RIFLESSIONI D’AGOSTO

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E’ sempre difficile trovare il punto d’avvio di certe riflessioni. Scegliamone uno a caso e vediamo cosa ne seguirà. In questi ultimi due giorni mi sono rivisto due vecchi (inizio anni ’60) film di Olmi (nemmeno il mio regista preferito): Il posto e I fidanzati. Comunque, a mio avviso, due gioiellini, di fronte ai quali i “capolavori” della cinematografia italiana odierna (mettiamo Il Divo, a mio avviso non buono, e Gomorra, mediocre sempre secondo me) mi fanno letteralmente “ridere”. Non è però di questo che voglio parlare. Il vero fatto è che ho provato una grande nostalgia di quei tempi, in fondo l’inizio dell’epoca nata con il cosiddetto boom, il vero spartiacque nella società italiana; perché il profondo mutamento non si è prodotto con la seconda guerra mondiale – a parte le distruzioni e macerie, la vita nell’Italia anni ’50 era piuttosto simile a quella anni ’30 – bensì tra il 1959 e il 1963, all’incirca.
Per un momento, trascinato non semplicemente dai film, ma dalla mia memoria – che, a volte devo dire per mia disgrazia, resta ancora troppo vivida e limpida – mi sono trovato a rimpiangere quel periodo e a pensare che era decisamente migliore dei tempi odierni. In realtà, per quanto mi riguarda personalmente, non ho dubbi che fosse migliore, e non avevo bisogno dei due film per esserne convinto; tuttavia l’errore consiste nel dare valutazioni in termini di meglio o di peggio. E’ atteggiamento sbagliato. Ha senso protestare perché si fa di tutto per far perdere la memoria storica alle successive generazioni; questo però riguarda ogni aspetto del passato, che viene o ossificato (dai nostalgici “duri e puri”) o bellamente dimenticato da chi non vuol sapere altro che il presente. Atteggiamenti del genere sono entrambi riprovevoli poiché è necessario ricordare, ma rammentando anche il passare del tempo. Ciò che non ha in effetti senso è la valutazione del meglio o del peggio. Bisogna invece prestare attenzione allo scorrimento del tempo: non in quanto vuoto scatolone, contenente ben disposti in successione i vari eventi, bensì quale trasformazione irreversibile delle situazioni.
Da alcuni decenni, alcuni “filosofi” (non filosofi ma “filosofi”, dei banaloni che fingono di pensare “profondo”) ci hanno rotto le scatole con la fine delle ideologie, la più falsa delle ideologie, costruita apposta per lo stupido “ceto medio” della nuova formazione sociale capitalistica. Come in tutte le scemenze propalate dai “filosofi”, c’è sempre un granello di verità in certe affermazioni. E’ passato il tempo delle vecchie lotte e contrapposizioni. Ci accorgiamo pure, con il senno di poi, che esse erano spesso frutto di fraintendimenti notevoli. Tuttavia, questo accade sempre; sempre, con il senno di poi, ci accorgiamo che abbiamo condotto delle lotte in nome di “ideali” largamente illusori, immaginando di vivere processi di un certo tipo e che poi ci appaiono in una luce del tutto diversa. Il problema è rendersene conto, pur quando non sia immediata la possibilità di individuare la nuova rotta da seguire; in genere deve passare un’intera epoca storica. La “digestione” degli errori commessi è tanto più lunga quanto più quegli errori sono di grande rilevanza, quanto più riguardano masse di persone assai consistenti.
Naturalmente, malgrado tutte le “dichiarazioni di morte presunta”, nulla passa mai completamente, poiché rivive in nuove forme, che però ad un certo punto assumono effettivamente significati profondamente diversi. Quel “certo punto” è quanto mai problematico; alcuni credono al genio del grande pensatore, che finalmente scodella la “nuova verità” balenata nel suo cervellone. Altri, fra cui il sottoscritto, pensano che occorra la maturazione di nuove situazioni “oggettive” (nuove fasi storiche) poiché sono queste ultime a condizionare il “genio”. E’ dunque indispensabile un lungo lavorio di gestazione, di disgregazione del vecchio e di accumulazione del nuovo, prima di vere precipitazioni, pur sempre pervase di ideologia, che riavviano nuove lotte e distruzioni/ricostruzioni fino a relativi assestamenti. Nelle epoche di transizione, di lavorio del potenzialmente nuovo, vi sono tuttavia i ritardatari (“il morto che afferra il vivo”), gli avanguardisti ad oltranza (il nuovo in forma prematuramente putrefatta), insomma una congerie di individui e gruppi (più o meno larghi) che hanno funzioni sostanzialmente negative, di ostacolo.
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Oggi, credo si possa dire con una certa tranquillità che sono in stato di decomposizione (ma fino a quando produrranno effetti?) le varie ideologie del liberismo, dello statalismo, del comunismo, del nazionalismo (nel senso del culto della Nazione) e tante altre varianti. Non finiranno, si ripresenteranno, ma dovranno subire effettive radicali mutazioni (non di facciata) per produrre ancora effetti di “avanzamento” e non di “freno”. Per il momento, nulla del genere è all’orizzonte; la funzione di freno mi sembra al momento l’unica attiva.
3. In un’epoca del genere – che è l’inizio di una nuova, “mescolata e confusa” certo con la fine della vecchia – ha senso agitarsi per costituire nuovi gruppetti di azione politica, destinati a disgregarsi, a ricostituirsi per poi finire ancora nei ripostigli, dove la “gente comune” li caccia con il suo sostanziale buon senso, perché avverte che si tratta di persone con qualche “disturbo mentale” e da non prendere molto sul serio? Si ripete spesso che “la prova del budino si fa mangiandolo”, che “finora ci si è limitati ad interpretare il mondo mentre è necessario trasformarlo” (adattamento di una ben nota “tesi di Marx su Feuerbach”). Insomma, bisognerebbe ammettere il primato della “prassi”, ecc. ecc.
Ci mancherebbe altro, con questo caldo, addentrarsi in simili dotte discussioni. In linea di principio, si può accettare che un’ininterrotta interpretazione del mondo – sempre interrogando e mai azzardando una risposta definitiva, da applicare per almeno provarla – è pur sempre un’ottima ginnastica mentale, quindi non superflua né ineffettuale, che tuttavia, per avere infine utilità (pragmatica), deve una qualche volta sfociare in qualche soluzione tentata poiché anche “sbagliando, s’impara” (detto popolare di buon senso). Tuttavia, è sempre possibile, pur in assenza di opportuni ingredienti, preparare il “budino che si deve provare mangiandolo”? Se la dispensa continua ad essere piena di “materie prime” vecchie, scadute, con cui abbiamo già preparato budini indigesti che ci hanno provocato un’infinità di coliche intestinali, è sensato apprestarne di nuovi con la vana speranza di un esito diverso? Ed è ragionevole sostituire tali materiali scaduti con altri “nuovi”, solo frutto di allucinazioni dovute allo stomaco vuoto e alla fame lancinante che ci attanaglia?
Domande retoriche. E’ semplicemente stupido agire in questo modo. O si pensa che in fondo la precedente epoca non si è chiusa, che semplicemente non si è trovata qualche “correzione” da apportare alle vecchie prassi per ottenere infine l’inevitabile successo – e questa è a mio avviso una “dolce fuga” nella follia – oppure si prende atto che quelle prassi sono finite “in coda di pesce”. Anzi, deve essere riconosciuto, senza più alcun dubbio in proposito, che esse meritavano una simile fine, poiché erano frutto di una fallita conoscenza di quella vecchia epoca.
I processi del 1848 chiarirono la “realtà” della Rivoluzione del 1789, scoppiata per motivi molto concreti ma rivestita di grandi ideali di “libertà, eguaglianza, fratellanza”, puramente illusori come sempre sono gli ideali delle rivoluzioni (comunque indispensabili; è superficiale e “volgare” la credenza che ci si muova per sole “ragioni di pancia”). In quei moti si “condensò” (e perfezionò rendendosi più visibile) la nuova separazione tra dominanti e dominati, interpretata da Marx con la divisione tra classe borghese e classe operaia. Ho chiarito più volte, e non mi ripeto, come il fondatore della corrente di pensiero che da lui prende il nome prevedesse una certa dinamica della società, da lui analizzata sotto la categoria di modo di produzione capitalistico, comportante – non in tempi biblici – lo sbocco nel comunismo. Su tale previsione si fondò il “movimento operaio” dell’occidente capitalistico avanzato, progressivamente egemonizzato dal “socialismo riformista” (e, alla fine di un lungo processo, non più marxista).
In una fase di mezzo, caratterizzata dal declino del dominio centrale inglese e dallo scoppio del più acuto conflitto policentrico (“imperialistico”), Lenin apportò una notevole revisione delle previsioni marxiane, essendo però convinto del contrario, di esserne il più fedele interprete, con ciò dimostrando ancora una volta la potenza dell’ideologia, tramite la quale si dà impulso a radicali cambiamenti storici, che infine si rivelano del tutto diversi da quelli preconizzati e perseguiti con “falsa coscienza” (e dunque con del tutto parziale e imperfetta conoscenza della “realtà”, sempre distorta e velata da quella ideologia). Lenin capì che gli operai dovevano allearsi con i contadini per realizzare
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la rivoluzione in Russia; tuttavia suppose che fossero i primi, del tutto minoritari, a guidare i secondi. E fu così in un certo senso. Ma che cosa fu questo “in un certo senso”? Semplicemente il fatto che il partito – dichiarato (ecco ancora la distorsione ideologica) mera avanguardia della classe operaia, sommersa invece, in tutte le rivoluzioni “comuniste” (presunte tali) del ‘900, dalla marea dei contadini – era un’organizzazione permeata dall’ideologia mutuata dal marxismo, ma decisamente preparata in fatto di tattica e strategia della presa del potere in date congiunture e con dati movimenti delle masse (senza i quali, sia chiaro, non si inventa alcuna rivoluzione!).
4. La “scoperta” di Lenin fu l’entrata in azione delle “masse d’oriente” (in un certo senso, una sorta di prosecuzione del sollevamento contadino in Russia), di cui individuò la causa principale proprio negli sconvolgimenti provocati dalla lotta tra dominanti; ma soprattutto in campo internazionale, dove assumeva il carattere dello scontro tra potenze per la redistribuzione delle sfere d’influenza sul piano mondiale. Lenin parlò chiaramente di masse d’oriente “socialmente arretrate” ma “politicamente” assai più avanzate del “moderno” (culturalmente) movimento operaio occidentale orientato in linea maggioritaria dalla socialdemocrazia. S’innesta qui anche la nota considerazione sull’Emiro dell’Afghanistan, ecc. Sottolineo che Lenin non espatriò, durante la persecuzione e clandestinità dei bolscevichi, in Afghanistan o in Oriente; se ne andò in Svizzera e a Parigi (fino agli anni ’70 del secolo scorso, era ancora targata con il suo nome la poltroncina, alla Coupole di Montparnasse, dove soleva sedersi, leggere e studiare). Lenin non aveva predisposizioni culturali per l’Oriente (definito “arretrato” da tale punto di vista), non si chinava pietoso verso i diseredati e oppressi dal colonialismo. Faceva un discorso chiaramente politico, di cui sono oggi incapaci tutti i pauperisti e miserabilisti, pieni di “afflati morali”, ma che vivono generalmente comodi e tranquilli qui in occidente, con tutti i vantaggi della aborrita (a parole) “civiltà tecnologica”.
Quella lezione di Lenin, appresa sempre con il solito grano salis, mi sembra il lascito più moderno, ancora vitale, della vecchia stagione rivoluzionaria. E’ però necessario disfarsi della specifica articolazione della teoria marxiana. Non della sua problematica, non dell’impostazione generale legata all’analisi oggettiva e scientifica – e proprio per questo sempre soggetta ad errori e revisioni radicali – della “realtà” indagata; una realtà tra virgolette, non essendo mai effettivamente il “rispecchiamento” del mondo così com’esso è, soltanto invece un’ipotesi interpretativa che guida la pratica (ivi compresa quella teorica) in direzioni spesso temporaneamente proficue. Progressivamente, però, la pratica diviene sterile, quella ipotesi mette così sempre più in luce i suoi aspetti errati, e soltanto nuove ipotesi e indagini sono in grado di ridare vigore alla teoria e all’azione; un processo che non avrà fine, salvo ovviamente che per i dogmatici, per i credenti di certe “scienze” trasformate in dottrine com’è avvenuto per il marxismo da molti e molti decenni.
Il marxismo è figlio del 1848 e del capitalismo borghese dominato dall’Inghilterra. Il declino inglese, già abbondantemente iniziato mentre Marx era ancora in vita, mise in difficoltà quest’ultimo, deluso nelle sue aspettative circa l’imminente conclusione del (supposto) processo provocato dalla dinamica da lui pensata tramite il concetto di modo di produzione capitalistico. Era anche malato, ma credo non abbia rielaborato i materiali lasciati in manoscritto (che disgrazia infinita aver voluto “resuscitarli”) perché non riusciva più a capire che cosa realmente stesse accadendo, non potendo rendersi conto, con quegli occhiali teorici, che stava avvenendo una mutazione nella formazione sociale, pur sempre con caratteristiche capitalistiche, differenti però da quelle prettamente borghesi. Non gliene facciamo certamente una colpa, visto che tutti i suoi “figli” – e ancora oggi – continuano a non capire come il mondo capitalistico, di cui egli fornì la teoria, sia così tanto mutato; non soltanto negli aspetti di superficie, nei nuovi costumi o nuove tecnologie, ecc., poiché si è proprio trasformata quella “realtà” che la scienza deve nuovamente rappresentarsi con diversi orientamenti teorici e altre categorie concettuali.
Lenin, genio rivoluzionario, abbandonò nei fatti (nella pratica pratica) quel marxismo ossificato; e tuttavia, nella pratica teorica, pretese di esserne il custode contro il revisionismo kautskiano, vero erede invece della più perfetta ortodossia dottrinale, che ha poi continuato ad imperversare in
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una putrefazione crescente, da cui la maggior parte dei marxisti si sono infine allontanati per andare tuttavia ancora più indietro di Marx, in una deriva teorica (e ideologica) ancora senza fine. Lenin, pienamente conscio dello “sviluppo capitalistico in Russia”, non si fece incantare dalle sciocchezze – che stanchi “filosofi” incoscienti ripescano oggi, tanto per far marcire ulteriormente i resti delle “glorie passate” – relative alla “comunità contadina” russa. Con piena consapevolezza pratica, pur nascosta in teoria dall’ormai pesante ideologia marxista, comprese che il grande movimento delle masse contadine – innescato dallo scontro pienamente policentrico tra dominanti (ripeto: sul piano mondiale e quindi nella forma del conflitto tra potenze) che stava trasformando il capitalismo borghese in “qualcosa d’altro” – apriva possibilità rivoluzionarie, da cogliersi con precisa consapevolezza strategica e tattica della contingenza e dunque con una granitica organizzazione capace di agire con radicalità in tale contesto. Se al posto di Lenin ci fosse stato qualche demente “moltitudinario”, ne sarebbe seguito un massacro totale del movimento russo, ancora peggiore di quello del 1905 (ma è solo una battuta per ricordare quanti meschini imbroglioni sono oggi in campo in questo povero occidente).
5. Lenin tuttavia, con gli occhiali teorici che aveva inforcato, non poteva rendersi conto che il conflitto tra dominanti – da lui ben compreso per quanto concerne le occasioni rivoluzionarie create negli “anelli deboli”, altra intuizione penetrante derivata dalla tesi dello sviluppo ineguale dei vari capitalismi, logica conseguenza dei ribaltamenti provocati dall’antagonismo policentrico – era effetto e causa di un mutamento maggiore della stessa formazione capitalistica. La lotta tra potenze per le sfere di influenza si accompagnava alla trasformazione delle strutture sociali interne delle stesse – sempre con la classe operaia, presunta avanguardia degli oppressi, in posizione subordinata agli interessi dei propri specifici dominanti – ponendo almeno due (o forse anche tre, considerando pure il Giappone) alternative in merito alla sostituzione del declinante capitalismo borghese inglese con altra formazione sociale, tutto sommato da definirsi ancora capitalistica. Sappiamo adesso chi vinse, quale altra formazione sociale si sia imposta. L’incomprensione iniziale che fu dello stesso Lenin – una volta mutato il quadro internazionale, con la fine (1945) dello scontro policentrico tra potenze capitalistiche e l’affermazione del “modello americano” – ha però condotto ad una storia del tutto diversa da quella immaginata (e sperata) dai comunisti, i quali ancora oggi non sanno come raccapezzarsi nel bailamme che ne è nato.
Dobbiamo abbandonarli – del resto sono ormai dei sognatori ad occhi aperti, anche nelle loro varianti comunitariste o altre (e poi, per la verità, sognatori o qualcosa di peggiore?) – e così pure il “marxismo”. Non Marx e Lenin, nelle lezioni che ci diedero con riferimento all’epoca in cui vissero; va messo da parte quel “marxismo” (“aristotelico”, cioè “antigalileiano”) che è il rifugio di chi più non pensa, vuol solo o agire o sognare o illudere alcuni gonzi per fini abietti di potere personale (miserabili, piccole “mance” concesse dai dominanti). E’ indispensabile ripartire fissando alcuni punti chiave, una volta che il “socialismo reale” si è tolto di mezzo da solo; adesso diventa, fra l’altro, più comprensibile come sia crollato su se stesso, senza uno scontro come quello che alcuni prevedevano si sarebbe verificato tra “imperialismo” e “socialimperialismo” (mai il sottoscritto lo pensò, ma non certo in base ad una comprensione come quella oggi possibile, almeno per iniziali intuizioni).
La formazione detta socialista compì in realtà una accelerata accumulazione originaria sulla base di “strutture” tipiche della sfera economica capitalistica, impresa e mercato, compresse e soffocate ma non invece trasformate dal potere centrale convinto di “costruire il socialismo” – prima con metodi duri e violenti, poi attenuati, infine supposti democratici con Gorbaciov che invece liquidò il tutto, ecc. – come comprese nella sostanza Bettelheim, pur cedendo poi anche lui all’illusione gorbacioviana (ancora una volta, posso dire che non vi “cascai”, ma senza afferrare compiutamente la natura dei processi in corso, del resto tuttora largamente incompresi). Cadute le “strutture” della sfera politico-ideologica presunta “socialista” (in quanto pretesa “prima fase” del comunismo), e passato un periodo (non credo ancora del tutto superato) di burrascoso arretramento e poi assestamento,
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ci avviamo adesso in direzione di una nuova formazione sociale, tutta da studiare – del resto è ancora da conoscere a fondo quella dei funzionari del capitale, la “sostituta” del capitalismo borghese – che sarà un intreccio particolare tra “strutture” economiche di tipo capitalistico e quelle soprattutto politiche di tipo dirigistico.
Una formazione che gli ideologi dei dominanti “occidentali” pensano transitoria, perché sono ancora convinti di poter imporre, con le finanziate “rivoluzioni colorate”, la loro “democrazia”; seguita nelle nuove formazioni da minoranze, pericolose ma destinate a rimanere tali e a deperire man mano che diminuirà la prevalenza politico-militare del centro (Usa) del capitalismo più “tradizionale” e ci si immetterà, tramite un periodo di transizione caratterizzato dallo sviluppo ineguale, verso una fase policentrica. Del resto, non ci sono solo gli illusi della “democrazia” dei funzionari del capitale, in netto declino nel lungo periodo e soprattutto quando si entrerà nel pieno della fase appena indicata. Illusi – e capisco la “nostalgia” di alcuni, simile a quella di cui ho parlato all’inizio di queste riflessioni – sono anche coloro che credono sinceramente alla ripresa di lotte proletarie nelle nuove formazioni, in specie in Cina dove si è ancora nella fase della trasformazione di una struttura agrario-industriale in una compiutamente industriale con ampio sviluppo dei servizi (del terziario e, come si dice oggi, anche del quaternario).
In fasi di sviluppo del genere – coperte dal “clamore” della crescita in quanto alti tassi d’aumento del Pil, mentre sono invece soprattutto intense le trasformazioni dei rapporti sociali (e non solo “di produzione”) – si verificano spesso lotte di strati dei lavoratori a basso livello, in passaggio dal quadro (sociale) contadino a quello operaio; sono lotte dure, ma non annunciano alcuna “rivoluzione proletaria”, solo il riadattamento ad una mutata situazione complessiva della formazione sociale. E’ accaduto in tutti i paesi passati al capitalismo: a partire da quello borghese affermatosi in Inghilterra, dove il movimento operaio fu infatti il primo a divenire, come disse Lenin, tradunionista. Da allora – e se i rimasugli comunisti e pseudomarxisti non vogliono capirlo, poco importa – tale tradunionismo si è diffuso in ogni paese che ha via via conosciuto la trasformazione industriale, sia pure sulla base di differenti “strutture” di rapporti capitalistici; si pensi all’esempio della Corea del Sud, negli anni ’70 e ‘80 guardata dai soliti ritardatari comunisti come la nuova avanguardia della rivoluzione proletaria mondiale.
Smettiamola con simili infantilismi; in Cina si avrà la medesima conclusione. Gli operai – come gli uighuri – saranno via via repressi e conteranno sempre meno; alla fine essi si adatteranno a nuove situazioni di crescente benessere in un paese divenuto una grande potenza in lotta policentrica. Solo tale lotta – se e quando comporterà nuove effettive “rese dei conti” tra dominanti, nuovi “anelli deboli”, nell’ambito però di strutture sociali differenti da quelle della prima metà del novecento e ancora non indagate nemmeno in minima parte – condurrà probabilmente ad eventi rivoluzionari che predire oggi, nell’attuale fase storica, mi sembra avere le stesse probabilità di una vincita al gioco del Lotto. Chi vuol sognare, perché questo è ormai la ragione della sua vita, lo faccia pure. A un credente in punto di morte si deve concedere, per misericordia, che forse Dio esiste, anzi è molto probabile. I non credenti, fatta pietosamente questa finta ammissione, se ne vadano poi per un’altra strada.
6. Vediamo allora di trarre alcune conclusioni provvisorie. Comunismo e marxismo (nel senso della credenza nella validità di quanto affermato dal fondatore centocinquant’anni fa) sono finiti, defunti, cadaveri da seppellire con onore ma con urgenza. La classe operaia venga lasciata tranquilla. Non esiste in quanto classe; esistono strati operai, in diminuzione relativa man mano che un paese è in sviluppo (non mera crescita). Giusto che i lavoratori – non solo quelli definibili operai e nemmeno i soli salariati, data la consistenza numerica di quelli detti autonomi – lottino per le loro condizioni di vita, per la distribuzione della “torta prodotta”, in specie nelle situazioni di crisi e quanto più si entrerà nella situazione policentrica, che potrà accentuare anche tale tipo di conflittualità (“in verticale”). Tuttavia, quando ci si avvia verso una situazione simile, per un lungo periodo di tempo, le “danze” saranno prevalentemente condotte dai gruppi dominanti con i loro conflitti assai
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arzigogolati, contorti, piene di sottigliezze e imbrogli, di depistaggi; e ovviamente con alleanze e rotture delle stesse, con cambio degli alleati (sempre potenziali competitori), e via dicendo. Insomma, ciò che è sempre avvenuto nella storia, che più che “storia di lotte di classi”, con buona pace di Marx, è una continua lotta tra gruppi dominanti, con strette di mano e sorrisi per poi tradire e pugnalare, ecc.
Per quanto riguarda la crisi in corso da due anni, e sulla quale oggi si diffonde a piene mani ottimismo, è meglio tacere per almeno questo mese; in autunno credo che finalmente sapremo se l’atteggiamento delle Autorità (Obama adesso in testa) è giustificato o meno. Pur se la crisi economica è fenomeno (di “superficie”) che tocca direttamente la vita della maggioranza della popolazione, è comunque il processo di lungo o almeno medio periodo quello da seguire con maggiore attenzione. Esso non avrà andamento lineare, progressivo, incontrovertibile. Tuttavia, poiché siamo naturalmente portati a pensare il futuro in base all’esperienza passata – comportamento non errato, usandolo con prudenza e buon senso, ed è per questo che l’annientamento della memoria storica è così negativo – è possibile formulare previsioni di larga massima, mantenendole saggiamente al livello di ipotesi in ogni momento rivedibili e correggendole di tempo in tempo.
Per quanto accidentata sarà la strada e inopportuna la dichiarazione di chi sarà il “vincitore” della nuova gara policentrica, che si dovrebbe aprire nei prossimi decenni – sbagliato fu puntare sul “Sol Levante” come qualcuno fece all’inizio degli anni ’90, azzardata anche la successiva designazione della Cina ancora in vigore – mantengo invece la mia convinzione circa l’imminenza, in termini di tempi storici ovviamente, di un’epoca di questo tipo. Con dizione forse non del tutto convincente e propria, ho parlato dell’attuale come di una fase (transitoria) di multipolarismo; in ogni caso, con ciò si vuol indicare l’inizio di un declino della predominanza statunitense e il sorgere di nuove potenze, tenendo però conto che per il momento resta pur sempre una relativa preminenza del paese, le cui speranze “imperiali” (monocentriche), nate dopo la dissoluzione dell’Urss, sono durate 10-12 anni. Oggi abbiamo ancora una superpotenza, tre-quattro potenze in fase di avanzata formazione, più un gruppetto di altre minori subpotenze (o medie potenze). Si tratta di uno “sgranamento” dovuto allo sviluppo ineguale, il quale altererà via via le posizioni occupate da queste varie potenze fino ad un probabile equilibrio nei rapporti di forza tra le maggiori di loro, con formazione di alleanze più stabili nel periodo culminante del policentrismo (alleanze in vista della “resa dei conti”).
Difficile come già rilevato, oltre che superfluo, lanciarsi in predizioni intorno alle forme del definitivo scontro per la supremazia (per un nuovo monocentrismo “temporaneo”) – pur se continuo a restare scettico sulla probabilità di guerre simili a quelle novecentesche – e a chi prevarrà infine sugli altri. Finora, nella storia, la supremazia si è via via spostata da una formazione particolare ad un’altra. Tuttavia, troppi autori sono rimasti prigionieri dell’“incantamento” prodotto da questi passaggi da un predominate ad un altro. Invece, la fase storica cruciale non è quella monocentrica, bensì quella policentrica, di cui la multipolare costituisce un’importante gestazione per i processi che in essa si sviluppano e che hanno come conseguenza il mutamento delle “strutture” (dei rapporti sociali) caratterizzanti la nuova epoca della “storia del mondo”.
In effetti, il monocentrismo inglese fu preceduto dai lunghi processi dell’accumulazione originaria e della rivoluzione industriale; e già quest’angolo di visuale tradisce un prevalente economicismo che falsa in parte la comprensione di ciò che fu il capitalismo borghese, da Marx stesso analizzato in modo parziale; rilevando però che il piano complessivo della sua massima opera (di cui egli pubblicò solo il I volume; e ribadisco la mia convinzione che ciò non fu causato solo da motivi di salute) comprendeva molte parti, fra cui quella sullo Stato; e ricordando inoltre la sospensione dello stesso manoscritto al capitolo su Le Classi. Occorre un’analisi dei processi sociali (nei loro vari aspetti) e di quelli politici; in particolare di quelli che hanno portato alla formazione degli Stati nazionali (è ben noto che il punto saliente fu la fine della guerra dei trent’anni con la “pace di Westfalia” nel 1648, oltre un secolo prima dell’inizio della Rivoluzione industriale); quegli Stati-nazione così stupidamente dichiarati finiti da pessimi pensatori fatti passare per geni, e che oggi ri-
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fulgono pienamente, in specie nelle nuove formazioni sociali formatesi nelle potenze in crescita (specialmente ad est).
Con l’ottica economicistica tutta centrata sul mercato (l’osannata o vituperata “mano invisibile”) e, in netto subordine, sull’impresa – di cui si sono enfatizzate solo le accresciute dimensioni, arrivando per questa via a rovesciare l’impostazione precedente in “mano visibile” oppure, e questo è già “rivoluzionario” (ma limitato quasi ad un solo autore), a considerare la “competizione mercantile” retta dalle regole strategiche illustrate da von Clausevitz – non si è nemmeno prodotta un’adeguata comprensione del passaggio dal capitalismo borghese a quello dei funzionari del capitale; trasformazione per la quale fu ancora una volta decisiva la fase policentrica (di transizione) tra gli ultimi decenni dell’800 e, in definitiva, la seconda guerra mondiale che sancì la sconfitta della “soluzione tedesca” e l’affermazione di quella statunitense. Tutta l’attenzione fu invece concentrata sulla presunta rivoluzione “comunista” e sul confronto bipolare (post-1945) tra “campo capitalistico” e “campo socialistico”. Anche il tanto apprezzato “secolo breve” di Hobsbawm ha condotto ad una impostazione del tutto errata, oscurando la visibilità del vero processo che ha definito il secolo XX: la gestazione di un nuovo monocentrismo dominato dagli Usa e caratterizzato dalla nuova formazione dei funzionari del capitale, mentre i processi sordamente sviluppati “a est” – in forme contorte, involute, poi esplose (o implose) nel 1989-91 – acquistano proprio oggi la massima rilevanza, all’apertura della nuova fase indirizzata al policentrismo, da cui sono convinto nascerà la formazione sociale del domani, chiunque – in quanto formazione particolare – vinca il confronto/scontro, perfino fossero ancora gli Usa.
7. Quanto appena sopra sostenuto ci spiega la “stranezza” di un monocentrismo statunitense durato appena dal 1991 al 2001 o 2003. In realtà, tale epoca ha preso inizio nel 1945. Il “campo socialista”, e la sua massima potenza (l’Urss), non fu mai una reale alternativa; il sottoscritto lo intuiva del tutto confusamente nella sua incessante polemica contro le tesi dell’“equilibrio del terrore”, del pericolo di “olocausto nucleare”, con il corollario della convinzione, uno dei più gravi errori del maoismo, che alla fine sarebbe scoppiata la guerra (mondiale) tra imperialismo e socialimperialismo (come si diceva allora); convinzione che fu tra i fondamenti del tragico errore commesso in Italia dalle BR, con tutto il disastro che ne è seguito (e molti dei “misteri” ancora irrisolti). Fui sempre deciso assertore dell’impossibilità di un aperto confronto bellico tra Usa e Urss (mai preoccupato in alcun modo, nemmeno nell’ottobre 1962 con la “crisi di Cuba”). Dopo gli studi compiuti con Bettelheim, sempre sostenni – e con particolare nettezza proprio dopo la salita al potere di Gorbaciov – che il “socialismo reale” sarebbe imploso, pur se non potevo prevederne, non essendo attrezzato a fare il profeta, né i tempi né le modalità effettive.
Il “campo socialista” – e bisogna ben dirlo per onestà: in particolare dopo la sconfitta della “rivoluzione culturale cinese” (questa l’appoggiai; bisogna ammettere le proprie corbellerie, mai però enormi come quelle di chi fu favorevole a Dubcek, Walesa e Gorbaciov!) e il forte impulso impresso alla trasformazione della Cina in potenza da Deng che, proprio per questo, spazzò via ogni “democraticismo” gorbacioviano in grado di annientare pure quel paese con grave ritardo della stessa ripresa della Russia – è stato solo una lunga e tormentata transizione. Malgrado l’equivoco dell’ideologia “comunista” relativa alla “costruzione del socialismo” – per fortuna, essa non imbrigliò la decisiva azione staliniana (di cui gli imbelli sostenitori del “comunismo”, e i mediocri avversari avvelenati dai suoi successi, continuano solo a vedere i “delitti”, l’uccisione della maggioranza dei membri del “Partito”, che con la loro pura ideologia avrebbero distrutto l’Urss fin dal suo nascere), poi logorata dai successori, ma non del tutto dilapidata – l’era bipolare fu comunque la gestazione di ciò che poté infine emergere dopo l’annientamento del “vecchio regime”
Oggi, sono sempre più convinto che la nuova formazione sociale, sostitutiva di quella dei funzionari del capitale (ribadisco; perfino nel caso uscissero ancora gli Usa vincitori nel nuovo confronto policentrico) sarà infine quella non ancora ben delineata, né tanto meno stabilizzata, in Russia e Cina. Credo assai meno all’India (o al Brasile); non perché non possa diventare una grande po-
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tenza in tempi debiti (anzi, penso lo diverrà), ma perché sarà comunque ancora imbrigliata dal vecchio “modello” (sia pure con le modifiche relative alla diversa formazione particolare in cui si va sviluppando), che comunque dovrebbe venire soppiantato in tempi successivi, un po’ dappertutto, dalla nuova formazione sociale, sia pure con caratteristiche strutturali (e culturali) specifiche nelle diverse formazioni particolari.
Questi sono i processi che noi dobbiamo analizzare; o, per meglio dire, che dovranno analizzare i più giovani, liberandosi dei fantasmi che i vecchi continuano ad alimentare in loro; ed è forse per questo che oggi vi è una così grande carenza di memoria storica. Perché forse, inconsciamente, i giovani sentono che la vecchia realtà non “morde” più nel presente. Tuttavia, non solo l’ideologia “battuta” – il comunismo nella versione marxiana, che resta pur sempre la più avanzata, mentre le riproposizioni odierne dei “filosofi” sono indecenti e da “cazzotti sul muso” – bensì anche le varie ideologie dei dominanti sono di una vecchiezza e putrefazione simili. Inoltre, pure queste ultime sono in gran parte intrise di economicismo: cos’è il liberismo, o la sua versione apparentemente contrastante che è il keynesismo, se non sostanziale economicismo. Nemmeno i dominanti, non a caso, hanno capito il passaggio dal capitalismo borghese a quello da loro sempre adorato, di origine statunitense. Anche per loro, si tratta sempre di capitalismo, di meraviglia del mercato, che alcuni vogliono temperare con l’intervento dello Stato, preso per organo della volontà generale, quando è un campo di battaglia tra i più violenti, e proprio nelle forme della “democrazia” statunitense. Quando poi gli ideologi dei dominanti tentano di uscire dall’economicismo, allora spunta l’etica, la più sciocca di tutte le ideologie, vera débacle del pensiero, abdicazione a quel minimo di razionalità che il liberismo, malgrado l’ideologia distorcente, ancora mantiene.
Ho iniziato con due film e la nostalgia da essi indotta. Ad essa torno, ma solo per invitare i giovani a lasciar perdere tutto il vecchio che ostacola gravemente il cammino. La nostalgia del ricordo è positiva se serve a rafforzare la memoria del passato; non per una sterile immersione nell’amarcord, bensì per avere quella consapevolezza della dimensione e spessore del tempo necessaria a sapere che “tutto torna ma diverso”. Il tempo degrada ogni cosa, ma soprattutto nella dimensione individuale, che subisce via via gli “insulti” della vecchiaia e della scomparsa di quanto ci appartiene, in particolare nel campo degli affetti. Tuttavia, nella società, esso comporta i cambiamenti e trasformazioni da non sovraccaricare dei significati della nostra vita personale: niente giudizi sul peggio o sul meglio. L’inizio è sempre nella lucidità con cui si guarda ai mutamenti in atto. Non si deve restare a rimuginare il passato, pestando i piedi come i bambini perché non accade quello che noi pretendiamo accada. Gli eventi se ne infischiano dei nostri desideri e voleri; cerchiamo di cominciare a capirli e inquadrarli. E sempre per ipotesi, sempre pronti alla revisione di tempo in tempo. In ogni caso, è completamente da riscrivere l’intera storia del XX secolo e, in particolare, quella degli ultimi 60 (e passa) anni.
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