QUEGLI ASSASSINI DEI LIBERALI
I Piccoli intellettuali di regime sono stati chiamati all’appello, all’avvicinarsi dei 100 anni della rivoluzione russa, per denigrare il più grande avvenimento del XX secolo, con tutto l’odio che hanno in corpo. I soldatini ubbidienti si sono messi in riga, con la penna puntata come un fucile, per crivellare di colpi bassi il cadavere freddo del bolscevismo, dimostrando di essere i soliti vili e prezzolati che si accaniscono su un corpo esanime. Merdosi divoratori di carcasse che si spacciano per sapienti. Nonostante il socialismo irreale e irrealizzato sia fallito da un pezzo, il ricordo di quell’immenso atto rivoluzionario continua a togliere il sonno ai gruppi dominanti e ai loro lacchè laureati, i quali temono quell’esempio storico come la peste. Perdura, infatti, nella testa di questi codardi, l’ammonimento del passato che può ancora investire il futuro rovinando loro la festa esclusiva. In realtà, il vero obiettivo di costoro non è (solo) quanto accaduto in Russia nel 1917, cioè la riuscita di un rovesciamento politico e sociale, ma quello che certi eventi possono ancora ispirare ai giorni nostri. Parlano male delle precedenti generazioni rivoluzionarie per terrorizzare le nuove, affinché non venga loro in mente di contestare l’insuperabile ordine costituito, dopo il quale c’è unicamente l’inciviltà e il disastro. I camaleontici professori liberali hanno piegato la lezione di Lenin ai loro interessi: capitalismo o barbarie, mercato o preistoria.
Ma il capitalismo, oltre ad essere metamorfosato nel tempo, trasfigurandosi in qualcosa diverso dal modello classico inglese, non ha mai avuto nulla a che vedere con le auliche narrazioni dei liberali. Queste tendono a nascondere i concreti rapporti di forza di cui esso si sostanzia, tanto in verticale (i vecchi e secondari conflitti di classe) che in orizzontale (la lotta tra paesi per il dominio mondiale). Nell’epoca in corso sono fondamentali gli scontri tra aree e nazioni più delle battaglie salariali (che restano decisive per il tenore di vita dei ceti subalterni).
Il mercato è l’altro feticcio sul quale i liberali costruiscono le loro favole progressiste. Dove passano le merci non passano gli eserciti. Dove si scambiano i beni prevale la forza dell’interesse e non l’interesse della forza. Il mercato è l’incarnazione dell’idea di libertà, anche se si tratta, quasi esclusivamente, della libera scelta di vendere o comprare qualcosa (e mai qualcuno, come sbagliando dicono gli sciocchi filosofastri dell’alienazione). Lo ha spiegato bene La Grassa che ciò, però, è solo in parte vero. E’ giusto affermare che sul mercato non avviene nessuna coercizione fisica, tuttavia, i soggetti (l’energia lavorativa da essi trasportata)e le merci che circolano in esso sono il risultato di specifici legami sociali, gerarchizzanti e gerarchizzati, sviluppatisi fuori di esso. Il mercato è una superficie liscia che riflette il davanti delle cose e non tutto quello che vi sta dietro o sotto (fate voi). Però il mercato non fornisce nemmeno quelle virtù taumaturgiche di cui straparlano i liberali. Chi agisce secondo le regole del mercato (ormai qualunque formazione sociale nell’era globalizzata) non necessariamente offre ai suoi cittadini un mondo di vita idilliaco, all’insegna dei diritti. Si pensi alle petromonarchie del Golfo, alleate degli Usa. Sono certamente società di mercato ma collettivamente legate a tradizioni semifeudali o ancora più arcaiche. Non si può, comunque, calcare troppo la mano sugli aspetti negativi degli sceiccati perché amici della superpotenza statunitense, vessillo di tutte le libertà (o licenziosità). Prendiamocela allora con Putin perché è più facile, essendo un concorrente geopolitico prima che economico. L’economia di mercato ha dimostrato dinamicità e flessibilità impareggiabili, ha prodotto benessere elevato, di grado superiore ad altri sistemi, ma da essa non deriva il miglioramento antropologico dell’uomo e dei suoi valori comunitari. Da questo punto di vista, i liberali ragionano specularmente a quei pensatori alternativi che poi criticano perché producono distopie totalitarie. Le loro concezioni assolutistiche sono altrettanto perniciose, anzi, lo sono anche di più perché prevalenti in questa fase.
Torniamo allo sfrenato assalto alla carovana bolscevica intrapreso dagli illuminati del liberalismo. Il trucco usato è sempre lo stesso. Il comunismo ha ucciso e torturato milioni di persone. Basta stendere un velo di dimenticanza sugli eccidi dei paesi capitalistici e dei loro drappelli signoreggianti ed il gioco è fatto. Noi siamo i buoni (e smemorati) e loro i cattivi (di cui ci ricordiamo tutto). Eppure, i conti non tornano, esattamente come i morti. Non tornano nemmeno i loro discorsi libertari, che sono appunto discorsi. Nei regimi capitalistici sono più sottili le tecniche utilizzate per guidare il consenso, perlomeno finché è possibile controllare, ignorare o sopire col guanto di velluto le voci fuori dal coro. Se aumentano i rischi anch’essi ricorrono al pugno di ferro, perché l’egemonia o è corazzata di coercizione o è una barzelletta. Sentite cosa scrive Luciano Pellicani su Il Foglio (naturalmente, scaricando le colpe degli eccidi russi sulla dottrina marxista, che ha insito nel suo DNA il disprezzo per l’umanità):
“Aveva, dunque, pianamente ragione Aleksandr Solženicyn quando scriveva che “l’Arcipelago Gulag nacque con le cannonate dell’Aurora e fu inventato per lo sterminio”. E aveva parimenti ragione nel denunciare la Grande Menzogna che si nascondeva dietro “la dittatura del proletariato”; la quale, in realtà, altro non era che l’illimitato potere del Partito bolscevico e della ideologia totalitaria che lo ispirava: una perversa Gnosi che divideva l’umanità in tre grandi famiglie spirituali: quella degli eletti illuminati dalla dottrina del “socialismo scientifico”, quella dei proletari passibili di essere redenti e quella dei borghesi destinati ad essere sterminati in quanto irrimediabilmente corrotti. Questi ultimi, nei discorsi e nelle direttive del carismatico leader del bolscevismo mondiale, erano descritti come “insetti nocivi”, “pulci”, “cimici”, “vampiri”, “ragni velenosi” , “sanguisughe”. Breve: non-uomini che andavano sterminati ricorrendo ai metodi più spietati. Come ha puntualmente documentato Orlando Figes, ogni comando locale della Ceka aveva la sua specialità. A Charkov si usava il giochetto del guanto, consistente nell’ustionare le mani delle vittime con acqua bollente fino a che l’epidermide non si staccava da sola , lasciando i torturati con la carne viva sanguinante e i torturatori con un paio di guanti di pelle umana. A Caricyn si segavano a metà le ossa delle vittime e a Voronez i detenuti venivano denudati e ficcati in barili irti di chiodi all’interno. I cekisti di Armavur usavano una correggia provvista di un bullone che stingevano intorno al cranio dei prigionieri fino a schiacciarlo. A Kiev veniva assicurata sul ventre della vittima una gabbia con dentro un paio di topi che, terrorizzati, cercavano una via di fuga rodendo la pelle e la carne del malcapitato, fino ad arrivargli nell’intestino. A Odessa le vittime venivano incatenate a una tavola e lentamente infilate in un forno o in un serbatoio di acqua bollente. D’inverno era diffuso il metodo di versare acqua sulle vittime, in precedenza denudata, fino a trasformarla in un statua di ghiaccio. In molti comandi della Ceka si preferiva la tortura psicologica , per esempio trascinando i prigionieri contro il muro per fucilazione e poi sparavano a salve. In altri casi la vittima veniva seppellita viva oppure tenuta a lungo in una bara insieme a un cadavere. Altre volte si costringevano i prigionieri ad assistere alla tortura, allo stupro e all’uccisione dei congiunti. E mentre il sadismo di quelli che sono stati definiti “i gesuiti del terrore ” si scatenava in forme raccapriccianti, il loro capo , Feliks Dzeržinskij, descriveva orgogliosamente la Ceka come una “macchina gigantesca attraverso la quale la Storia aveva fatto passare i materiali umani per trasformare l’umanità”. Dal canto suo, uno dei suoi più zelanti collaboratori , Martin Lacis, formulava le queste direttive: “Stiamo sterminando la borghesia come classe . Nel corso delle indagini, non cercate di dimostrare che il soggetto ha detto o fatto qualcosa contro il potere sovietico. Le prime domande che dovete porvi sono: a quale classe appartiene? Qual è la sua origine? Quali sono la sua cultura e la sua professione ? Le risposte a queste domande devono determinare il destino dell’accusato. In ciò risiede il significato e l’essenza del Terrore rosso”. Contrariamente a quello che pensava Rodolfo Mondolfo, la macchina sterminatrice creata da Lenin non fu il prodotto di una cattiva lettura del marxismo, bensì l’applicazione burocratica dei suoi principi. Fra i quali, c’era il Terrore rosso così formulato nell’Indirizzo del Comitato centrale del marzo 1850: “I comunisti debbono adoperarsi affinché l’eccitazione rivoluzionaria immediata non venga di nuovo soffocata subito dopo la vittoria . Al contrario, essi debbono sforzarsi di mantenerla viva quanto più possibile. Ben lungi dall’opporsi ai così detti eccessi , casi di vendetta popolare su persone odiate o su edifici pubblici cui non si connettono altro che ricordi odiosi, non soltanto si devono tollerare tali esempi , ma se ne deve prendere in mano la direzione”. Ancora più brutale la difesa del Terrore rosso che si trova nell’articolo Il panslavismo democratico scritto da Engels: “Alle frasi sentimentali sulla fratellanza offerteci qui a nome delle nazioni più controrivoluzionarie d’Europa, noi rispondiamo che l’odio per i Russi è stato ed è ancora la prima passione rivoluzionaria dei Tedeschi; che dopo al rivoluzione si è aggiunto l’odio per i Cechi e i Croati, e che noi, insieme ai Polacchi e ai Magiari , posiamo salvaguardare la rivoluzione soltanto con il Terrore più risoluto contro quei popoli slavi… Lotta, allora, lotta inesorabile per la vita e per la morte , contro lo slavismo traditore della rivoluzione; lotta di annientamento e di terrorismo senza riguardi – non nell’interesse della Germania, ma nell’interesse della rivoluzione” e tenendo sempre presente che “nella storia non si ottiene nulla senza violenza e senza una ferrea spietatezza”. E neanche si può che gli esiti nichilistici della Rivoluzione bolscevica siano da imputare a un processo degenerativo. Al contrario, essi erano iscritti – come potenzialità attivabili e, di fatto, attivati – nella dottrina marxista. In essa – l’osservazione, acutissima, è di Karl Korsch – “tutto l’accento era posto sull’aspetto negativo, cioè che il capitalismo doveva essere eliminato; anche l’espressione socializzazione dei i mezzi di produzione significava anzitutto nient’altro che la negazione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Socialismo significava anticapitalismo”.
Nel liberalismo, invece, cosa è iscritto? La bomba atomica sul Giappone? I lager pieni di asiatici negli Usa? Il Colonialismo? Lo sterminio degli indiani? Quello dei medio-orientali? L’ecatombe dei tedeschi (Dresda)? Il genocidio dei neri? Quello degli Jugoslavi? Degli Ucraini? Degli Afghani? Le torture di Guantanamo e di Abu Ghraib? Ne abbiamo parlato qui http://www.conflittiestrategie.it/19211-2, ma non insistiamo oltre perché non ci rassegniamo a ridurre la Storia ad un funerale. Abbiamo smesso di sventolare le bandiere rosse non ci metteremo ora a far volteggiare quelle viola degli asini democratici.