REALPOLITIK
Le sedicenti "rivoluzioni popolari" che hanno sconvolto gran parte del mondo arabo – e che si accingono a raggiungere ben altri lidi – di cui l'aggressione alla Libia è la naturale appendice hanno ribadito con vigore l'importanza capitale assunta dal controllo dello spazio geografico e del corredo di risorse energetiche ad esso connesso in questa particolare fase storica, segnata da una conflittualità diffusa destinata a ridisegnare gli equilibri mondiali e a determinare nuovi rapporti di forza internazionali. Le potenze che hanno affermato il proprio rango nei secoli alternando conquiste territoriali ad esplorazioni marittime sono attualmente protagoniste di una escalation bellicosa dettata dall'esigenza di valicare o di attestarsi su di una soglia di potere sufficiente a garantir loro un minimo grado di autonomia nazionale. Gli equilibri internazionali che scaturiranno da questa bagarre riveleranno indubbiamente l'ascesa di determinate forze e il parallelo scompaginamento dei piani di tutte le altre, relegate talvolta in uno stato di subordinazione o comunque condannate a versare in condizioni peggiori rispetto a quella attualmente vigente. Niente di nuovo, poiché le mutazioni di fase sono di una “consuetudine” che si ripete ciclicamente nella Storia. Quando Spagna, Francia ed Inghilterra si ersero al rango di Stati nazionali riuscirono ad imporsi sulle inadeguate Repubbliche Marinare sparse per l'Italia erodendo costantemente il loro potere. Quando l'Inghilterra fu scossa dalla Rivoluzione Industriale vennero gettate le basi effettive del predominio imperiale britannico su tutte le altre potenze. Quando Friedrich List riuscì a far circolare in patria le grandi lezioni imparate in America e le piccole regioni prussiane si decisero a metter da parte i dissidi sancendo l'unione doganale tedesca (Zollverein), la Germania assurse ben presto allo status di potenza mondiale di primo livello. Quando Abraham Lincoln venne eletto presidente si fece immediatamente garante degli interessi del nord industriale e manifatturiero e stroncò risolutamente le resistenze degli stati secessionisti del sud, dominati da ricchissime aristocrazie agricole legate a doppio filo all'ex madrepatria britannica che rifornivano, generosissimamente retribuite, di materiali tessili. Le "alte motivazioni" che avrebbero mosso la mano di Lincoln segnalate da "autorevoli" intellettuali politicamente corretti non sono altro che diversivi per il pubblico, in quanto l'abolizione della schiavitù rispondeva semplicemente alle esigenze del modello produttivo che il nord intendeva estendere a tutto il paese, e non alle velleità morali di qualche illuminato personaggio. L'insegnamento che si trae da queste lezioni (e dalla Guerra di Secessione Americana in particolare) è che la politica, come Otto Von Bismarck ben sapeva, non è una scienza ma un'arte che premia scaltrezza, intelligenza strategica, risolutezza (anche brutale) nell'applicare i progetti e capacità di individuare e tracciare linee di amicizia rispondenti agli interessi nazionali. E tali insegnamenti risultano particolarmente preziosi in un momento di incertezza come quello attuale, nell'affrontare il quale la realpolitik si rivela l'unico metodo di indagine affidabile. Esso suggerisce di guardare al passato, scandagliando con obiettività la mente dei grandi uomini di stato del passato, da Robespierre a De Gaulle, da Bismarck ad Adenauer, da Lenin a Stalin, al fine di comprendere le preoccupazioni che agitavano i loro pensieri. I paesi da loro guidati non erano né buoni né cattivi, non miravano alla virtù ma al predominio, il loro operato non si conformava alle tavole della legge morale kantiana ma alle stringenti e dolorose regole della sopravvivenza. Per barcamenarsi nel mare burrascoso delle relazioni internazionali i loro timonieri fecero affidamento su poche ma indiscutibili stelle polari; essi mantennero la sopravvivenza della nazione come fine supremo, erano ben coscienti dell'anarchia e del caos che governava la società internazionale, del fatto che dietro il gergo rassicurante delle diplomazie si celava l'ombra lunga degli arsenali che rendeva pericolosa la situazione, dell'imprevedibilità degli avversari e dell'interesse quale movente sostanziale di ogni mossa politica. Non è difficile rendersi conto del fatto che si tratti di concetti messi all'indice in periodi in cui i sepolcri imbiancati si ergono a inquisitori e il moralismo è il comune metro di giudizio adottato per approcciare alla politica, e ciò spiega il ricorso ossessivo alle più assurde argomentazioni di vocazione umanitaria e politicamente corretta adoperate per giustificare quelle che sono bieche e unilaterali imprese imperiali. Come se all'interno delle sale dei bottoni si snocciolino i fondamenti dell'ottimismo liberale e positivista ottocentesco e non si parli invece il più schietto e brutale linguaggio del potere. L’affaire libico ne è l’esempio più lampante.