RAGIONE E DIVENIRE (a cura di)

“Il fisico osserva i processi naturali nel luogo dove essi si presentano nella forma più pregnante e meno offuscata da influssi perturbatori, oppure, quando è possibile, fa esperimenti in condizioni tali da garantire lo svolgersi del processo allo stato puro”. (Marx)

“La riflessione sulle forme di vita umana, e quindi anche l’analisi scientifica di esse, prende una strada opposta allo svolgimento reale”. (Marx)

“Il cerchio è una cosa, l’idea del cerchio un’altra, che non ha né centro né circonferenza” (Spinoza)

“Il divenire storico è una cosa; l’idea di questo divenire è un’altra, che non è un divenire…Il dinamismo è una cosa; l’idea del dinamismo un’altra, che essendo una cosa formulabile, comunicabile, cioè identica a se stessa nel momento in cui viene espressa, è al contrario, uno staticismo”. Julien Benda

“Il materialismo dialettico rinnega la ragione anche per il fatto che intende concepire il cambiamento non come una successione di posizioni fisse, nonché infinitamente vicine, ma come una «incessante mobilità» che ignora ogni fissità; o anche, per usare le sue etichette, come un puro «dinamismo», indenne da ogni «staticismo». Anche in questo, per quanto molti debbano negarlo, esso è una ripresa della tesi bergsoniana, che esalta l’abbracciare il movimento in sé, contrapposto a una successione di punti fermi, per quanto vicini, cosa in effetti del tutto diversa. Ora simile atteggiamento decreta la formale abiura della ragione, visto che è proprio della ragione immobilizzare le cose di cui tratta, almeno finché ne tratta, mentre un puro divenire, che per la sua essenza esclude ogni identità con se stesso, può essere oggetto di una adesione mistica. ma non di un’attività razionale (49). Del resto, i nostri «dialettici», nella misura in cui dicono qualcosa, parlano appunto di cose fisse; parlano del sistema patriarcale, del sistema feudale, del sistema capitalistico, del sistema comunista, come di cose simili a se stesse, almeno nella misura in cui ne parlano”. (Julien Benda)

“La scienza è possibile solo a condizione di poter ritagliare nell’insieme del reale sistemi relativamente chiusi e considerare trascurabili tutti i fenomeni che non fanno parte di questi sistemi”. (J. PICARD, visto in J.B.)

“Il Tutto è un’idea da metafisico: non è un’idea da scienziato” (A. DARBON, visto in J.B.).

“Segnalerò ancora altri dogmi con i quali, in nome del «dinamismo», uomini la cui funzione era quella di insegnare la ragione ne esaltano insistentemente la negazione.

1) Il dogma della «ragione elastica» – particolarmente caro a Péguy – che non significa affatto, in questo non sarebbe per nulla originale, una ragione che, enunciando delle affermazioni, non ci tiene mai abbastanza da non ritrattarle a vantaggio di altre più vere, bensì una ragione indenne da ogni affermazione, in quanto l’affermazione è un pensiero limitato a se stesso, una ragione che procede con un pensiero che sia insieme se stesso e altro da sé, di conseguenza essenzialmente «multivoco», indeterminabile, inafferrabile (quello che uno dei suoi fanatici chiama il pensiero «disponibile». Questo dogma è infinitamente vicino all’altro, professato da un filosofo patentato, che vuole che l’essenza della ragione sia l’«ansia», che il dubbio per il saggio non sia uno stato provvisorio, ma essenziale, che, quando il «surrazionalismo», che questo nuovo metodista ha appena descritto, avrà trovato la sua dottrina, possa «essere messo in rapporto con il surrealismo, perché la sensibilità e la ragione “saranno rese entrambe alla loro fluidità”»; è vicino a quegli altri che condannano la «visione statica» della scienza, quella consistente nel «fermarsi ai risultati della scienza», sottintendendo con ciò che la scienza non deve ammettere nessuna posizione fissa, neanche passeggera: quelli che dicono: «Il pensiero è una danza fantasiosa, che si rappresenta tra pose armoniose e figure varie»; quelli che dichiarano, secondo il loro esegeta, che l’esperienza, appena ci afferra, «ci trascina via dall’attimo, “via dalla cognizione, via dal proprio piano forse, via dalla quiete in ogni caso”». Questa ragione «elastica», in verità, non è “affatto” ragione. Un pensiero riconducibile alla ragione è un pensiero rigido (il che non vuol dire semplice) nel senso che pretende di essere aderente a se stesso, non foss’altro nell’attimo in cui è enunciato. Esso è, come è stato detto in maniera eccellente, un pensiero che «deve poter essere confutato», cioè che presenta una posizione definibile, quella che gli avvocati chiamano una «fase di discussione». E senza dubbio molti pensieri razionali sono iniziati con uno stato mentale privo di pensiero definito, con uno stato vago, ma chi conosce questo stato lo conosce per uscirne, altrimenti non enuncia nulla che sia riconducibile alla ragione. «Tutto il mio progetto, dice Cartesio, tendeva solo ad abbandonare le sabbie mobili per trovare la roccia e l’argilla ». Coloro che ordinano alla mente di adottare come carattere non provvisorio ma organico l’elasticità così intesa, la invitano a respingere definitivamente la ragione e, se si spacciano per apostoli di questa, sono puri e semplici impostori. La messa al bando di ciò che è afferrabile è stata pronunciata da un altro filosofo (Alain) quando esorta il suo gregge a respingere il pensiero in quanto è un «massacro d’impressioni», essendo le impressioni, vale a dire stati di coscienza essenzialmente sfuggenti, le cose valide che non si devono «massacrare». Lo stesso fa sostanzialmente il letterato Paul Valéry quando condanna «il fermarsi su un’idea» perché significa «fermarsi su un piano inclinato», allorché scrive: «L’intelletto è il rifiuto indefinito di essere qualsiasi cosa»; «Non esiste intelletto che sia d’accordo con se stesso; non sarebbe più un intelletto»; «Un vero pensiero dura un attimo solo, come il piacere degli amanti»; il che equivale a invitarci a comunicare con la natura metafisica dell’intelletto, cosa che non ha niente a che vedere con il pensiero, il quale ancora una volta ha come sua caratteristica di procedere per articolazioni tangibili e determinabili. Questa posizione si potrebbe chiamare “lo spirito contro il pensiero”. Mi viene obiettato che il letterato qui in causa non si spaccia per un pensatore; che con il suo disprezzo per il pensiero non viene affatto meno alla sua funzione di puro letterato. Pertanto non accuso lui, ma quei filosofi, molti dei quali si proclamano razionalisti (Brunschvicg), che lo presentano chiaramente come un pensatore – non gli affidarono la presidenza delle sedute commemorative del “Discours de la Méthode” e della nascita di Spinoza? – e così coprono con la loro autorità una posizione puramente mistica.

Un esempio impressionante di filosofo «razionalista» che patrocina un pensiero organicamente irrazionale è quello di G. Bachelard, che, nell'”Eau et les Rêves”, presenta il meccanismo psicologico quale appare in Lautréamont, Tristan Tzara, Paul Eluard, Claudel, come se in qualche misura dovesse servire da modello allo studioso. Questo razionalista esalta (p. 70) «la fantasticheria materializzante, quella fantasticheria che sogna la materia» ed «è un “aldilà della fantasticheria delle forme”», essendo questa una cosa ancora troppo statica, troppo intellettuale; egli vuole vedere (p.p. 9-10) l’origine di una conoscenza oggettiva delle cose in una disposizione di spirito che si preoccupa soprattutto di intrecciare «desideri e sogni» e si sforza di «diventare» razionalista partendo da una conoscenza «per immagini» quale egli la trova appunto in quei letterati. Confessiamo di non riuscire a capire come la conoscenza dell’acqua alla maniera di Claudel o di Paul Eluard, per prendere gli esempi che gli stanno a cuore, condurrà alla conoscenza che consiste nel pensare che questa sostanza è fatta d’idrogeno e d’ossigeno. Gli faremo presente la constatazione di Delacroix: «L’intelligenza è un fatto primario. “I vari tentativi di deduzione dell’intelligenza sono tutti falliti”». Accenniamo peraltro qui a un fenomeno oggi diffusissimo tra i filosofi, nonché tra gli scienziati: tener conto di affermazioni di letterati in voga, puramente brillanti e gratuite com’è nel loro diritto farle, ma di cui c’è da chiedersi che cosa c’entrino con speculazioni con pretese di serietà. Questo è l’effetto di uno snobismo letterario, la cui adozione da parte di uomini cosiddetti di pensiero non rappresenta esattamente un segno di fedeltà alla loro legge.

I nostri dinamisti, per squalificare il pensiero sia pure per pochissimo tempo identico a se stesso e quindi razionale, sostengono che esso è incapace di cogliere le cose nella loro complessità, nella loro infinità, nella loro totalità. E’ quanto esprimono quando dichiarano (Bachelard) che se la prendono con il razionalismo «ottuso», che intendono «aprire» il razionalismo. Un simile pensiero, bisogna dirlo, non è affatto condannato a conoscere le cose soltanto nel loro semplicismo, è capacissimo di spiegarle nella loro complessità; ma lo fa restando identico a se stesso, secondo i costumi del razionale. Ora è questo che i nostri profeti non ammettono. La verità è che questi nuovi «razionalisti» respingono il razionalismo non ottuso quanto quello ottuso, solo per il fatto di essere razionalismo. In quanto all’infinità delle cose, alla loro totalità – che il materialismo dialettico pretende di raggiungere, poiché pretende di raggiungere la «realtà» e questa è «totale» – il razionalismo, in effetti, non la dà, per la buona ragione che, per definizione, si applica a un oggetto “limitato”, di cui del resto sa benissimo come la limitazione che ne fa sia arbitraria. «La scienza, dice molto giustamente uno dei suoi analisti, è possibile solo a condizione di poter ritagliare nell’insieme del reale sistemi relativamente chiusi e considerare trascurabili tutti i fenomeni che non fanno parte di questi sistemi». «Il Tutto, dichiara perfettamente un altro, è “un’idea da metafisico: non è un’idea da scienziato”». Ancora una volta. coloro da cui ci si aspettava che insegnassero agli uomini il rispetto della ragione “e che pretendono di farlo”, predicano loro una posizione mistica.

Un’accusa simile a quella precedente contro il pensiero stabilizzato è di procedere solo per affermazioni «grossolanamente ottuse», con una fermezza «priva di sfumature»: Taine ne sarebbe il simbolo. Come se caratteristica del buon intelletto non fosse appunto la fermezza nella sfumatura; come se le sfumature che il fisico moderno stabilisce, per esempio, nell’idea di massa: l’idea di quantità di materia, di capacità d’impulso, di quoziente della forza mediante l’accelerazione, di coefficiente della legge di attrazione universale, non fossero idee perfettamente identiche a se stesse e per niente «mobili». Come se non si potesse dire lo stesso, sul terreno psicologico, delle sfumature di Stendhal, di Proust, di Joyce, nonché di Taine. Ma la consegna di quei chierici è di votare al disprezzo degli uomini il pensiero razionale, con tutti i mezzi.

Ecco un bell’esempio della loro volontà d’identificare il pensiero che procede per sfumature con un pensiero mobile. «Quando Einstein, scrive uno di loro, ci suggerisce di correggere e di complicare le linee del newtonianismo, troppo semplici e troppo schematiche per adattarsi esattamente al reale, rafforza nel filosofo la convinzione che era effettivamente utile far passare la critica kantiana da uno stato ‘cristallino’ a uno stato ‘colloidale’». E un altro: «Cercare la sfumatura, anche a rischio di sfiorare la contraddizione, questo è il mezzo per afferrare la realtà». Notiamo tuttavia la timidezza di quello «sfiorare». Barbari che si vergognano della loro barbarie.

I nostri dinamisti infine condannano ancora il pensiero stabile perché esso si crederebbe definitivo. Le idee di un vero scienziato, dice il nostro filosofo dell'”Encyclopédie”, «non devono mai essere considerate definitive o statiche», e per lui evidentemente questi ultimi due aggettivi sono sinonimi. Come se ciò che è statico non potesse sapere di essere provvisorio senza peraltro diventare affatto di una mobilità inafferrabile. Nello stesso spirito Brunschvicg paragona certi scienziati contemporanei a un fotografo che, con la testa nascosta sotto il drappo nero, gridasse alla natura: «Attenzione! sto scattando; non muoversi più!» Si cerchi dov’è oggi, tra gli uomini che pensano per idee stabili, uno così semplificatore. Chi vuole annegare il proprio cane, dice che è arrabbiato.

2) Il dogma del «perpetuo divenire della scienza», che non significa, neppure questo, che la scienza debba procedere per successione di stati fissi di cui nessuno definitivo, cosa che nessuno contesta, ma per ininterrotto mutamento, sul modello della «durata», essenziale, sembra, allo spirito dello scienziato. Questa concezione è quella di molti filosofi attuali quando riconducono il divenire della scienza al fatto che essa deve modellarsi sul reale in quanto questo è incessante cambiamento, «riafferrare la realtà nella mobilità che ne è l’essenza». C’è da chiedersi che cosa sarebbero stati un Louis de Broglie o un Einstein se la loro mente fosse stata esclusivamente incessante mobilità e rifiuto di adottare qualsiasi posizione stabile. Anche in questo i nostri chierici esaltano un atteggiamento puramente passionale, che ripudia ogni ragione.

3) Il dogma del concetto «fluido» (Bergson, Le Roy), che non vuol dire il richiamo a un concetto sempre più differenziato, sempre più adattato alla complessità del reale, ma “l’assenza di concetto”, visto che il concetto, per quanto differenziato, sarà sempre, per il fatto di essere concetto, una cosa «rigida», incapace, per essenza, di sposare il reale nella sua mobilità. E’ una posizione che non dovrebbe essere rimproverata a un Bergson o a un Le Roy, i quali, soprattutto il secondo, si presentano chiaramente come mistici. Ma che dire del «razionalista» Brunschvicg che, dall’alto della sua cattedra, annuncia a una gioventù china sotto il suo verbo un razionalismo «senza concetti»?

4) Il dogma secondo cui le tesi della nuova fisica segnerebbero la fine dei princìpi razionali. Questa tesi non è stata sostenuta solo da letterati e uomini di mondo, razza alla quale non è richiesto sangue freddo e che non detiene alcuna autorità nella fattispecie, ma da filosofi, nonché da scienziati in questo campo educatori patentati. E’ necessario ricordare che, se la nuova fisica ha notevolmente raffinato i principi razionali “nella loro applicazione”, non li ha affatto abbandonati “nella loro natura”? che, per quanto riguarda il principio di causalità, Brunschvicg si è sentito dire, in celebri sedute della Società di Filosofia, che con il suo libro sulla “causalità fisica e l’esperienza umana” aveva dimostrato come questo principio si complica sempre più nell’uso che ne fa la scienza moderna, ma in nessun modo un cataclisma della sua essenza? che, riguardo al determinismo, un Einstein e un De Broglie dichiarano che, se la nuova fisica li costringe a correggere quanto per la loro mentalità c’era di troppo assoluto in questa idea, tuttavia nella sostanza non la respingono affatto, poiché appare loro la base di ogni atteggiamento veramente scientifico? «Non si insiste abbastanza, scrive un commentatore, del resto pieno di ammirazione per questa nuova scienza, sul fatto che la fisica indeterministica riposa sulla logica classica. Non si è mai pensato di introdurre un’imprecisione intrinseca nella logica, neppure nel nostro pensiero puro. Una simile supposizione falserebbe tutti i nostri ragionamenti». Quando L. De Broglie dichiara che lo studio della fisica nucleare potrebbe scontrarsi un giorno con i limiti di comprensione della nostra mente, vuol dire che l’uomo potrebbe essere condotto a rinunciare alla conoscenza fondata sui princìpi razionali, non che sarebbe in grado di farsi un «nuovo» spirito scientifico, il quale ignorasse quei principi. Ancora una volta ritroviamo, in certi educatori, che invitano i giovani ad avvolgere la ragione nel sudario in cui dormono gli dei morti, la volontà di insegnare ai giovani l’abbandono della ragione.

5) La tesi secondo cui la ragione non ammette alcun elemento fisso attraverso la storia e deve cambiare “non di comportamento ma di natura”, sotto l’azione dell’esperienza; è la tesi delle «età dell’Intelligenza» di Brunschvicg, che vuole insomma che la ragione sia sottomessa all’esperienza e alle sue vicissitudini e da queste determinata. Ogni lettore un po’ avveduto ha già risposto che tale tesi è insostenibile; che la ragione, se è derivata dall’esperienza all’epoca in cui l’uomo, in lotta con l’ambiente, gettava le basi della propria natura, le è diventata trascendente quanto all’interpretazione; in altri termini, l’esperienza, nella misura in cui non è una semplice constatazione ma un arricchimento dello spirito, implica la preesistenza della ragione. «L’esperienza, è stato detto (Meyerson), è utile all’uomo solo a patto che questi ragioni» e ancora, non meno giustamente: «Non si può assolutamente imparare niente dall’esperienza se non si è stati organizzati dalla natura in maniera tale da unire il soggetto all’attributo, la causa all’effetto». Aggiungiamo che se l’esperienza credesse di provare che la ragione fallisce così come l’esercitiamo, “lo farebbe valendosene e distruggerebbe di colpo tutta la sua prova”. La ragione, dice con acume Renouvier, non proverà mai con la ragione che la ragione è giusta. Non proverà neanche che è sbagliata. Ma quello che vogliamo puntualizzare qui è la smania del chierico moderno nel negare l’esistenza di qualsiasi valore assoluto, mentre è appunto suo compito richiamarsi a tali valori, e, come fa il laico, volere che stiano tutti sul piano dell’agitazione”. (Julien Benda)

Queste citazioni ci portano qui:

“…il nostro pensiero procede teoricamente all’analisi (cinematica) del movimento, non credo proprio riesca ad immergersi (e quasi immedesimarsi) nel “flusso reale” come pensa (e spera, a mio avviso invano) Bergson (non a caso all’origine del movimentismo spontaneo anarchico alla Sorel, che è reale utopia negativa per ogni azione rivoluzionaria”. (G. La Grassa)

“Accettata la necessità, per l’analisi del movimento, della posizione soltanto teorica di una priorità, questa deve essere, secondo la mia opinione, lo squilibrio incessante del reale, del mondo cioè in cui siamo inseriti e agiamo. Di conseguenza, la nostra azione, se segue le più corrette modalità di svolgimento, inizia con il tentativo di stabilizzare il campo in cui si svolge. Se semplicemente pensiamo un “terreno” che continua a muoversi sotto i nostri piedi, difficilmente riusciremo a combinare qualcosa. Per tale motivo, in ogni movimento alla fin fine – malgrado tante chiacchiere sulla capacità (particolarmente sviluppata negli orientali; questo mito coltivato da tutti i mistici) di immergersi nel flusso del divenire – prevale chi ha forze organizzate; ma le forze sono organizzate proprio per agire in un campo “strutturato”, quindi stabilizzato, cioè fissato in certe sue coordinate (di supposto equilibrio). Ovviamente, tenendo conto che vi sono situazioni e periodi di tempo in cui la variabilità delle coordinate in oggetto è accentuata (come in un campo di battaglia) e i “generali”/strateghi devono essere rapidi nel mutarle con riferimento al campo e alla disposizione delle forze in campo. Uno dei mezzi di stabilizzazione è precisamente la teoria, che fissa strutture relazionali tra elementi “ritagliati” analiticamente, anche se il reale non ha struttura, va semmai pensato quale insieme di flussi e vibrazioni. Altro metodo di stabilizzazione è l’istituzionalizzazione, la creazione di apparati retti da date regole di comportamento dei corpi sociali che vi svolgono attività, e da strutture relazionali (gerarchiche) interne a questi corpi. Teoria, istituzionalizzazione, costruzione di apparati, ecc. tendono, per forza d’inerzia, alla conservazione dell’esistente; quindi si trasformano presto in strumenti di quest’ultima. Esse vengono addirittura rafforzate con successive aggiunte. Gli Istituti e apparati esistenti vengono specialmente difesi da apparati di coercizione e repressione di ogni tentativo di modificazione, tentativo compiuto per adeguarli allo squilibrio incessante che ha condotto verso altri assetti dei rapporti sociali. D’altra parte, l’adeguamento toglierebbe il potere ai gruppi decisori della “realtà” precedente e lo assegnerebbe a nuovi gruppi. La teoria crea una cintura (o, forse meglio, nervatura) ideologica per obnubilare la coscienza dell’inevitabile corrosione cui è sottoposta la sua rappresentazione strutturale (e stabilizzante) della realtà, che non è altro invece se non il flusso delle spinte squilibranti; la teoria cerca cioè, testardamente, di attestarsi sui vecchi supposti equilibri”. (G. La Grassa)