RETI, SVILUPPO ECONOMICO, BLOCCHI SOCIALI IN ITALIA
Si rifanno vive le privatizzazioni nel dibattito politico italiano. Nei dieci punti della cura da cavallo prospettata da Zingales e Perotti sul Sole 24 ore [http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-07-09/pareggio-bilancio-coraggio-agire-081032.shtml?uuid=AaodlSmD&fromSearch] sono valutate 170 miliardi di euro, cui aggiungere 50 miliardi dalla cessione del patrimonio delle Fondazioni bancarie definite dagli autori nientemeno che “la manomorta dei nostri tempi”. Nella manovra approvata dal Parlamento in realtà non se ne parla, ma ciò significa solo che la questione è troppo importante per lasciarla alla decisione del Capo dello Stato e di Tremonti, oggi i veri capi dell’esecutivo “italiano”, cioè il governo reale del 52.o stato d’America. Mentre è relativamente facile sfilare un migliaio di euro dalle tasche degli italiani per mantenere flussi crescenti di spesa pubblica che fanno comodo trasversalmente a tutta la classe politica, che ormai esplicitamente si dichiara del tutto non-responsabile, rispetto alle decisioni prese dalla “comunità internazionale”, un po’ più difficile è mettersi d’accordo su come liquidare il patrimonio aziendale strategico. L’ipotesi che facciamo in questo articolo è che ciò che residua della Tangentopoli 1 degli anni novanta e che dovrebbe essere svolto dalla Tangentopoli 2 di domani, mette in discussione assetti di potere, non limitati alle aziende oggetto della privatizzazione, ma anche altri, essenziali assetti dentro la finanza e la politica italiana e per questa ragione dovrà per forza di cosa anche delineare un blocco sociale di stabilizzazione della lunga transizione italiana verso la servitù completa agli USA[3]. Per fare questo evidentemente occorre qualcosa di più complesso che non una nuova convocazione sul Britannia.
Il mazzo di carte con cui giocare è stato già distribuito, con le operazioni della magistratura prima contro Berlusconi (a torto o a ragione, per noi oggettivamente a ragione, visto come il rappresentante degli interessi strategici delle aziende pubbliche) e la sua “azzardata” politica estera, poi contro Finmeccanica ed infine contro ENI (IRAQ, Tempa Rossa). Anche i referendum sulle municipalizzate, vinte dai “comunisti”, hanno in realtà ottenuto l’effetto voluto dal piano B dei protagonisti filo-atlantici: una nobile gara a contraddirne il risultato in nome della salvezza nazionale. Lo slogan da ammannire ai cittadini ed agli amministratori locali timidi è già pronto: “gestire in comune sarebbe bello ma non possiamo permettercelo”.
Il tavolo da gioco è invece stato preparato a puntino dai proprietari della sala, gli stessi che hanno giocato da protagonisti l’aggressione alla Libia, come illustrato in numerosi interventi su questo blog. La recente dichiarazione del governo libico sulla rottura di qualsiasi rapporto futuro con l’ENI, non fa che prendere atto delle disposizioni stabilite dalla sua reale controparte, nel tentativo di trattare il cessate il fuoco e poi il destino della, o delle, nuove nazioni da costituire in quell’area. Debolissima mi sembra la reazione di Francesco Forte sul Giornale [http://www.ilgiornale.it/esteri/i_frutti_guerra_rais_caccia_leni/15-07-2011/articolo-id=534997-page=0-comments=1] che nel tentativo di minimizzare l’effetto dirompente della dichiarazione libica, la attribuisce ad un governo non più legittimato, affidandosi così mani e piedi alle decisioni dei “ribelli” di recente riconosciuti da Frattini, sappiamo bene in ossequio a chi ed a che cosa. Se a questo sommiamo gli interessanti scampoli del dibattito al Parlamento francese pubblicati dal sito Aurora, in relazione all’approvazione del prolungamento della missione militare (dove alcuni deputati hanno esplicitamente dato mandato al governo di ottenere condizioni di miglior favore per le aziende francesi nella ricostruzione del paese), si delinea nettamente un contesto internazionale di assoluta limitazione della sfera d’influenza economica (il perimetro strategico a livello aziendale) per i due campioni italiani summenzionati e, di conseguenza, per tutti i settori industriali nazionali. Stiamo parlando dell’approvvigionamento energetico per il sistema industriale italiano, della produzione impiantistica, della produzione militare (capacità-possibilità di condurre guerre e di difendere la nazione), della produzione di sistemi di tele e radio-comunicazione e di infrastrutture di trasporto, della capacità-possibilità di creare innovazione e di trasmetterla agli altri settori produttivi e di venderla nel mercato globale.
Senza possibilità di proiezione autonoma internazionale, se non subordinata e complementare agli interessi dei dominanti negli USA, le reti nazionali, energetiche e non, cambiano di valore. Per spiegarci meglio prendiamo il caso del destino del gasdotto ENI Greenstream dalla Libia alla Sicilia nel dopoguerra, citato nell’articolo di F. Forte. E’ evidente che, sia nel caso di gestione ENI (caso probabile) sia nel caso di gestione diversa (caso meno probabile) esso avrà importanza nella misura in cui è collegato alla rete europea, trasformando l’Italia in un “hub” (uno snodo) tutto interno all’Europa ed asservito a strategie euro-atlantiche (opposte a quelle euro-asiatiche). La rete di distribuzione italiana non sarebbe più la destinazione finale, con qualche appendice utile alla ri-esportazione, ma all’opposto sarebbe un’appendice subordinata allo scopo principale dell’importazione da parte di altri paesi europei. Insomma l’Italia come un’Ucraina del mediterraneo. Si capiscono bene le perplessità della Gazprom rispetto alla residua affidabilità della partnership con l’ENI ridimensionata (Southstream) e di converso i segnali che il Presidente russo (ma-non-troppo) manda ai veri decisori per garantirsi una parte nella “commedia” del dopoguerra libico (in tutta evidenza da giocarsi però su un altro tavolo da gioco).
Se le reti nazionali (l’esempio del Greenstream potrebbe essere esteso a tutte le reti: telefoniche, ferroviarie, autostradali, ecc.) devono diventare segmenti di reti disegnate per altri scopi, anche la loro gestione cambia di prospettiva.
Al momento queste reti sono gestite dalle stesse aziende proprietarie, tramite un ramo d’azienda dedicato in ossequio alle direttive comunitarie sulla garanzia della concorrenza. Un passo ulteriore, delineato da Tremonti nel passato, riproposto su basi un po’ diverse da Geronzi, prima del suo siluramento e del riemergere dei suoi guai giudiziari, e riproposto dalle Fondazioni bancarie oggi, ne propone il passaggio alla CdP (Cassa Depositi e Prestiti). Ricordiamo che un primo passo in questa direzione è stato già fatto con la cessione di una parte dei gasdotti europei dell’ENI, sempre in ossequio ai desiderata euro-atlantici. In effetti ciò avrebbe senso, ne discutemmo anche su questo blog, nella misura in cui la CdP Spa (70% del Tesoro e 30% delle Fondazioni bancarie, formalmente onlus private) ha come missione aziendale, fra l’altro, “le opere, gli impianti, le reti e le dotazioni destinate alla fornitura di servizi pubblici, a condizioni di mercato, operando insieme ad altre istituzioni finanziarie istituzionali”[1]. Non a torto questa mossa viene vista come un’intrusione della politica nell’economia e quindi criticata dai “neo-liberisti” di destra e di sinistra. Con l’appoggio di tutta, ma proprio tutta, la stampa e l’intellettualità di complemento (in testa come abbiamo visto il Sole 24Ore della Confindustria). Senza minimamente individuare/porsi il problema di quale soggetto politico eventualmente potrebbe/dovrebbe porsi tale obiettivo, con quali idee-guide sul ruolo italiano sulla scacchiere internazionale, con quale ideologia di supporto, con quali alleanze sociali, con quali risorse economiche e finanziarie, e quindi porsi il compito di iniziare a costruire tutto ciò.
Da notare poi che la proposta di inserire la CdP tra le privatizzazioni è particolarmente significativa per la connessione che la CdP ha istituzionalmente con il risparmio postale e con i fondi dei fondi tipo F2I e Fondazione del Sud. Insieme all’esproprio dei patrimoni delle Fondazioni sarebbe una mossa da KO per le prospettive di sviluppo economico autonomo nazionale.
Perché le Fondazioni bancarie sarebbero la “manomorta dei tempi moderni”? L’intreccio ancora esistente fra Fondazioni e banche funziona da drappo rosso per evocare il rischio delle “nomine di stampo politico”, del “management asservito ai partiti” e via cantando. Senza minimamente riflettere sul significato e sulla valenza delle numerose leggi che oggi impediscono per lo meno la degenerazione di un tale intreccio (legge Amato, legge Ciampi, legge Tremonti, sentenza CC No.300 e 301). E soprattutto senza rilevare che nella stretta finanziaria in corso, sono le Fondazioni ad aver permesso la discreta tenuta delle banche italiane permettendo le necessarie ricapitalizzazioni, senza interferire più che tanto sulla loro gestione.
Insomma solo una discussione ad un altro livello e con altri protagonisti, politici e non economisti, farebbe la differenza fra un esito “progressivo” del proposto passaggio ed un esito “parassitario”.
Veniamo al cotèe sociale. Se le reti nazionali rimanessero dentro una strategia di sviluppo nazionale, ovviamente con i suoi corollari internazionali, nessuno qui propone l’autarchia, allora avrebbe spazio una politica sociale che potrebbe tentare di portare a sintesi il dualismo sociale storicamente esistente in Italia dal dopoguerra, e messo in luce da GLG [2] fra “avanguardie” operaie (ex-contadini del Sud) e “ceti medi produttivi-artigiani” (ex-contadini del Nord). Dentro una strategia di sviluppo nazionale, imperniata sui campioni nazionali, con solidi appoggi in alcune nazioni europee ed asiatiche per uno scambio fra materie prime (da importare in Italia) e tecnologie, impianti, macchine per la produzione, beni, da esportare in mercati crescenti.
Al contrario lo smembramento delle reti fra pezzi di interesse trans-nazionale e pezzi dedicati alla dimensione nazionale, ma a questo punto anche regionale (le reti interne alla nazione diventerebbero facilmente di “interesse concorrente” fra Regioni e Stato), indurrebbe la promozione di ceti medi parassitari, non interessati allo sviluppo di potenza, ma alla tranquilla gestione economica complementare ad altri interessi internazionali, da cui dipenderebbero per la produzione del reddito di cui vivere. Insomma la moltiplicazione delle multi-utilities, delle tariffe assistite, delle agevolazioni, dei finanziamenti a pioggia per sostenere “imprese” insostenibili (come quelle che inceneriscono i rifiuti o vendono energia solare), delle lobbies a contorno di tutto questo apparato “industriale”, delle continue emergenze artificialmente indotte per farci pagare il costo relativo. “Questo sostanziale fallimento delle classi decisive nel sistema produttivo [lascerebbe] spazio alle bande grande-capitalistiche del tipo più parassitario, di carattere vetero-industriale e finanziario (iugulatorio, vessatorio)” [2]. Gli junker prussiani ed i cotonieri americani come ci ricorda sempre GLG.
E’ bene notare che questa seconda strada è un bel pezzo avanti, i suoi promotori hanno piazzato pedine affidabili nelle posizioni chiave (Draghi, Tremonti, Marchionne, Prodi si riaffaccia ….) . Non solo, ma anche sul piano politico la Lega Nord, che pure poteva essere accreditata di un destino di livello nazionale partecipe di un disegno complessivo di sviluppo non asservito, oggi è stata completamente normalizzata in vista della sua definitiva cooptazione nel disegno euro-atlantico. Un disegno che “rende i nostri piccoli imprenditori i lavoranti per conto di chi ha una più ampia visione dei problemi mondiali (il nord Europa) pur essendo comunque, come tutti gli europei, ormai succube della predominanza centrale sempre più pericolosa per le nostre sorti di medio – lungo periodo” [2]. A cui si affiancherebbero ovviamente i ceti medi fedeli alla “sinistra” interessati a mantenere la loro egemonia sulle aziende municipalizzate, private o pubbliche che siano (l’entente cordiale con la Lega Nord su questo terreno è già operante da tempo) e su tutto il cosiddetto “privato sociale” o “terzo settore” che vive di spesa pubblica e di erogazioni istituzionali delle Fondazioni, a questo punto ridotte ad enti filantropici con l’unica missione di far fruttare, con una gestione sana e prudente, l’immenso patrimonio derivante dalle privatizzazioni (Philanthropication through Privatization – vedi [1]). Rimane da cooptare definitivamente l’”avanguardia” operaia residua, ma non dovrebbe costituire un grosso problema visto che CGIL/CISL/UIL e magistratura sono lì apposta e l’”estrema sinistra” è stata cucinata a dovere nel periodo bertinottiano della sua esistenza.
Per prendere forma definitivamente, lo scenario sopra delineato manca di tasselli fondamentali come appunto la privatizzazione delle reti strategiche, la derubricazione dei campioni nazionali a componenti aziendali degli interessi euro-atlantici e la “normalizzazione” delle Fondazioni bancarie alla loro specifica funzione di enti no-profit, con l’abbandono definitivo di qualsiasi velleità di sviluppo autonomo nazionale.
Non poco ma neanche troppo, una volta che si fosse cementata la necessaria “coesione nazionale” che i moderni Savoia e badogliani auspicano un giorno sì e l’altro anche in vista di un nuovo Parlamento e di un Governo asserviti ai bollettini delle agenzie di rating.
Concludo con le parole di Guido Salerno Aletta [Milano Finanza – mercoledì 13.7.2011]: “Se è vero che la crisi del 2008 non è stata la fine del mondo, ma di “un” mondo, è necessario adeguare alla nuova realtà il modo di lavorare di tutti i soggetti economici: le agenzie di rating e la speculazione si sono evolute rapidamente. Occorre comprendere il loro nuovo modello di business per adeguare gli strumenti di disciplina del mercato: il rischio che corriamo è sempre elevatissimo, ma ha un sego opposto. Prima della crisi ogni attività era tendenzialmente investment grade, oggi tutto è potenzialmente a rischio default. Prima si facevano i soldi e le valutazioni del rating facendo lievitare il valore, ora il pericolo. Soprattutto quello di farci gettare via, con l’acqua sporca, anche il bambino”.
La traduzione finanziaria della strategia del caos liquido dei nuovi dominanti obamiani degli USA.
Opere di rif.to o citate:
(1) Da Frankestein a principe azzurro – F. Corsico e P. Messa – Marsilio 2011
(2) Un succinto panorama storico – di giellegi – Conflitti e Strategie – 5.5.2011
(3) Le Fondazioni bancarie italiane – G. Duchini – Conflitti e Strategie – 1/6/2011