le varie “mafie” arrivate nel paese (cruciale quella italiana, che ha sempre goduto di particolare attenzione da parte delle autorità statunitensi, pronte a servirsene quando era ed è necessario), l’accumulazione capitalistica americana ha sempre avuto legami profondi con la criminalità.
Legami che, per funzionare bene, esigono l’accanita lotta alla criminalità con il “trionfo della legalità”: parziale, però, mai definitivo. Il “gioco” finisce male sia se la legalità schiaccia la criminalità sia se quest’ultima viene lasciata travolgere certe “dighe insuperabili”. E’ un gioco di abilità, come quello di chi lancia in aria 4-5 mazze (o palle) e non deve mai farle cadere a terra, altrimenti si prende sonori fischi dal pubblico, che invece applaude freneticamente quando la legalità finge di voler eliminare i criminali, ma arriva invece fino al punto di averne sempre a disposizione un discreto numero al momento opportuno, quando ad es. occorrono svolte politiche (magari favorite da qualche assassinio), ulteriori accumulazioni capitalistiche di un certo tipo piuttosto che di un altro, ecc.
Sia chiaro che chi combatte la criminalità è spesso lo stesso che la blandisce e “coccola”; ma altrettanto spesso deve essere invece convinto del suo ruolo, deve esser in “buona fede”. In molti casi, è bene dividere con nettezza i due ruoli, i portatori soggettivi di entrambi; il gioco riesce meglio ed è più “pulito”. L’importante è che si mantenga sempre un certo equilibrio. I funzionari del capitale non hanno più a disposizione l’ampio ventaglio del “plusvalore assoluto” come la vecchia borghesia, più “onorata” e “onorabile” sulla pelle di autentici “sfruttati” (nel senso non soltanto scientifico del termine). Oggi occorre più ipocrisia, più finzione di eguaglianza e di “larghi consumi”, di innalzamento del tenore di vita delle “larghe masse”. Senza il gioco “legalità-criminalità”, con i suoi equilibrismi, “tanti saluti e buona notte al secchio”!
7. Oggi, nel sud Italia non vi è proprio un simile gioco, un simile equilibrismo. E’ sostituito da un altro gioco: quello del “chiagnere” e chiedere sussidiarietà (chiamata falsamente solidarietà), da una parte; nel mentre poi si ulula perché lo sviluppo sarebbe impedito dalla criminalità organizzata e dallo scarso sforzo (o addirittura complicità) delle autorità centrali nel combatterla. Un simile atteggiamento è addirittura precapitalistico (si accetti il termine in senso non proprio, per similitudine, perché ormai non esiste più in Italia una parte di società precapitalistica). Sempre procedendo per analogie (e similitudini), nel sud non saremmo al capitalismo borghese perché altrimenti dovrebbe essere accettato in pieno il “modulo Marchionne”, che può attivare forme di “plusvalore assoluto”. Nemmeno però ci troveremmo in presenza dei funzionari del capitale, altrimenti si saprebbe come condurre una lotta alla criminalità, che mantenga l’equilibrio con la sua “utilizzazione” ai fini di un’autentica accumulazione legata alla crescita della produttività “di sistema”.
Già immagino lo scandalo degli, spero solo eventuali (ma non ne sono sicuro), “narodniki” o “amici del popolo” italiani. Proprio perché il sud è “precapitalistico” (lo ripeto, in senso improprio), qualcuno
potrebbe dilettarsi a pensare il passaggio diretto a forme “comunitarie”, di eguaglianza e cooperazione. Antidiluviani erano i populisti russi, e come tali furono trattati da Lenin negli scritti degli anni ’90 dell’ottocento; ancor di più lo sarebbe chi formulasse simili proposte ai giorni nostri e dopo la fine di quello che fu detto “movimento operaio”, comunque un grande movimento che ha caratterizzato buona parte del XX secolo.
Purtroppo, vi sono in ogni caso molti intellettuali “da diporto”, il cui scopo è semplicemente ottenere qualche encomio editoriale e di stampa da parte dei dominanti, sempre ben contenti che tra chi li critica si diffonda il rammollimento cerebrale. Nulla di meglio che onorarli – come ormai si consente di onorare Marx, svirizzandolo completamente e riducendolo o a un inutile ripetitore della tendenziale globalizzazione mercantile capitalistica, già ben individuata da Adam Smith, o a un filosofo dell’alienazione, che non ha mai infastidito nessun capitalista – confinandoli nell’intellettualità elucubrante che il “concreto volgo” disprezza e irride, purtroppo non distinguendola più da chi cerca invece di ragionare (ma questo è esattamente il fine voluto dai dominanti: sputtanare l’intero ceto intellettuale, concedendo mezzi di pubblicazione e diffusione ai più ebeti).
Mi dispiace, ma è invece utile, direi necessario, nella fase storica attuale che il sud diventi un’area prettamente capitalistica, il più possibile connessa con il resto del “sistema-Italia” e parte costitutiva essenziale d’esso. Per realizzare tale obiettivo occorre, dal punto di vista culturale, una nuova e totalmente diversa generazione di “meridionalisti” rispetto al passato; una generazione che ripensi la società meridionale come area sociale ed economica che deve integrarsi con il resto del paese, tramite un’effettiva “rivoluzione” (ovviamente non quella agognata per un secolo e più). Proprio per questo deve esistere un forte potere centrale. Non si tratta di centralizzare in toto questo potere, anzi esso dovrebbe coinvolgere, in forme “opportune” (lo scrivo tra virgolette perché è impossibile dire in questa sede e d’emblée quale sia la migliore forma), le varie parti del sistema complessivo. Tuttavia deve essere un potere dotato della massima autorità, della capacità di mettere termine alle spinte centrifughe in senso antinazionale. Un potere che si colleghi strettamente a quella Germania di cui stiamo parlando – qualora sappia divenire uno dei poli del mondo multipolare – con una sua precisa autonomia e con la funzione di proiezione a “sud-est” del polo in questione, che a questo punto potrebbe dirsi costituito da Germania-Italia, senza una nuova piatta dipendenza del nostro paese; quella dipendenza che forze precise, quali l’ammucchiata di emeriti voltagabbana (ex Pci, ex Dc, ex Msi e magari “qualche altro”), cercano di creare a favore degli Stati Uniti.
Siamo certo ben lontani dalla prospettiva che ho sopra delineato; sia pure in modo molto generico, proprio perché le forme specifiche della sua realizzazione sono di là da venire. Qualcuno potrebbe pensare alla costituzione di un polo Germania-Francia, che avrebbe più forza. Nessuno lo mette in dubbio, e non voglio sostenere che la formazione di tale polo è impossibile. Tuttavia, non cambierebbe la funzione che dovrebbe svolgere l’Italia. Tutto sommato, l’“esercizio” (forse di fantasia, ma non credo), cui mi sono qui dedicato, voleva far trarre alcune conclusioni.
Innanzitutto, l’Europa è destinata a decadere se s’insiste con l’ipocrisia degli Stati Uniti d’Europa. Questa è veramente una fantasia, in genere propugnata da forze dette europeiste che sono invece le più servili nei confronti della predominanza statunitense. Naturalmente il loro servilismo è mirabilmente funzionale ai loro interessi di finanza dipendente e di industria di vecchi settori, di passate fasi dell’industrializzazione. Dirottare risorse – in senso antischumpeteriano – dai nuovi settori strategici (tipo quelli rappresentati da Eni, Finmeccanica, Enel; e non certo per il loro carattere ancora in parte “pubblico”) a quelli più vecchi e ormai superati quanto a vitalità e produttività è esattamente quello che vogliono i sedicenti “poteri forti”, divisi solo su come essere meglio utili agli Usa nella loro lotta per la supremazia contro le nuove potenze in crescita.
Battere questi settori significa oggi lottare contro gli organismi della sedicente unione europea, che svolgono, nel loro aspetto politico ed economico, la stessa funzione della Nato in campo militare. Sono organismi del predominio statunitense sul vecchio continente. Nel 1861-65, la nuova borghesia americana dell’industria (protetta) dell’Unione decise di schiacciare quella preindustriale della Confederazione, interessata al predominio dell’Inghilterra (verso cui esportava, in “libero” commercio, il cotone). Oggi, nel “vecchio continente”, i funzionari del capitale dei nuovi settori industriali – che non hanno bisogno di protezione, ma solo di essere coadiuvati dalla forza (il pugno chiuso) nella lotta per le aree d’influenza nell’ambito del multipolarismo avanzante – devono trovare espressione in una politica che paralizzi e indebolisca i gruppi (sub)dominanti abbarbicati al predominio statunitense. Per realizzare il compito è necessario mettere termine all’insensata subordinazione agli organismi della falsa unione; come minimo si deve riprendere la vecchia parola d’ordine gollista relativa all’Europa delle patrie. E nemmeno questo, temo, basterà. Bisogna che alcune “patrie” si mettano in movimento quali poli (almeno subpotenze) in lotta multipolare.
8. In Italia, questo fine passa per il togliere l’acqua ai gruppi dominanti della finanza “weimariana” e dell’industria “matura”; è necessario quindi disperdere con decisione l’“ammucchiata degli ex” (ex piciisti, ex democristiani, ex missini più “qualche altro”, aiutati in questo compito da “alti patrocini”), che tali gruppi dominanti alimentano per i loro scopi di parassiti. E’ facile constatare che, giorno dopo giorno, i componenti dell’“ammucchiata” in questione si stanno scompostamente coalizzando con l’unico fine di riportarci in piena servitù; e nel caos più totale, capace di distruggere per non so quanti anni a venire anche quel poco di forza che abbiamo. I gruppi – di sopravvissuti a “mani pulite” e alle decisioni dei settori industrial-finanziari subordinati ad ambienti statunitensi, trinceratisi dietro lo schieramento guidato da Berlusconi – non sembrano essere in grado di compiere questo repulisti, che esige, lo ripeto, forme di autorevole autoritarismo e capacità di esercitare una sufficiente forza centrale.
Difficile pensare a simili soluzioni “in un paese solo”. E’ senza dubbio necessario che una nazione europea, dotata di forza, si metta sulla strada dell’autonomia rispetto alla fasulla unione europea (ed effettiva dipendenza dagli Usa), mettendo però in moto in altri paesi un ben diverso modo di intendere tale unione (che implicherà anche disunione e conflitti) con allargamento di proprie aree d’in
fluenza intrecciantisi con quella russa e altre comunque alternative rispetto agli Stati Uniti. Non si pretende l’interruzione o l’eccessivo indebolimento dei rapporti, soprattutto economici, con questi ultimi; si tratta però di intrattenerli con modalità del tutto diverse dal passato, modalità implicanti capacità d’autonomia e dunque necessariamente di conflitto. L’idea che ci sia autonomia senza conflitto (e capacità di sostenerlo con decisione) è pura finzione ideologica di coloro che in realtà hanno interesse a servire.
L’ipotesi più probabile è che il paese europeo più dotato per divenire almeno una subpotenza sia la Germania (se lo sarà anche la Francia, meglio ancora). L’unica via che resterà all’Italia, se sceglie finalmente d’essere autonoma, sarà di collegarsi con tale paese. O lo farà in modo nuovamente subordinato e servile, seguendo le limitate finalità di un nord separato di fatto (soprattutto appunto economicamente) dal resto del sistema nazionale e integrato a quello tedesco; oppure cercherà di avere un’autonoma e importante funzione di collegamento verso sud-est, sfruttando anche la sua naturale posizione geografica ed economica (quest’ultima ancora più potenziale che reale). A seguire la prima via, forse più facilmente praticabile a breve, potrebbe essere tentata la Lega (o sue parti), che allora dovrà probabilmente passare per una fase intermedia di alleanza (o semi-alleanza) con l’“ammucchiata degli ex”, una fase pericolosa comunque per la saldezza dell’unità italiana e per la nostra autonomia. Alla seconda alternativa occorrerebbero tempi più lunghi, con tutte le incertezze e difficoltà che vi sono connesse; essa è però decisamente positiva laddove, per unità e autonomia, l’altra ricoprirebbe un ruolo negativo. In ogni caso, sarà indispensabile la già ricordata “rivoluzione” al sud e l’affermarsi di una “questione meridionale” con ben pochi addentellati rispetto a quella del passato, ormai esiziale, paralizzante ed indigesta (giustificatamente) alla parte più sviluppata del paese.
Primo compito, preliminare ad ogni altro: mettere in condizione di non nuocere l’“ammucchiata degli ex”. Secondo: praticare “schumpeterianamente” il maggiore investimento di risorse verso i settori di punta, d’avanguardia, strategici, lasciando parzialmente “a digiuno” quelli “maturi”. A questo fine, deve crearsi un potere centrale che non esageri in centralismo, ma sia inequivocabilmente autoritario; e, con la sua autorità, deve piegare la finanza “weimariana” ai fini da esso decisi, attuando una politica d’autonomia in collegamento con la potenza europea in grado di lanciarsi nel conflitto multipolare.
La forza politica capace d’esercitare il potere in siffatta direzione dovrà prendere totalmente in mano il governo del paese, togliendosi di torno le palle di piombo di carattere servile; sarà allora indispensabile prendersi cura della ben nota costituzione di un blocco sociale. Anche in tal caso, un conto è pensare agli eventi di non si sa quanti decenni futuri, un altro puntare sul meno improbabile emergere di una potenza (o due) europea cui collegarsi, senza esserne semplicemente dipendenti, per una politica a livello mondiale attuata nel medio periodo in modo nettamente prevalente da alcuni gruppi di dominanti, seguiti da una parte dei raggruppamenti e strati sociali subalterni.
Mi auguro di non essere obbligato a sempre ripetermi. Tuttavia, ben conoscendo i lettori, soprattutto della “sinistra” che si sostiene radicale, ribadisco che si sta parlando di una fase storica di medio periodo, non dell’intera epoca prevedibilmente multipolare e poi policentrica. In questa fase, la più cospicua “massa d’appoggio” alla politica delineata mediante sintetico (e certamente generico) schema non sarà quella del tradizionale conflitto “capitale/lavoro”, cioè il complesso dei lavoratori salariati subordinati (lasciamo perdere la qualifica di semplici operai). Verso questi strati sociali occorre attenzione; essi non vanno assolutamente dimenticati, tanto meno tartassati e combattuti con le metodologie della “vecchia” industria e della finanza così com’è oggi, settori della nostra attuale subordinazione allo “straniero”. Tuttavia, vano è credere che tali subalterni – e soprattutto le organizzazioni che ancora in parte (per fortuna sempre minore) li inquadrano – siano ancor oggi il “sale del futuro”, i reggitori delle fumose “sorti dell’umanità”, cavallo di battaglia di tutti i veri “nichilisti”, perché discutere in tali termini è vaneggiare sul “nulla”.
La “base di massa” più dinamica per i prossimi anni – solo potenzialmente dinamica proprio per l’assenza di una guida politica – sarà quella del cosiddetto lavoro “autonomo”, della piccola e media (perfino nana) imprenditorialità, che nel nostro paese ha rilevante importanza per ragioni storiche di almeno mezzo secolo. I rappresentanti dell’industria e finanza parassitarie e subordinate alla potenza statunitense, per i loro interessi ormai in netta antinomia con quelli nazionali, cianciano a vanvera sulla “ottimalità” del loro raggruppamento “in rete”, sulla necessità del loro passaggio verso la “media” dimensione imprenditoriale. Tutte fumisterie tese a giustificare una politica di asservimento, che esige l’andata al governo dei loro sicari dell’“ammucchiata degli ex”.
9. Non dico che in questo momento si abbiano le idee chiare per una nuova politica; non si possono avere in mancanza dell’almeno iniziale messa in moto di un diverso orientamento, il che esige l’almeno embrionale formazione di una nuova forza politica. Bisogna sostenere le imprese di punta, dell’ultima “ondata innovativa” e strategiche per lo sviluppo; si passerà per una fase di relativa stagnazione quanto a crescita economica, ma lo sviluppo è precisamente altra cosa, è la trasformazione che prepara nuova potenza e forza d’urto per un vincente conflitto. Dietro queste imprese di punta è necessario raggruppare il sedicente lavoro autonomo, senza peraltro dimenticare quello salariato, quello in fondo più vessato e subalterno, che però non costituisce affatto oggi una qualsiasi avanguardia (anzi, molto spesso, è guidato da reazionari che danneggiano il futuro del paese).
Compito primario, la conditio sine qua non, è smussare le unghie della rapace imprenditorialità, che oggi punta alla dipendenza dagli Usa, cercando di dimostrare che la sua “complementarietà” a quel sistema predominante – coadiuvato perciò nella sua lotta per una nuova supremazia mondiale – è utile all’intero paese. E’ falso. E’ utile solo ai parassiti che, per continuare a vivere da sanguisughe sul “corpo” dell’Italia, hanno bisogno di appoggiare il tentativo degli Stati Uniti di riafferrare la preminenza. Questo smussare le unghie – anzi, diciamola tutta, tagliargliele senza esitare ancora per troppo tempo – non significa però nutrire la visione manichea di una lotta al capitale tout court in appoggio ad una
ormai fantasticata “classe” operaia (lasciamo perdere quei dementi che ancora parlano di “proletariato”). Chi ha questa visione è radicalmente un nemico; non gli si può concedere alcuna buona fede. Si tratta di alcuni gruppi di farabutti, profittatori della nostalgia di coloro che ancora sognano il fu “movimento operaio”. Questo ha dato tutto quello che poteva dare, la sua “era” è finita da un pezzo e solo pochi “sopravvissuti” non se ne sono accorti.
E’ in corso la probabile nascita di una nuova formazione sociale (del genere capitalistico, che va però meglio precisato nelle sue diverse configurazioni storiche: finora quelle borghese e dei funzionari del capitale, ancora scarsamente conosciute, studiate, analizzate). E questa nascita sta avvenendo in un mondo in ebollizione, in cui diverse formazioni particolari (di difficile definizione “generale”) sono in movimento con segmentazioni e stratificazioni sociali differenti fra loro. Alcune di esse stanno per divenire effettive potenze, attori del conflitto policentrico per la supremazia. Non sussisterà nel medio periodo la possibilità di delineare, tramite succinto ma almeno efficace schema, il nuovo “conflitto di classe”; uso una terminologia del passato per far capire ciò che intendo dire. In questo momento – e spingendo lo sguardo non tanto più in là di un decennio, periodo già abbastanza lungo per formulare previsioni che andranno sicuramente corrette, se non abbandonate, nel corso dell’evoluzione storica – mi sono provato ad avanzare, certo con molta (ma necessaria) genericità, alcune di queste previsioni, che riguardano in particolare il nostro paese.
Un quadro limitato, dunque; volutamente limitato perché mi sento del tutto lontano da grandi discorsi su prospettive secolari (o più ancora) circa le sorti delle “umane genti” in un futuro del tutto immaginario; discorsi a volte piacevoli per l’esercizio della fantasia (la fantascienza, la fantapolitica, ecc. hanno il loro posto nel nostro ragionare) ma poco utili nel presente contesto. Ritengo indispensabile dedicare attenzione a questi problemi di “minima portata”; tuttavia abbastanza rilevanti anche quando si voglia procedere ad una elaborazione teorica, che non ripeta vecchi “borbottii” pur con linguaggio semplicemente riverniciato. La scienza non serve a risolvere i millenari problemi che la coscienza umana si è posta; e che saranno proposti per tutta l’esistenza futura della società. Chi pensa il contrario mi sembra un “utopista”. Tuttavia, chi crede di poter sostituire i grandi discorsi sull’Uomo e il suo Avvenire ad una analisi scientifica – certo grigia e limitata eppure essenziale per munirsi di una “mappa” utile al nostro agire pratico, che a volte è un’ipotesi teorica tesa a correggere o sviluppare un’altra teoria, ecc., sempre però mirante, in ultima analisi, all’operare nel mondo in cui viviamo e non solo sogniamo o fantastichiamo; attività, lo ripeto, più che consentite per altri scopi – è ancora peggiore di un utopista.
Questo quadro limitato e questa nuova analisi scientifica dovrebbero essere posti all’attenzione dei partecipanti ad una nuova riunione del blog, sperando che sia tenuta entro tempi relativamente brevi, altrimenti sarebbe comunque in eccessivo ritardo. Noto già l’assenza, senz’altro giustificata ma comunque assenza, di molti redattori. Fra non molto tempo potrei mancare anch’io per esami vari e successiva operazione chirurgica (non per un “male incurabile”; non voglio alimentare speranze tra certi miei malevoli lettori). Quindi, se possibile, sbrighiamoci.