PUNTO DI ROTTURA (di G. Gabllini)
La congiuntura di crisi culminata in questi anni ha suscitato il plauso sconsiderato di orde policromatiche composte da stolti e retrogradi "analisti" d'antan, che hanno cantato all'unisono i propri "osanna" di fronte all'imminente, presunto "crollo del sistema", laddove si è trattato di un dissesto del tutto interno al capitalismo, che ha assunto dimensioni tali da mettere in piena luce la conflittualità che governa il grande gioco economico, in cui numerosi attori primari si stanno trovando in reciproca opposizione; tutti contro tutti (o pochi contro molti, o pochi contro pochi) a contendersi la supremazia a colpi di mosse finanziarie molto spesso assestate al di sotto della cintola, con le parallele ripercussioni che queste ultime sortiscono inesorabilmente sui vari tessuti produttivi e (di riflesso) politici nazionali.
La presente lettura della realtà rimanda espressamente al concetto di imperialismo elaborato da Lenin alla vigilia della Grande Guerra, che verteva sostanzialmente sull'analisi dello scontro concorrenziale, in atto a cavallo tra Ottocento e Novecento, tra le varie potenze mondiali interessate a ridisegnare i rapporti di forza all'interno del mercato mondiale. Lo scontro orizzontale tra le potenze in questione si sviluppò a tappe incerte, produsse due guerre mondiali oltre a numerosi conflitti più circoscritti, e portò all'instaurazione di un assetto bipolare del mondo, i cui vincoli specifici, con le relative spartizioni territoriali in "aree di competenza", furono stabiliti a Yalta nel 1945. Da allora i paesi membri del blocco comunista si sono limitati ad applicare fedelmente le direttive impartite dal Cremlino, senza prendersi la briga, perché non ve n'era la necessità, di elaborare un pensiero strategico alternativo, che li mettesse al riparo da una improbabile – ma, come è noto, tragicamente plausibile – capitolazione della casa madre. E' necessario invece impostare un discorso diverso per le potenze occidentali, la cui dipendenza dagli USA le ha obbligate comunque ad ottimizzare le proprie capacità e possibilità, al fine di reggere efficacemente la concorrenza sui mercati. Concorrenza falsata alla radice dallo strapotere militare statunitense – che la Casa Bianca avrebbe teoricamente potuto impiegare con gli alleati rivali (ossimoro che restituisce in pieno il senso della realtà) per fini non squisitamente "difensivi" – che però gli USA non furono mai costretti ad utilizzare per affermare il proprio successo. Il sistema produttivo americano si rivelò infatti vincente per ragioni direttamente collegate alla visione strategica su cui i suoi grandi manovratori decisero di elaborare il proprio modello economico. Il fordismo aveva infatti persuaso numerosi osservatori esterni che per raggiungere la prosperità statunitense occorresse sostanzialmente puntare sugli stessi settori interessati dal fenomeno in questione, ovvero il settore automobilistico e metalmeccanico. Nello specifico questa errata lettura della realtà economica spinse paesi di prim'ordine come Italia, Germania e Giappone a profondere enormi sforzi atti ad innovare il già elefantiaco settore automobilistico, fermamente convinti che presentandosi più competitivi in quel settore, e penetrando massicciamente nel mercato americano, avrebbero drasticamente ridotto il margine economico che li separava da Washington. Su questo azzardo economico, le classi politiche che reggevano queste nazioni giunsero ad adattare l'intero sistema politico, promuovendo una sorta di keynesismo sociale mediante il quale sobbarcarono gli stati di buona parte dei costi necessari per supportare l'espansione (o, come in Italia, la sopravvivenza) di detti settori. Gli USA non mossero un dito e approfittarono della situazione per focalizzare l'attenzione su ben altri ambiti strategici, come le nuove tecnologie, nei quali vantano tuttora una superiorità indiscutibile. La mossa si rivelò vincente alla luce del fatto che il settore automobilistico era assai prossimo alla saturazione, e che, lungi dal trainare alcun tipo di sviluppo, avrebbe potuto produrre soltanto stagnazione nei paesi che su di esso avevano puntato. Sul fronte orientale, la caduta dell'Unione Sovietica seppellì letteralmente i paesi orfani di essa sotto una vera e propria valanga di colossali inadeguatezze – dovute all'incapacità ad elaborare strategie vincenti indicata in precedenza – cosa che li obbligò (un'imposizione spesso gradita e da tempo auspicata) a recidere il cordone ombelicale che li legava a Mosca per passare in massa sotto "l'ala protettiva" della NATO. Il nuovo ordine mondiale fondato sul predominio assoluto degli Stati Uniti ridisegnò totalmente i rapporti di forza all'interno del globo, facendo pendere nettamente l'ago della bilancia dalla parte di Washington. Quasi tutti i paesi del mondo erano diventati, con le "buone" (ricatti, minacce) o con le "cattive" (aggressioni, guerre commerciali), "alleati" degli Stati Uniti, i quali, non dovendo rispondere delle proprie azioni ad alcun contraltare paritario, non si preoccuparono troppo di far ricorso alla "deterrenza" economica e militare per imporre i propri voleri. Questo andazzo è durato per poco più di un decennio, fin quando cioè gli USA hanno iniziato a perdere colpi a dispetto dell'emergere o del riemergere di numerose potenze regionali che stanno bruciando le tappe in vista dell'obiettivo, che è quello di abbattere il (declinante) predominio statunitense. Dopo anni di silenzioso torpore, l'analisi leniniana dell'imperialismo è tornata prepotentemente e altrettanto fragorosamente alla ribalta. La crescita prorompente delle potenze emergenti si sta scontrando con gli interessi di quelle che potenze lo sono da tempo, e che non intendono perdere affatto i propri privilegi. Ovunque in Europa è in atto uno scontro feroce tra vasti strati della popolazione (quelli situati alla base), per i quali la cinghia sta stringendosi sempre più, in specie per quanto riguarda il welfare e (presto) la sanità, con quelli imprenditoriali situati al vertice, che reclamano regimi fiscali sempre meno gravosi per non perdere terreno rispetto a quelli americani e a quelli legati ai paesi emergenti. Le potenze europee, lungi dal compattarsi, sono spesso divise da interessi contrastanti, inchiodate come sono all'inadeguatezza dei gerontocrati che le guidano, invecchiati all'ombra del Muro di Berlino e del tutto sprovvisti dei mezzi necessari a produrre un pensiero strategico di ampio respiro adeguato all'epoca che stiamo vivendo. Alcuni di essi sono piegati come sogliole alla logora logica Atlantica, mentre molti altri (la sedicente "sinistra") non sono altro che meri portavoce dei settori parassitari legati a doppio filo a Washington, di cui seguono pari pari le direttive. L'esempio italiano è assai eloquente in proposito. Una singolar tenzone di ventennale durata inscenato dal teatrino della politica, in cui sedicente "destra" e sedicente "sinistra" si presentano al mercato elettorale riversandosi reciprocamente fango addosso, spendendo fiumi di parole su questioni estremamente insignificanti ed energie su battaglie di retroguardia figlie di ideologie sclerotizzatisi qualche decennio fa. Nessuno che punti il dito contro il re nudo, e che si impegni a spezzare l'intollerabile inerzia che perdura da troppo tempo, in cui la finanza subordinata ai poteri forti internazionali continua a tenere in vita quei sett
ori capitalistici fortemente ancorati al metalmeccanico/automobilistico regolarmente a corto di capitali, che alla concorrenza preferiscono di gran lunga l'assistenzialismo (come la Fiat) parassitario tanto caro agli inguaribili romantici keynesiani (certa sinistra e i sindacati tout court), che plaudono alle sovvenzioni pubbliche – considerate "necessarie" – puntualmente concesse, e per mantenere le quali la verminosa classe politica italiana ha calato la scure fiscale sulla base produttiva nazionale, composta essenzialmente dai lavoratori autonomi. Il chiacchiericcio intorno al mercato del lavoro continua a tenere banco, con gli oligarchi che pretendono inderogabili e indiscutibili dismissioni previdenziali e assicurativa a fungere da contraltare ai romantici sopra citati, che pontificano a tempo pieno sulla stabilità del lavoro guardandosi bene dal fare i conti con quello che c'è. Sia chiaro che non è assolutamente intenzione di chi scrive quella di portare acqua al mulino delle oligarchie, ma di impostare una seria discussione su un argomento di così rilevante importanza, nell'affrontare il quale quasi tutti i relitti della sedicente "sinistra" alternativa o estrema, hanno voltato le spalle alla realtà limitandosi a sbraitare sull'inaccettabilità della precarizzazione del lavoro, persuasi di proclamare conciò la propria totale estraneità dal "male". In Russia, Vladimir Putin ha da tempo preso misure tali da suscitare i fastidi della categoria umana appena descritta, che ha unanimemente urlato allo scandalo "reazionario". In Realtà Putin ha preferito stringere la cinghia relativamente alle spese sociali per destinare maggiori fondi atti a stimolare la rinascita russa, che si è puntualmente ed inoppugnabilmente verificata grazie soprattutto all'intelligentissimo ruolo affibbiato da Putin alla compagnie energetica statale Gazprom. In Italia invece la discussione verte su tutt'altri argomenti, che vanno dall'ignobile progetto di frammentare l'ENI – in ottemperanza alle direttive impartite dai burocrati di Bruxelles, più realisti del re – in modo da spezzarne il "deplorevole e antiliberale" monopolio e renderla appetibile a qualche gigante straniero, al ridimensionamento di Finmeccanica imposto a tavolino dopo il lavoro sporco operato dalla solita magistratura che agisce a corrente alternata e geometria variabile; la solita "gioiosa macchina da guerra" di occhettiana memoria. Nessuno che sottolinei l'urgenza di operare una radicale riforma universitaria, che riporti l'istruzione a livelli presessantottini, di stanziare fondi per promuovere la ricerca, di sfruttare l'imminente policentrismo per affrancarsi dalla subordinazione atlantica e tessere trame diplomatiche di chiara vocazione machiavelliana, finalizzate cioè ad adoperare le proprie aziende di punta per chiudere contratti importanti (come ha recentemente fatto, seppur in sordina, Finmeccanica) con paesi strategicamente fondamentali (Russia, Iran e Turchia), in modo da innescare un'intensificazione di rapporti in grado di far ricadere cospicui vantaggi su tutte le parti in causa. Al momento non esistono in Italia né forze sufficientemente coese e strutturate né fazioni politiche interessate a supportarle, ma solo un caotico e apocalittico calderone in cui i parassiti primeggiano (e di gran lunga) numericamente sugli innovatori, a differenza dei quali possono pure godere dell’appoggio incondizionato della grande finanza internazionale e degli sgherri assisi senza alcuna legittimità a Bruxelles. Stesso discorso, se si prescinde da sporadiche posizioni assunte dalla Germania, vale grosso modo per il resto d’Europa, afflitta dagli stessi mali che attanagliano il “bel paese”, che si sta comunque distinguendo quanto a incapacità e doppiezza dei propri rappresentanti. La classe politica italiana e molti dei suoi ambienti imprenditoriali e finanziari hanno raggiunto il punto di non ritorno, un livello di corruzione e verminosità tali da rendere difficilmente prospettabile una qualsiasi svolta benefica interna alla nazionale. Ragion per cui è bene stare in allerta, e riflettere con maggiore attenzione su quel famoso passo in cui Lenin sottolineava che “Una rivoluzione senza plotoni d’esecuzione non ha ragion d’essere”. E di trarne le debite conclusioni.