QUELLO CHE I MERCATI NON DICONO E GLI ECONOMISTI NON SANNO
Le dimissioni di Oscar Giannino, dopo le rivelazioni di Luigi Zingales sul curriculum taroccato del primo, sono l’ennesima farsa di una triste umanità che pretende di cambiare le cose con una mentalità ristretta e contraffatta.
Non si creda che Giannino, solo perché senza master a Chicago, sia un incompetente. Probabilmente, costui, anche se autodidatta, ne sa quanto e come i graduates delle migliori Università internazionali. Non sta in ciò il vulnus dello spiacevole episodio, anche se il giornalista, improvvisatosi leader di partito, poteva risparmiarsi di distribuire in giro patenti di moralità, accusando gli altri di miserabilità, non avendo la coscienza cristallina.
Il fatto più grave è, piuttosto, l’ossessione con cui questi specialisti cercano impressionare la pubblica opinione con i titoli, le onorificenze e i balletti dottorali, al pari di cani sapienti che saltellano sulle zampe posteriori per attirare l’attenzione. Quando la sostanza è assente, le superfetazioni formali prendono il sopravvento, nel tentativo di rivestire il vuoto in cui fluttuano. E’ come coprire un pozzo con un tappeto, sembra che la superficie sia continua e resistente ma se ci metti il piede caschi di sotto.
Il problema è che gli economisti, così come i filosofi, si sono messi in testa di poter sostituire le scelte e le strategie politiche di una nazione con le loro dottrine parziali, restituendoci un quadro dei processi storici ridotto, irrealistico e sclerotico.
Gli uni e gli altri, che pretendono di circoscrivere gli orizzonti politici di questa tribolata fase epocale alle loro teorie perfette e lamentose, sono la iattura del nostro secolo. In verità, in tutti i tempi sono esistiti questi falsi oracoli che ricevono il compito, dai potenti di turno, di intorbidare le acque e depistare la gente. Non escludo che in giro ce ne siano pure di bravi ed onesti, ma ormai sono una rarità. I più mettono il loro sapere al servizio di tv, salotti e interessati sovvenzionatori, alimentando qualunquismi e conformismi, per ottenere in cambio fama e successo editoriale.
I filosofi li ritroviamo a piagnucolare spesso sulla decadenza dell’uomo, sulla perdita dei valori della civiltà moderna, sull’alienazione collettiva, conseguente al trionfo della tecnica, sullo svuotamento della socialità, a causa del consumismo ecc. ecc.. Secondo questi, per sopravvivere alla dissoluzione dei nostri giorni, dovremmo ritornare ad una origine incontaminata dell’umanità, quando ancora i rapporti comunitari e i desideri collettivi non erano inficiati dall’egoismo, dalla sopraffazione e dalla foia del possesso. Peccato che un’età del genere non sia mai esistita, se non nei loro sogni o inganni (il lettore deciderà come considerarli).
Gli economisti, invece, i quali si pongono sul versante opposto a quello dei filosofi, sebbene in un’ottica antitetico-polare (cioè avversa ma solidale nel fraintendimento), hanno continuamente una ricetta pronta di calcoli e di tautologie contabili per vincere la crisi che, ovviamente, non funzionerà mai, né ora né dopo. Più sbagliano e più pretendono di avere la verità a portata di mano, si sentono incompresi o non adeguatamente ascoltati, nonostante siano ormai gli unici ad avere diritto di parola sui media e nei partiti (che pure contribuiscono a fondare, come ha fatto Giannino).
Il loro cervello vorrebbe spiegare e contenere tutto lo scibile del mondo, ma l’unica cosa che trattengono è un pugno di mosche in mano.
Inutile aspettarsi resipiscenza per tutti gli errori grossolani che commettono, del resto, essendo le loro previsioni simili alle profezie di Nostradamus, sarà sufficiente spostare un po’ in avanti la realizzazione degli eventi da loro vaticinati, oppure, attribuire la responsabilità delle défaillances a chi non ha eseguito alla lettera le loro prescrizioni, per rinfrancarsi della non corrispondenza tra quanto presagito e quanto poi effettivamente avvenuto.
Ve li ricordate, agli inizi degli anni ’90, quando pretendevano che l’Italia privatizzasse ogni settore, dalla sanità, all’industria alimentare, a quella tecnologica, energetica, militare ecc. ecc., per entrare nell’era della globalizzazione e dell’armonia mercatistica?
Ebbero la meglio, i monopoli pubblici furono smantellati, passando nella disponibilità di sedicenti privati coraggiosi e competitors stranieri (che li avevano istruiti e foraggiati), ma senza il raggiungimento degli effetti sbandierati, dall’abbassamento dei prezzi e delle tariffe, alla concorrenza libera e aperta, indispensabile a stimolare l’innovazione.
Anziché ammettere l’abbaglio, piuttosto che confessare la svista, si sono inventati altre formulette magiche per scagionarsi dall’evidente ignoranza ed incompetenza, facendo ricorso a frasi del tipo: “occorreva accompagnare le privatizzazioni con le liberalizzazioni per sortire i risultati auspicati”; il tutto per non chiamare col loro nome le cose, cioè la vergognosa svendita dei tesori di Stato, in ossequio ai loro consigli sballati e nient’affatto disinteressati.
Dunque, costoro fanno molti danni a quell’umanità che vorrebbero curare dai mali dell’universo.
Soprattutto, in quei contesti di crisi come l’Italia, dove, a causa di una classe politica debole ed inetta, il ricatto dagli esperti con la laurea e il pedigree economicistico (e vale per tutti: keynesiani o vonhayekiani, statalisti o liberisti, monetaristi o welfaristi, i quali fanno finta di contraddirsi a vicenda) – la cui “credibilità incredibile” discende direttamente dall’ideologia dominante di cui sono portatori, ma, ancor più, da quelle centrali estere, politicamente predominanti, che si servono di loro per imporre l’unicità delle traiettorie finanziarie ai paesi sottomessi culturalmente e “sovranisticamente” – ha avuto la meglio.
Diciamocelo papale papale, gli economisti assomigliano fin troppo a stregoni che tentano di spaventare i cittadini con schiamazzi voodoo ed il ricorso agli spauracchi materializzati da una immaginazione fervida quanto perversa. Il loro talismano oscuro si chiama mercato, parola con la quale provano a legittimare depredazioni e saccheggi attuati contro nazioni e popolazioni, cosicchè: “occorre tagliare la spesa pubblica perché lo chiede il mercato, bisogna pareggiare i bilanci perché lo pretende il mercato, serve azzerare le pensioni e i servizi essenziali perché lo impone il mercato, ecc. ecc”. Di questo blaterano fornendo spiegazioni incomprensibili.
Insomma, si tratta di un dogma indiscutibile, agitato come uno spettro sotto gli occhi di politici asserviti e uomini comuni troppo impressionabili.
Ma, in fin dei conti, che cos’è questo mercato? E’ il luogo dello scambio dei prodotti e dei fattori produttivi (mezzi di produzione e forza lavoro, anch’essi merci), a determinati prezzi (tramite esborso di denaro), equivalenti in media. Il mercato è l’esito di un percorso storico che si afferma col capitalismo, in una società in cui domina la forma di merce dei beni i quali, essendo esitati privatamente, in regime di separatezza dei produttori dai mezzi di lavoro, vengono socializzati in uno “spazio” così denominato. I mercati (anche quelli finanziari) sono, ovviamente, attraversati dai conflitti tra imprese per prevalere sui concorrenti e per aggiudicarsi fette più vaste degli stessi.
Tuttavia, non sono quei “posti” che cominciano dove finisce l’impresa o, appunto, unicamente quelli dove le imprese lottano per alienare i loro prodotti e servizi (senz’altro anche questo). Il mercato, come scrive il pensatore veneto Gianfranco la Grassa, “è direttamente nell’impresa così come l’impresa è immersa nel mercato: “nelle relazioni tra le sue varie parti (sezioni, dipartimenti, divisioni) che sono di tipo sia più propriamente gerarchico sia caratterizzate da determinate forme di decentramento e flessibilizzazione dell’organizzazione intera; per cui quest’ultima si basa su ordini imperativi, sul coordinamento imposto dall’alto verso il basso, ma anche su rapporti interimprenditoriali [ … ]”.
Stiamo parlando di fasci particolari di rapporti sociali e di conflitti, oggettivi e soggettivi (che precipitano in istituzioni e apparati), di cui è permeata la società nelle sue diverse sfere (economica, politica, ideologica).
Quando i mercati dettano legge lo fanno con la lingua di gruppi usciti trionfatori da guerre finanziarie e commerciali (gruppi sostenuti da drappelli politici statali, i quali si servono dei successi economici delle loro imprese, includendoli in strategie egemoniche più complessive, al fine di condizionare ed influenzare la sovranità altrui) contro reparti corrispondenti di differenti aree geografiche, i quali sono stati sottomessi e costretti ad adeguarsi a certi “equilibri”.
I mercati non parlano ma si fanno sentire con la voce del più forte, sono gli economisti che parlano troppo, col tipico mutismo storico dei fiancheggiatori o dei pasticcioni.