Quali sono le basi del dialogo tra Pd e Fi ?

PROFITTO E FAMIGLIA:

GRANDE COALIZIONE ALL’ITALIANA

di Emiliano Brancaccio

 

Alle radici di un’intesa bipartisan un patto tra le rappresentanze dei piccoli capitali nazionali e quelle che fanno capo ai gruppi più grandi. E gli antichi valori familiari a coprire l’inefficienza dello Stato

di Emiliano Brancaccio

 

Lo abbiamo capito bene: potrà essere più o meno accesa nei toni, ma di fatto questa sarà una campagna elettorale contrassegnata da una gran voglia di intesa bipartisan. Tra le principali forze politiche, e in particolare tra Forza Italia e i Democratici, le manovre di avvicinamento sono sotto gli occhi di tutti, ed appare alta la probabilità che dopo le elezioni tali manovre sfocino in un vero e proprio accordo programmatico. Ma come si spiega, dal punto di vista degli interessi materiali, questa reciproca ricerca del dialogo? In parole semplici: quali sarebbero le basi strutturali, di classe, di un eventuale “Veltrusconi”? Gli opinionisti di grido stanno cercando di giustificare un eventuale accordo post-elettorale tra le maggiori forze politiche con delle espressioni vaghe e imbellettate, come l’esigenza di garantire la “modernizzazione” del quadro politico-istituzionale e del tessuto produttivo del paese. Se però si scava sotto la crosta del linguaggio ideologico, si scopre che in queste formule non vi è pressoché nulla di “moderno”. Dall’analisi degli interessi in gioco emerge infatti che alle radici di un’intesa bipartisan potrebbe in realtà sussistere un patto tra fratelli coltelli: vale a dire, tra le rappresentanze dei piccoli capitali nazionali e quelle che fanno invece capo ai gruppi più grandi e meglio integrati negli assetti europei. Soggetti storicamente in conflitto potrebbero cioè convergere attorno a un peculiare compromesso istituzionale e macroeconomico, sostenuto dai maggiori partiti e avallato dalle gerarchie ecclesiastiche. Come cercheremo di chiarire, per la classe lavoratrice e per il paese intero si tratterebbe di una prospettiva funesta e retrograda, che richiederà uno sforzo di analisi e una creatività politica eccezionali per esser contrastata.

         Esaminiamo in primo luogo i rapporti tra capitale e partiti. Nel corso di questi anni i gruppi capitalistici nazionali si sono divisi, al loro interno, sul piano delle simpatie e delle alleanze di palazzo. Semplificando al massimo, possiamo affermare che il governo Berlusconi è stato appoggiato in prevalenza dalla piccola imprenditoria, mentre la componente maggioritaria del governo Prodi è stata blandita e ha maggiormente interagito con i gruppi capitalistici più grandi e meglio integrati a livello europeo. Naturalmente, di fronte al complesso intreccio di legami finanziari e politici che caratterizza il paese, questa lettura dicotomica della situazione potrà apparire eccessivamente tranchant. Essa tuttavia fotografa piuttosto fedelmente la situazione di questi anni. Si pensi ad esempio alla Lega e al suo referente Tremonti. Dove si muovono loro, lì si trova la “testa pensante” della piccola imprenditoria del Nord, un blocco politicamente decisivo ma economicamente in difficoltà. Dall’altro lato, si consideri invece il caso delle privatizzazioni, specie dei servizi pubblici: l’immenso affare che più interessa le grandi oligarchie finanziarie è stato oggetto di attenzione soprattutto da parte di alcune lobbies interne al Partito democratico. Ed ancora, si guardi al razionamento del credito imposto da Basilea II o alla concorrenza asiatica favorita dall’apertura dei mercati europei. Si tratta di fenomeni che mettono in pericolo soprattutto i bilanci e la sopravvivenza stessa delle piccole imprese. Ed è noto che su queste tematiche Tremonti si è battuto strenuamente, arrivando addirittura a minacciare il protezionismo doganale e l’uscita dall’euro. I vertici del Pd, al contrario, hanno sempre dato prova di sudditanza all’attuale assetto europeo, quali che fossero le implicazioni per i piccoli capitalisti nostrani.

Naturalmente, entrambi i governi hanno dovuto contemperare gli interessi dei gruppi capitalistici ad essi più vicini con le istanze provenienti degli altri aggregati sociali che li sostenevano. Forza Italia e la Lega hanno dovuto tollerare le richieste degli altri partiti della loro coalizione, i cui bacini di consenso sono legati in maggior misura alla spesa pubblica. I Democratici hanno invece dovuto mediare soprattutto con le pur flebili rivendicazioni provenienti dal lavoro dipendente. Si è così venuta a determinare, da parte di ognuno dei due governi, una complicata miscela nella gestione delle variabili chiave della politica economica: in particolare dei salari e del deficit pubblico. Il governo Berlusconi aveva infatti cercato di agire, su queste grandezze, al fine di dar fiato a una piccola imprenditoria sempre più in affanno sul mercato interno e internazionale. Da un lato, esso aveva puntato su una politica di aggressione alle tutele normative e contrattuali dei lavoratori, al fine di determinare un ulteriore schiacciamento delle retribuzioni. Dall’altro lato, esso agiva con elasticità sul versante del disavanzo pubblico, così da abbattere le tasse e lasciar circolare moneta nel tessuto produttivo interno. Questa politica, di repressione dei salari e di espansione del deficit pubblico per abbattere le imposte, puntava soprattutto a sostenere il piccolo capitale nazionale, che per la sua elevata frammentazione soffre in modo particolarmente accentuato la concorrenza estera e da tempo assiste pressoché inerme al prosciugarsi degli accessi al credito e delle dotazioni di liquidità. Una situazione oggettivamente difficile, che non trova più sbocco nella svalutazione, e che si traduce nella uscita dal mercato di centinaia di imprese al giorno.

         Al governo Prodi, e in particolare a una parte del Partito democratico che lo sosteneva, si sono invece molto avvicinati i grandi gruppi finanziari e industriali, non solo i pochi nazionali rimasti ma anche quelli europei e internazionali. In situazioni normali il grande capitale, specialmente finanziario, non soffre di eccessivi problemi di liquidità. Esso quindi non reputa prioritaria una particolare repressione dei salari, né pretende un deficit pubblico che lo foraggi. Anzi, come è noto in questi anni le oligarchie finanziarie hanno chiesto a gran voce un abbattimento del disavanzo statale, con un duplice scopo. In primo luogo la riduzione del disavanzo prosciuga le risorse liquide statali, e quindi rappresenta la condizione necessaria per una ondata ulteriore di privatizzazioni e di relativi affari. Inoltre, la medesima riduzione del deficit comprime la spesa interna, mette in crisi le imprese più piccole e marginali, e ne favorisce quindi la scomparsa oppure l’acquisizione da parte dei gruppi più forti. Trova così delle spiegazioni profonde, potremmo dire “di classe”, la lotta accanita contro l’indebitamento pubblico che la componente maggioritaria del governo ha imposto in questi mesi all’ala sinistra della coalizione. Una lotta che ben poco aveva a che fare con l’abusata litania dei “conti in ordine” (abbiamo più volte ricordato, qui e altrove, che una crisi dei conti pubblici non viene da sé ma può soltanto scaturire da una crisi dei conti esteri) e che è pure costata carissima sul piano dei consensi.

Sulla base di questo schema, possiamo dire insomma che i due governi si sono mossi in linea con gli interessi capitalistici di cui, in misura più o meno prevalente, si erano fatti portatori: il governo Berlusconi attaccando i salari e sostenendo il deficit pubblico; il governo Prodi rimanendo pressoché neutrale sui salari e abbattendo invece il deficit. Tuttavia, entrambe le linee costituivano sotto molti aspetti dei compromessi instabili e insoddisfacenti. Non a caso, nessuna di esse è apparsa in grado di risolvere la tendenza del paese ad accumulare disavanzi esteri, e nessuna è in fondo mai  riuscita a diventare maggioritaria negli assetti di potere nazionali. Si spiega così l’interesse diffuso per un accordo generale sui massimi sistemi, istituzionali e politico-economici. In misura per molti versi indipendente dagli esiti delle prossime elezioni, potrebbe cioè profilarsi un patto “centrista eppure estremo”, finalizzato ad una sintesi tra gli interessi finora contrastanti dei piccoli e dei grandi capitali.

Questa sintesi, è bene chiarirlo, si ripercuoterebbe negativamente sulle code politico-sociali delle due ex-coalizioni. Essa infatti ricadrebbe sulle spalle del Sud, dei beneficiari della spesa pubblica e più in generale della classe lavoratrice, la cui ulteriore spremitura si renderebbe indispensabile alla complicata alleanza inter-capitalistica. L’accordo finirebbe infatti per concretizzarsi  nell’abbattimento non più dei soli salari oppure del solo deficit pubblico, ma di entrambe le variabili contemporaneamente. La destra dovrebbe quindi almeno in parte tagliare i ponti con alcuni bacini di consenso legati alla spesa statale, specialmente meridionali, e i Democratici dovrebbero ulteriormente affrancarsi dagli antichi legami coi lavoratori subordinati. Potremmo così trovarci nel medesimo tempo di fronte a un duplice attacco: al contratto nazionale e ai diritti, in modo da schiacciare i salari e dar fiato alle piccole imprese; e al deficit pubblico, in modo da favorire i grandi interessi che ruotano attorno alle privatizzazioni e alle acquisizioni. In effetti, sul piano macroeconomico l’operazione avrebbe pure una sua logica: comprimere sia i salari che il deficit pubblico significa infatti, con buona probabilità, generare una deflazione così intensa che potrebbe abbattere a tal punto le importazioni da tenere a bada il deficit estero. Ma alla fine i vantaggi di questa politica potrebbero concentrarsi in ben poche mani. La strategia del doppio abbattimento, dei salari e del disavanzo pubblico, potrebbe infatti sovrapporsi a una recessione globale, aggravandone quindi gli effetti interni anziché mitigarli. Da una tale circostanza trarrebbero vantaggio soprattutto i grandi capitali – specie esteri – che in una fase di crisi potrebbero più facilmente procedere con le acquisizioni, mentre molti dei piccoli imprenditori rischierebbero comunque di essere espulsi dal mercato nonostante lo schiacciamento dei salari. A quel punto le basi del patto potrebbero vacillare, e qualcuno potrebbe tornare ad invocare le vecchie soluzioni “eversive” di Tremonti, del protezionismo e dell’uscita dall’euro. Ma soprattutto, questa linea finirebbe per creare tensioni coi gruppi sociali tagliati fin dall’inizio fuori dall’accordo: lavoratori e beneficiari della spesa pubblica. Il rischio di una esplosione delle rivendicazioni si farebbe dunque più forte e diffuso che in passato. I principali beneficiari del patto, tuttavia, non esiterebbero a perseguire i loro obiettivi magari aggredendo la Costituzione e gli spazi residui di democrazia politica e sindacale, e probabilmente si affiderebbero ancor di più al Vaticano per dare uno sbocco disciplinare – fondato sulla restaurazione degli antichi “valori familiari” – alla crisi sociale derivante da un simile indirizzo di politica economica.   

         Insomma, l’intesa tra capitali sembra preludere ad un destino da “colonia”, di etero-direzione capitalistica e di profondo arretramento economico e culturale del paese. Essa quindi appare fragile fin nelle premesse, e darebbe con buona probabilità esiti “emergenziali”, per nulla stabilizzanti.  Di fronte ad essi, la sinistra può restare a guardare e subire passivamente gli eventi, magari augurandosi di ottenere qualche residua concessione negli spazi ancor più angusti dei nuovi assetti di potere. Oppure può interrogarsi sulla direzione da prendere per denunciare i pericoli del funesto patto inter-capitalistico, e per cercare di contrastarlo sfruttandone le crepe interne, e delineando una chiara alternativa politica. Da tempo sosteniamo, al riguardo, che una occasione potrebbe risiedere nella messa in luce del legame materiale tra la riproduzione del profitto e la riproduzione dei rapporti familiari tradizionali. Ognuna è funzionale all’altra, ed entrambe prosperano solo attraverso la repressione delle libertà civili e dei diritti sociali. In questo paese, più che in altri, la “modernizzazione” capitalistica va sempre più intrecciandosi con una strategia pianificata di restaurazione sociale e culturale. E l’eventuale patto tra capitali non farà che accentuare questa simbiosi. Infatti, quanto maggiore sarà lo schiacciamento delle retribuzioni e della spesa pubblica, tanto più diffusa sarà l’esigenza di affidarsi alle reti di protezione e di controllo tradizionali, della Chiesa e della famiglia, per garantire la stabilità degli assetti sociali. Questa tendenza ha una sua razionalità strutturale, ed è quindi ben difficile da sradicare. Essa tuttavia costituisce pure un fattore di tensione interna, che tipicamente esplode nel chiuso delle mura domestiche ma che a date condizioni potrebbe riverberarsi nella società. Da questa tensione, per l’appunto, potrebbe scaturire una occasione politica di allargamento dei consensi a favore della sinistra. Basti pensare alla sudditanza dei maggiori partiti alla linea restauratrice del Vaticano: essa è un indice delle opportunità che potrebbero aprirsi a sinistra esaltando i nodi che legano il conflitto di classe al conflitto di genere e alle altre lotte per l’emancipazione sociale, culturale e sessuale. Contro le finzioni della “modernizzazione” capitalistica, si potrebbe insomma puntare nuovamente all’egemonia sulla concezione della “modernità”. Perché tuttavia questa scommessa non prenda la solita piega fallimentare del movimento radicale d’opinione, perché cioè possa esser condivisa dalle grandi masse, bisognerà innestarla in un programma che rimetta al centro la questione del lavoro e del conflitto di classe. Si tratterebbe, al riguardo, di indicare la strada per un razionale potenziamento delle proprietà e delle funzioni dello Stato, teso ad aggredire il vincolo del deficit estero senza passare per un attacco ai salari, alla spesa pubblica e ai diritti, e che rappresenti un’alternativa al processo di ulteriore indebolimento ed etero-direzione del capitale nazionale. Tecnicamente si può fare, politicamente è da vedere. Molto più che sulle alchimie dei gruppi dirigenti, è sulla capacità di render credibile questa ambiziosa combinazione di obiettivi che si giocheranno le dimensioni future della sinistra e i destini politici del paese.

 

                                                        Emiliano Brancaccio