Riflessioni sulla democrazia
“Ogni sindaco prima di me, sin dove arriva la memoria era stato accusato di essere un demagogo sognatore, oppure un ladro o un truffatore tuttavia io presi quel posto con un certa speranza, intendendo rendere tutto più bello, dare alla gente il dovuto, far sì che i grossi delinquenti si mettessero in riga. Come già una volta il Ledger stava tentando di vendere la sua terra per un parco, ma io lo impedii. Poi allontanai a bastonate sul muso lo schifoso maiale dal trogolo. Che accadde? Bene scoppiò un’ondata di criminalità sulle pagine del Ledger! Quanti rapinatori, giocatori d’azzardo, fuorilegge ubriaconi, e luoghi del vizio! La chiesa cominciò a chiacchierare, la corte mi si mise contro. Sporcarono il mio nome e quello della città mi uccisero per averla vinta. E questo è un gioco da banditi, amici miei, che si chiama democrazia!”. E.L. Masters, Nuova antologia di Spoon River.
La democrazia è la via più breve per l’oligarchia. Difficile contestare questa affermazione alla luce degli sviluppi dei nostri sistemi occidentali, diretti da ristrette cerchie di potere le quali richiamandosi alle supreme leggi del mercato e ad un comune uso degli strumenti ideologici e politici di condizionamento dei vari strati della popolazione, tentano di plasmare a loro immagine e somiglianza le sfere dell’agire umano, dove opera uno storicamente specifico rapporto di ri-produzione sociale che per carenza categoriale definiamo ancora capitalistico nonostante si sia distanziato, in alcuni tratti fondamentali, dalla sua configurazione precedente.
Tuttavia, è bene ribadire che queste élite di comando non sono tutte sulle stesso piano, benché spesso si alleino in organismi sovranazionali, sposino il medesimo modus operandi, le stesse parole d’ordine, simili regole comportamentali, scale valoriali, diritti e doveri sociali ecc. ecc.. Vi è una matrice che influenza tutte le altre nella nostra parte di mondo, quella che l’economista Gianfranco La Grassa chiama la formazione dei funzionari (privati) del capitale di derivazione statunitense, emersa dalla dissoluzione di quella borghese di “genealogia” inglese, nata con la rivoluzione industriale. Questi gruppi dominanti che fra loro sono in una relazione di preminenza/subordinazione, quindi in un rapporto conflittuale determinante una egemonia gerarchica, sia nella segmentazione dello spazio mondiale che nella stratificazione di quello nazionale, si sono appropriati del concetto di democrazia e ne hanno fatto un paravento per il loro assolutismo pubblico.
C’è un interessante saggio del filosofo francese Jacques Ranciére che analizza in dettaglio questa metamorfosi dell’idea di democrazia, divenuta un indiscutibile congegno di mascheramento della sovranità autoritaria dei pochi sui molti, col consenso passivo di quest’ultimi. In Ranciére però manca totalmente quella dimensione conflittuale, quale complesso di strategie politiche erompenti dalla disputa tra drappelli dirigenziali, tanto nell’estensione mondiale che in quella nazionale, fattore che gli impedisce di comprendere e di pesare la consistenza geopolitica e i concreti differenziali di potere tra i suddetti raggruppamenti preminenti di ciascuna formazione statale, i quali pur facendo riferimento ad uno speculare sistema di progetti e obiettivi occupano postazioni più o meno privilegiate (di potenza) nell’area globale, indirizzandone (o subendone) i processi e le risultanze.
Da questo ragionamento errato viene impropriamente inferita l’esistenza di una fantomatica classe dominatrice unificata a livello planetario, di tipo tecnocratico o finanziario, che ambirebbe, ricavandone la forza da una necessità teleologica (il trionfo della tecnica e della produzione illimitata) ad occupare e sottomettere l’intero orbe terraqueo, spodestando stati e popoli.
Prescindendo da questo approdo discutibile, Ranciére ci fornisce una serie di riflessioni sulla democrazia che colgono nel segno, specialmente laddove egli individua e spiega evidenti effetti distorcenti, sociali, ideologici, politici, rispetto ai quali i nostri intellettuali da riporto sono sempre pronti a fornire giustificazioni e rappresentazioni di comodo. Soprattutto sesi tratta di respingere in blocco fenomeni di protesta o di resistenza, accelerati dal default economico in quanto riflesso di un più profondo squassamento geopolitico, che rischiano di sfuggire di mano e che vengono immediatamente bollati come populisti. Cito di seguito i passi più significativi del suo testo sperando di contribuire ad una riflessione più ampia sull’argomento.
“..Ciò che chiamiamo democrazia è, infatti, un funzionamento dello stato e del governo esattamente opposto; eletti eterni che accumulano o alternano funzioni municipali, regionali, legislative o ministeriali e che si legano alla popolazione rappresentando gli interessi locali; governi che fanno le leggi; rappresentanti del popolo che escono dalle scuole di amministrazione; ministri e collaboratori di ministri risistemati nelle imprese pubbliche o semipubbliche; partiti finanziati con la frode sui mercati pubblici; uomini d’affari che investono somme colossali per ottenere un mandato elettorale; padroni di imperi mediatici privati che, grazie alla loro funzione pubblica, si appropriano dell’impero delle telecomunicazioni di stato. Insomma, la requisizione della cosa pubblica da parte di una solida alleanza fra l’oligarchia statale e l’oligarchia economica. Si capisce che i denigratori dell”‘individualismo democratico” non abbiano niente da rimproverare a questo sistema di predazione della cosa e dei beni pubblici. Questo iperconsumo delle funzioni pubbliche non dipende, infatti, dalla democrazia. I mali di cui soffrono le nostre “democrazie” sono innanzitutto i mali legati all’insaziabile appetito degli oligarchi. Non viviamo in una democrazia. Non viviamo nemmeno in un campo, come sostengono certi autori che ci vedono tutti sottomessi alla legge d’eccezione del governo biopolitico. Viviamo in uno stato di diritto oligarchico, cioè in uno stato in cui il potere dell’oligarchia è limitato dal duplice riconoscimento della sovranità popolare e delle libertà individuali. I vantaggi di questo tipo di stato sono noti, come pure i loro limiti. Le elezioni sono libere. Servono essenzialmente ad assicurare la riproduzione del medesimo personale dominante sotto etichette intercambiabili, ma le urne non sono in genere strapiene ed è possibile rendersene conto senza rischiare la vita. L’amministrazione non è corrotta, tranne in quegli affari di mercato pubblico dove finisce per confondersi con gli interessi dei partiti dominanti. Le libertà individuali sono rispettate, a prezzo di considerevoli eccezioni per tutto quello che riguarda la difesa delle frontiere e la sicurezza del territorio. La stampa è libera: chi voglia fondare, senza l’aiuto di potenze finanziarie, un giornale o una rete televisiva capace di raggiungere l’insieme della popolazione incontrerà serie difficoltà, ma non finirà in galera. I diritti di associazione, di riunione e di manifestazione permettono l’organizzazione di una vita democratica, cioè di una vita politica indipendente dalla sfera statale. Permettere è evidente mente una parola ambigua”.
“…il sistema cosiddetto maggioritario elimina i partiti estremi e fornisce ai “partiti di governo” il mezzo per governare in alternanza: permette così alla maggioranza, cioè alla minoranza più forte, di governare senza
opposizione per cinque anni e di prendere, nella certezza della stabilità, tutte le misure che l’imprevisto delle circostanze e la previsione a lungo termine richiedono in vista del bene comune. Da un lato, questa alternanza soddisfa il gusto democratico del cambiamento. Dall’altro, i membri di quei partiti di governo,
avendo fatto gli stessi studi nelle stesse scuole dalle quali escono anche gli esperti nella gestione della cosa comune, tendono ad adottare le stesse soluzioni che fanno prevalere la scienza degli esperti sulle passioni della moltitudine. Si crea così una cultura del consenso che ripudia gli antichi conflitti, abituando a oggettivare senza passione i problemi che a corto e a lungo termine le società incontrano, a chiedere soluzioni agli esperti e a discuterle con i rappresentanti qualificati dei grandi interessi sociali”.
“…E’ finito, quindi, il tempo in cui la divisione del popolo era abbastanza attiva e la scienza abbastanza modesta perché i principi opposti potessero sopportare la loro coesistenza. L’alleanza oligarchica della ricchezza e della scienza esige oggi tutto il potere ed esclude che il popolo possa ancora dividersi, moltiplicarsi. Ma la divisione, che è stata espulsa dai principi, ritorna da tutte le parti. Ritorna nell’impulso dei partiti di estrema destra, dei movimenti identitari e degli integralismi religiosi che, contro il consenso oligarchico, fanno appello ai vecchi principi della nascita e della filiazione, a una comunità radicata nel suolo, nel sangue e nella religione dei padri. Ritorna anche nella molteplicità delle lotte che rifiutano la necessità economica mondiale, di cui si avvale l’ordine del consenso per rimettere in discussione i sistemi sanitari e pensionistici o il diritto del lavoro. Ritorna infine nel funzionamento stesso del sistema elettorale, quando le uniche soluzioni che si impongono tanto ai governanti quanto ai governati debbono sottostare alla scelta imprevedibile di questi ultimi. Il referendum europeo ne ha fornito la prova. Nello spirito di coloro che sottomettevano la questione a referendum, il voto doveva intendersi secondo il senso originario che ha l'”elezione” in occidente: come un’approvazione data dal popolo riunito a coloro che sono qualificati per guidarlo. Doveva essere così, anche perché l’élite degli esperti di stato era unanime nel dire che la questione non si poneva più, che si trattava soltanto di proseguire la logica degli accordi già esistenti e conformi agli interessi di tutti. La maggiore sorpresa del referendum è stata che una maggioranza di votanti ha ritenuto invece che quella questione fosse una vera questione, che essa non dipendesse dall’adesione della popolazione, ma dalla sovranità del popolo e che solo il popolo potesse rispondere sì o no. Il resto si sa. Si sa anche che di questa sciagura, come pure di tutte le difficoltà del consenso, gli oligarchi, i loro scienziati e i loro ideologi hanno trovato subito una spiegazione: se la scienza non riesce a imporre la sua legittimità è colpa dell’ignoranza. Se il progresso non progredisce è colpa dei ritardatari. Una parola, continuamente salmodiata da tutti gli esperti, riassume questa spiegazione: il “populismo”. In questo termine rientrano tutte le forme di secessione nei confronti del consenso dominante, sia quelle che derivano dall’affermazione democratica sia quelle che nascono dai fanatismi razziali o religiosi. E si cerca di dare a questo insieme così eterogeneo un unico principio: l’ignoranza degli arretrati, l’attaccamento al passato, al passato dei vantaggi sociali, degli ideali rivoluzionari e della religione dei padri. Populismo è il facile nome sotto il quale si cela la contraddizione esasperata fra la legittimità popolare e la legittimità scientifica, nonché la difficoltà del governo della scienza ad adattarsi alle manifestazioni della democrazia e perfino a quella forma mista che è il sistema rappresentativo. Questo nome maschera e allo stesso tempo rivela il grande desiderio dell’oligarchia: governare senza popolo, cioè senza divisione del popolo, governare senza politica. É permette al governo dei sapienti di esorcizzare la vecchia aporia: come può la scienza governare coloro che non la capiscono?”
“…L’ignoranza che viene rimproverata al popolo è semplicemente la sua mancanza di fede. La fede storica ha cambiato campo. Oggi sembra l’appannaggio dei governanti e dei loro esperti. Perché asseconda la loro compulsione più profonda, la compulsione naturale al governo oligarchico: la compulsione a sbarazzarsi del
popolo e della politica. Dichiarandosi semplici gestori delle ricadute locali e della necessità storica mondiale, i nostri governi si industriano a eliminare il supplemento democratico. Inventando istituzioni sovra-statali, che non sono stati a loro volta e che quindi non sono responsabili di fronte a nessun popolo, i nostri governi realizzano il fine immanente alla loro stessa pratica: depoliticizzare le questioni politiche, sistemarle in luoghi nonluoghi che non lasciano spazio all’invenzione democratica di luoghi polemici. Così gli stati e i loro esperti possono intendersela…”
Chi è ancora convinto che la democrazia sia il governo del popolo dovrebbe fermarsi a ragionare. Troppe contraddizioni e deformazioni insinuano dubbi sul significato d’antan della parola. Forse, non aveva tutti i torti Carmelo Bene quando sosteneva che la “democrazia è il popolo, che prende a calci in culo il popolo, su mandato del popolo” ma, aggiungiamo noi, a vantaggio di conchiuse e prepotenti oligarchie.