REVIVAL “COLORATO” IN IRAN? (di G. Gabellini)
Approfitto di questo articolo di Gabellini sull'Iran per aggiungere una breve premessa rispetto a quanto sta accadendo nell'area medio-orientale, ed in particolare in Palestina dopo l’avvio delle finte trattative di “pace” tra ANP e sionisti. Innanzitutto, la cosiddetta ripresa del dialogo è solo l'ennesima sceneggiata arbitrata dagli statunitensi per mettere fuori gioco Hamas, non disponibile ad accettare la svendita del proprio popolo (al quale viene negato il diritto di eleggere i propri rappresentanti) e del suolo patrio, sventrato e umiliato da invasori colonialisti che s’insediano come le cavallette in una terra non loro. Questi primi approcci tra le parti sono illegittimi poichè la nazione palestinese non ha dato nessun mandato ad Abu Mazen per avviare trattative in nome di chicchessia. Il Presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha messo l’accento su quest’ultimo aspetto, chiarendo che la questione palestinese non potrà mai essere un affare privato tra americani, israeliani e membri dell’ANP in quanto riguarda i popoli di tutta la regione: "Su cosa vogliono negoziare? Chi rappresentano? Di cosa parleranno? Chi gli ha dato il diritto di svendere un pezzo di Palestina? I popoli della regione e della Palestina non gli permetteranno di cedere un centimetro si terra palestinese al nemico". Parole sacrosante che però hanno fatto dire al portavoce di Abu Mazen che il leader persiano è un despota insediatosi al potere coll’inganno, la violenza e i brogli elettorali, dimostrando di sposare con ciò, totalmente e pienamente, la lacera propaganda occidentale ampiamente smentita dai fatti e dall’enorme consenso di cui Ahmadinejad gode in patria. Questi quisling che s’innalzano a campioni di responsabilità e buon senso sono dei miseri burattini pronti a sacrificare la propria gente per essere adulati e premiati dalla Comunità Internazionale dalla quale sperano di ottenere riconoscimento e sostegno economico. Ci auguriamo che facciano la fine che spetta ai vili di ogni razza e credo ideologico.[G.P.]
Che l'Iran si situi in una posizione nevralgica per gli equilibri geostrategici è cosa nota. Tracciato fondamentale della Via della Seta fino a qualche secolo fa, terzo esportatore mondiale di petrolio e secondo quanto a riserve di gas al giorno d'oggi. Alla luce di ciò, e della sua vitale importanza per la realizzazione del gasdotto “Nabucco” (fortemente voluto dagli americani),risulta del tutto normale che una nazione simile costituisca l'oggetto del desiderio tanto per l'unica superpotenza rimasta dal collasso dell'Unione Sovietica, quanto per le molte potenze regionali, emergenti (Cina e India) e non (blocco europeo e Russia), che stanno ridisegnando, in direzione multipolare, l'assetto geopolitico del mondo. Come è ben noto, il presidente iraniano democraticamente rieletto Mahmoud Ahmadinejad è stato duramente contestato da una porzione ben definita di suoi concittadini, i quali hanno messo in radicale discussione i risultati delle elezioni dello scorso 12 giugno 2009. In un primo momento giunsero in Italia per lo più versioni alquanto unilaterali dei (presunti) fatti, mentre solo una sparutissima minoranza di commentatori, sentendo puzza di bruciato, si astenne dal prendere una posizione precisa, in attesa che la faccenda si facesse più chiara. L'impressione che si trattasse di una delle tante "rivoluzioni colorate" direttamente sostenute da Washington, anche in relazione allo slogan dei manifestanti, scritto esplicitamente in lingua inglese ("Where is my vote?"), era infatti assai forte. Al di là, però, di queste ipotesi, occorre in primo luogo concentrarsi su ciò che si sa ed è rigorosamente documentato. Chi si ostina a sostenere l'assoluta genuinità della contestazione e la totale spontaneità dei manifestanti, il che significherebbe che l'Iran non abbia subito, e non stia tuttora subendo pesantissime pressioni e vere e proprie ingerenze "esterne" non fa altro che mistificare la realtà. Sono anni che il governo iraniano lancia queste accuse nei confronti dell'amministrazione Bush prima e di quella guidata da Obama ora, in ciò sostenuto da alcuni tra i migliori giornalisti in circolazione, sia europei (Thierry Meyssan) che americani (Seymour Hersh, Webster Tarpley e William Engdahl). Non è nemmeno credibile che i moti iraniani siano stati integralmente organizzati, finanziati e condotti da burattinai statunitensi che agivano da dietro le quinte. L'interpretazione più equilibrata degli eventi pare quella che attribuisce la responsabilità degli eventi tanto ad alcuni strati che compongono parte della complessa e variegata struttura sociale iraniana, quanto ai fattori di destabilizzazione direttamente riconducibili agli Stati Uniti. Ogni "rivoluzione colorata" è infatti il frutto di una commistione tra frizioni interne al paese e "fomentazioni" esterne. L'Iran è teatro di scontro tra due compagini, una facente capo alla "Guida Suprema" Ali Khamenei e al presidente Mahmoud Ahmadinejad, mentre l'atra al ricchissimo e potentissimo Ayatollah Akbar Rafsanjani e ai suoi due alleati principali, l'Ayatollah Mohammad Khatami e l'ex candidato presidente Hossein Mousavi. L'ostilità tra le due fazioni è scattata all'indomani della sorprendente sconfitta di Rafsanjani, a beneficio di Ahmadinejad, alle elezioni presidenziali del 2005, ed è deflagrata dopo la riconferma elettorale di quest'ultimo, a discapito di Mousavi, del 12 giugno 2009, con l'escalation di violenza che ha comportato. Il bacino di consenso che ruota attorno al clan Rafsanjani – Khatami – Mousavi è formato in prevalenza da giovani universitari e dai ceti alti della borghesia iraniana, economicamente danneggiata dalla politica di Ahmadinejad, molto attento alle fasce più deboli della popolazione. Ovviamente questa sintetica panoramica degli schieramenti politici pecca di schematicità, ma non tradisce il quadro generale che ha decretato la schiacciante vittoria di Ahmadinejad, che vanta un consenso popolare di gran lunga maggiore rispetto ai suoi oppositori. Dal canto loro, gli Stati Uniti auspicano da tempo un "cambio della guardia" a Teheran. Il loro cavallo di battaglia "ufficiale", spendibile per trovare consensi in Occidente, è impedire che l'Iran si doti di un arsenale nucleare. L'Iran ha avviato un processo di arricchimento dell'uranio a scopi civili, in ottemperanza agli accordi presi al momento della ratifica del TNP (Trattato di Non Proliferazione nucleare). Nell' ottobre dello scorso anno ha accettato ispezioni "senza limiti" dell'AIEA (Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica) alla centrale nucleare di Qom. L’economia iraniana è inoltre interamente agganciata alle esportazioni di idrocarburi ed è proprio in forza di questa considerazione che va letta la decisione di Teheran di intraprendere una politica energetica di ampio respiro, volta a differenziare le proprie fonti di approvvigionamento. In ogni caso, i tanti “sinistri” e “destri” che si sono rifiutati di prendere in considerazione questa reale possibilità, farebbero meglio a focalizzare l’attenzione su un piccolo paese situato a pochissimi chilometri dai confini iraniani, il cui nome è Israele, che non ha firmato il TNP e che dispone illegalmente (qualcuno si ricorda di Mordechai Vanunu?) di alcune centinaia di testate nucleari che tiene debitamente puntate ve
rso Teheran. Nessun grido di allarme si è levato nei confronti di questo fatto, né è stato lanciato alcun utimatum al governo di Tel Haviv. Ma al di là di questo evidente e vergognoso doppiopesismo, è ovvio che gli interessi di Washington verso la Persia sono dovuti ad altri fattori. Facciamo un passo indietro. La cacciata dello Shah Reza Pahlavi e l'instaurazione del regime islamico guidato dall'Ayatollah Ruhollah Khomeini ha sancito la radicale messa in discussione dei rapporti di rapina che gli Stati Uniti avevano tenuto fino a quel momento con l'Iran. Solo con la presidenza Rafsanjani prima e con Khatami poi i due paesi si erano decisamente riavvicinati. L'elezione di Ahmadinejad nel 2005 ha gravemente danneggiato questo lungo processo di "appeasement" e la sua riconferma del 2009 l'ha definitivamente cancellato. Ora Rafsanjani e la sua fazione, dopo lo schiaffo ricevuto alle ultime elezioni, sapendo di non poter contare sull'appoggio della popolazione, hanno radicalizzato lo scontro, ed è chiaro che le continue sommosse, con rispettivi spargimenti di sangue da ambo le parti, mirano a un rovesciamento violento del governo guidato da Ahmadinejad. Il problema è che Ahmadinejad gode ancora di un appoggio popolare molto ampio, cosa che rende impossibile qualsiasi colpo di spugna. Proprio in questi giorni è salita agli onori della cronaca la vicenda dell’adultera e corresponsabile dell’omicidio del marito condannata alla lapidazione; si tratta di un evidentissimo caso mediatico, che fa il paio con quello relativo all’altro martire, quella “Neda” su cui tanto si chiacchierato, montato ad arte per gettare discredito sul primo ministro Ahmadinejad esulla Guida Suprema Khamenei. Gli inguaribili “umanitaristi” a corrente alternata e geometria variabile che affollano le strade di Parigi e Roma, farebbero bene a riflettere sul silenzio assordante che riservano invece alle esecuzioni in piazza che un paese fedelissimo agli USA come l’Arabia Saudita dispone regolarmente. E’ palese che si tratta delle solite, miserabili manovre destabilizzanti, che con ogni probabilità si dissolveranno senza lasciar traccia. Resta comunque vivo il progetto di destabilizzazione del paese che, qualora andasse in porto, innescherebbe un'onda d'urto di potenza tale da rimettere in discussione l'eterno gioco di forze globale, che vede nel Medio Oriente, e nell'Iran in particolare, un terreno di scontro primario.