Referendum sull’acqua – Qualche utile precisazione di Red
Nel luglio 2010 è uscito su questo blog un mio post sull’argomento REFERENDUM SULL’ACQUA in cui mi soffermavo sulla falsità tutta ideologica della rappresentazione di “sinistra” dello scontro in questione (SI o NO all’abrogazione di parti del DL N.112/2008 e DL N.152/2006) come fosse uno scontro fra “privato che fa profitti sulla salute della gente” contro “pubblico che garantisce i beni comuni”.
Visto l’avvicinarsi del referendum, mi piace riprendere l’argomento, mettendo in luce altri aspetti della contesa. Mi perdonerà il prof. G.La Grassa del gretto economicismo che permea questo post, che non ha altra pretesa se non contribuire a togliere quello spesso strato di nebbia che la questione della gestione del servizio idrico ha assunto in Italia.
Partiamo da un dato grezzo: la famiglia media italiana spende circa 150€/anno per i 200 mc di acqua potabile che consuma all’anno (con forti oscillazioni fra città diverse) cui si aggiungono altri 180€/anno per l’acqua minerale di cui siamo fra i primi consumatori al mondo. Questo è il primo, e per molti unico, punto di vista da cui la famiglia media vede quindi la questione acqua “bene comune”. Se il secondo consumo si può teoricamente comprimere (il sottoscritto fa parte di quel 2% di famiglie italiane il cui frigorifero non vede acqua minerale), il primo è invece abbastanza rigido.
Dal punto di vista delle imprese, private o pubbliche, che operano nel settore la questione si pone invece nei seguenti termini: circa 3,6 miliardi di € di fatturato annuo per chi vende acqua minerale e circa 4 miliardi di € di fatturato annuo per le ex-municipalizzate. Non proprio bruscolini. Con la sottolineatura che mentre il primo mercato è (teoricamente) contendibile, il secondo è un monopolio naturale e quindi fa gola a tutti.
Questa è la questione vera in ballo, già da tempo, fin dalle prime finanziarie di Prodi che mettevano la gestione diretta e in-house dei servizi pubblici di interesse economico generale, come modalità d’eccezione per la gestione, che di norma doveva essere affidata attraverso gara ad evidenza pubblica. Come recita una direttiva europea che l’Italia come le altre nazioni europee non può violare.
La vittoria del SI ai due referendum non cambierebbe in nulla questo dato di fatto né i termini del conflitto competitivo tra operatori pubblici e aziende private.
Dei due articoli oggetto di abrogazione al prossimo referendum, il primo elimina le condizioni a cui la gestione diretta ed in-house è consentita dalla legge dello Stato. Queste condizioni sono aggiuntive e restrittive rispetto alla direttiva UE, ma la Corte Costituzionale le ha già giudicate pienamente legittime e costituzionalmente corrette. La sentenza N.325/2010 della CC ha infatti respinto tutti i ricorsi intentati dalle regioni rosse e ha stabilito che:
1) La gestione del servizio idrico integrato è materia riferibile all’ambito della tutela della concorrenza e dell’ambiente e non della salute;
2) Lo Stato ha tutto il diritto di normare la modalità di gestione del servizio e così facendonon viola le competenze regionali (non è materia concorrente);
3) il servizio idrico non costituisce una funzione fondamentale degli enti locali;
Tre sonore bocciature a chi fa della Costituzione la sua religione civile, che dovrebbero bastare per vergognarsi e nascondersi. La sentenza pertanto si chiudeva chiedendo l’abrogazione delle leggi regionali (Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna, Puglia – il gotha della sinistra regionale) dichiarate incostituzionali.
Un po’ diverso il caso del secondo quesito che chiede l’abrogazione delle seguenti parole: “dell’adeguatezza della remunerazione del capitale”. Si capisce la funzione di “drappo rosso” che tali parole svolgono per i “tori” fondamentalisti del conflitto capitale-lavoro, residuo svuotato dell’operaismo sessantottino.
In realtà la legge non fa che applicare il metodo del price cap nella determinazione della tariffa, un metodo universalmente applicato che in poche parole autorizza aumenti della tariffa in linea con l’indice generali dei prezzi, ridotto di un fattore che tiene conto degli aumenti di produttività aziendale e aumentato di un fattore che tiene conto della remunerazione degli investimenti fatti.
Abolire quelle parole potrà soddisfare il palato facile di chi ormai solo di parole-simbolo sopravvive, ma nella realtà dei fatti non avrà altra conseguenza che bloccare qualsiasi incentivo agli investimenti di manutenzione delle reti. Anche da parte delle aziende pubbliche più grandi, che sono tutte delle SpA e devono rendere conto agli azionisti del loro operato. Insomma un voto del tutto inutile in quanto ai suoi effetti pratici, con un netto peggioramento della situazione, quanto a trasparenza della gestione del servizio idrico integrato, se prevalessero i SI e che serve pertanto unicamente a riconfermare la logora dialettica politica italiana degli ultimi vent’anni fra berlusconiani e antiberlusconiani.
Red/16.6.2011