RIFLESSIONI SULLE PRIME DUE PARTI DEL SAGGIO di Gianfranco La Grassa ‘APPUNTI SULLA TIPOLOGIA DEI CONFLITTI’
scritto da Andrea Berlendis
Le mie note al lavoro di La Grassa in corso d’opera, riguardano la problematica dello Stato perché come comprese Lenin nella Prefazione a ‘Stato e rivoluzione’: “Il problema dello Stato assume ai nostri giorni una particolare importanza, sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista politico pratico.”1 Ora, anche se, com’è ovvio, “dal punto di vista politico pratico”, la ‘fase’ in cui noi siamo immersi, è completamente diversa ed al momento—e che momento ahinoi!—non ci consente incidenze politiche dirette e significative (“Davvero vivo in tempi bui…” Brecht), “dal punto di vista teorico” la sollecitazione leniniana costituisce più che mai un’esigenza attuale—come tu (ri)sottolinei con pervicace costanza—che potrebbe avere positive ricadute politiche da lasciare “A coloro che verranno” (Brecht).
[ Riporto i passaggi del testo lagrassiano ‘Appunti sulla tipologia dei conflitti’ in blu all’inizio di ogni punto ed aggiungo poi le mie notazioni e riflessioni, anche utilizzando altri suoi testi passati e in corso. ]
1. “Aveva ragione Lenin, anche se non so al momento citare il luogo della sua affermazione, quando invitava alla ‘analisi concreta della situazione concreta’.” 2
Con questa richiesta forse hai creato un piccolo giallo filologico. L’espressione secondo cui “l’anima vivente del marxismo è l’analisi concreta della situazione concreta” si trova in una nota del testo di Mao ‘Problemi strategici della guerra rivoluzionaria in Cina’.3del 1936 e poi è anche richiamato nel suo famoso saggio, ‘Sulla contraddizione’4, scritto nel 1937. In quella nota egli faceva riferimento ad un breve articolo per la rivista ‘Kommunismus’ (pubblicata a Vienna dal giugno del 1920 al settembre del 1921 dalla corrente di sinistra dei Linkskommunisten) scritto da Lenin il 12 giugno 1920. Il testo pare però diverso da come lo riferisce Mao, pur se egli ne rispetta in linea di massima lo spirito di fondo; per questo credo sia migliore e più pregnante la formulazione leniniana (la lascio in inglese V. I. Lenin, Collected Works (1966 ed., Vol. 31, pp. 165-167). Moscow: Lawrence and Wishart):
“The excellent journal Kommunismus reveals three symptoms of this malady, which I would like at once to deal with briefly. No. 6 (March 4, 1920) contains an article by Comrade G.L. (Georg Lukács) entitled “On the Question of Parliamentarianism”, which the editors designate as controversial, and from which Comrade B. K. (Bela Kun), the author of an article entitled “On the Question of the Parliamentary Boycott” (No. 18, May 8, 1920), directly dissociates himself (fortunately), i.e., declares that he is in disagreement with it.
G. L.’s article is very Left-wing, and very poor. Its Marxism is purely verbal; its distinction between “defensive” and “offensive” tactics is artificial; it gives no concrete analysis of precise and definite historical situations; it takes no account of what is most essential (the need to take over and to learn to take over, all fields of work and all institutions in which the bourgeoisie exerts its influence over the masses, etc.).”
Ipotizzando che la tua ripresa della frase leniniana significhi, analisi teorica di una situazione storicamente determinata (per esteso formazione sociale particolare dentro una congiuntura storica—a sua volta parte di un’epoca monocentrica o policentrica, o di un periodo di transizione verso uno dei due tipi di epoca—in relazione alla sua collocazione dentro una data configurazione dell’assetto mondiale), penso che la formulazione traducibile dal testo in inglese sia più conforme, puntuale e metodologicamente più prossima alla tua, ripetutamente sottolineata e sollecitata, necessità secondo cui occorre sempre un’ ‘analisi di fase’. Riferita alla problematica dello Stato, questa analisi incontra i limiti che la categoria porta con sé, sia relativamente allo Stato ‘in generale’, sia a propositodella sua successiva declinazione, in primis circa le forme specifiche assunte nel ‘capitalismo borghese’ e nella ‘società dei funzionari del capitale’.La configurazione dello Stato deve poi essere rapportata nella sua strutturazione e nell’esercizio delle sue funzioni verso l’interno e verso l’esterno, sia rispetto alle epoche monocentriche e policentriche—con la presenza sia di elementi invarianti che di elementi differenzianti—, sia rispetto alla collocazione delle diverse formazioni sociali entro una data gerarchia di un determinato assetto formazione sociale mondiale. Si deve poi proseguire, scendendo la scala di astrazione, verso la peculiare configurazione assunta in ogni data formazione sociale particolare con le relative variazioni sia spaziali che temporali. A quest’ultimo livello, ad esempio, solo l’analisi di una data situazione storicamente determinata è in grado di cogliere che “Gli apparati, nella loro materialità oltre che nella configurazione formale, sono spesso gli stessi. E’ trasformato il senso (direzione e obiettivo cui si mira) del loro agire a causa , sia della diversa articolazione degli agenti in conflitto, sia del nuovo reticolo costituito dalle strategie poste in opera (la politica di questi agenti).”5Proprio nello spirito leniniano dell’ ‘analisi concreta’, che corrisponde alla lagrassiana ‘analisi di fase’, voglio qui, prima di procedere, esprimere apertamente il mio ringraziamento personale a Gianfranco per il lavoro teorico che ha condotto e condurrà, per cui non siamo, non saremo ed altri non saranno (se vorranno non esserlo) nella deprimente condizione che Gramsci descriveva nel 1923: “Perché i partiti rivoluzionari sono sempre stati deboli dal punto di vista rivoluzionario? Perché hanno fallito quando dovevano passare all’azione? Essi non conoscevano la situazione in cui dovevano operare, essi non conoscevano il terreno in cui avrebbero dovuto dare battaglia. Pensate: in più di trenta anni di vita, il Partito Socialista non ha prodotto un libro che studiasse la struttura economico-sociale dell’Italia. Non esiste un libro che studi i partiti politici italiani, i loro legami di classe, il loro significato. Perché nella valle del Po il riformismo era radicato così profondamente? Perché il partito popolare, cattolico, ha più fortuna nell’Italia settentrionale e centrale che nell’Italia del sud? Perché in Sicilia i grandi proprietari terrieri sono autonomisti e non i contadini, mentre in Sardegna sono autonomisti i contadini e non i grandi proprietari? Perché nell’Italia del sud c’è stata una lotta armata tra fascisti e nazionalisti che non c’è stata altrove? Noi non conosciamo l’Italia. Peggio ancora: noi manchiamo degli strumenti adatti per conoscere l’Italia, così com’è realmente e quindi siamo nella quasi impossibilità di fare previsioni, di orientarci, di stabilire delle linee d’azione che abbiano una certa probabilità di essere esatte. Non esiste una storia della classe operaia italiana. Non esiste una storia della classe contadina. Che importanza hanno avuto i fatti di Milano del ’98? Che insegnamento hanno dato? Che importanza ha avuto lo sciopero di Milano del 1904? Che significato ha avuto in Italia il sindacalismo? Perché ha avuto fortuna tra gli operai agricoli e non fra gli operai industriali? Che valore ha il partito repubblicano? Perché dove ci sono anarchici ci sono anche i repubblicani? Che importanza e che significato ha avuto il fenomeno del passaggio di elementi sindacalisti al nazionalismo prima della guerra libica e il ripetersi del fenomeno su scala maggiore per il fascismo?”6
2. “La compattezza dell’organizzazione e coordinamento secondo determinate norme giuridiche confonde le idee; possiamo in realtà assimilare lo Stato ad una sorta di roccaforte insediata su un terreno accidentato e talvolta persino sconvolto dai conflitti in svolgimento nella società, conflitti solitamente combattuti tra i vari gruppi sociali con diversi interessi, tuttavia spesso (non sempre) rivestiti di abiti ideologici. Si è criticata per la sua eccessiva semplicità la tesi dello Stato quale strumento della classe dominante. Fino a quando la ‘roccaforte’ non viene direttamente assaltata e sgretolata (in genere per costruirne una di solo parzialmente diversa), essa sembra ergersi al di sopra di ogni suo uso strumentale a causa della suddetta regolamentazione giuridica unitaria e coordinatrice, apparentemente non sensibile a pressioni dall’esterno.” 7
La metafora della roccaforte rispetto allo Stato è a mio avviso adeguata per quattro motivi. In primo luogo, perché etimologicamente presenta l’immagine di una “fortezza posta sull’alto di una montagna” (Dizionario etimologico Cortellazzo, Zolli), in cui si da conto del suo essere al di sopra non a causa del suo (mistificante e mistico) occuparsi degli interessi generali della società, ma del suo porsi come ‘fortezza’, sia protezione di un dato ordine interno vigente sia verso altre ‘fortezze’ poste all’esterno di essa. In secondo luogo, la dizione della roccaforte (‘Città fortificata, rocca protetta da difese naturali e artificiali’ Dizionario Treccani della lingua italiana) non occulta il nucleo strutturale interno dello Stato, così come invece l’ideologia (giuridica) dominante in cui la dimensione (di superficie) amministrativa (ap)pare non solo come il davanti della scena ma anche quella decisiva (rimuovendo la decisività del monopolio della forza). In terzo luogo, roccaforte significa anche “Luogo, ambiente, istituzione in cui si ha particolare sostegno, difesa, sicurezza” (Dizionario Treccani della lingua italiana): questo favorisce la comprensione dello Stato anche come posta in gioco del conflitto tra gruppi di agenti strategici dominanti, per poter essere coadiuvati nell’approntamento delle proprie strategie per prevalere appunto dal sostegno dello Stato stesso. Se infatti proseguiamo con l’utilizzo del dizionario, questo suggerisce la seguente declinazione: “una banda di sfruttatori, che ha la sua roccaforte nella zona del porto”; analogamente i diversi gruppi di agenti strategici dominanti in conflitto riconoscono lo Stato quale loro roccaforte, cioè ambito imprescindibile che serve per condurre più efficacemente le loro azioni conflittuali (siano esse rivolte verso l’interno che verso l’esterno). In quarto luogo, il termine roccaforte, è in stretta continuità con il nocciolo razionale della teoria marxiana e leniniana dello Stato, che, una volta riconosciutane i limiti, per cui si deve partire dallo svelamento (di primo tipo, come tu hai in indicato) che sotto l’eguagliamento formale sancisce e riproduce i diseguali rapporti di forza protetti dal ‘nucleo coercitivo’ dei leninani ‘distaccamenti di uomini in armi’ per poter andare oltre, senza però compiere passaggi che riconducano—riguardo la problematica dello Stato, ma non solo—verso posizioni teoriche e politiche che regrediscano dalle acquisizioni del primo svelamento. Proprio su questo terreno si possono spazzare via cumuli di autentiche falsificazioni piciiste (cominciando da Togliatti in primis, per procedere ancora più sconciamente verso il basso poi…) circa la natura del pensiero gramsciano riguardo lo Stato. L’uso di metafore militari è connaturato a ciò che Gramsci riteneva lo Stato fosse nel suo elemento decisivo: “Nella politica l’errore avviene per una inesatta comprensione di ciò che è lo Stato (nel significato integrale: dittatura + egemonia), nella guerra un simile errore, trasportato nel campo nemico (incomprensione non solo del proprio Stato, ma anche dello Stato nemico).” 8 In particolare in Occidente “Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte”9—citazione tanto abusata quanto curvata verso significati opposti dagli intenti politici rivoluzionari e dagli intenti di svelatori del comunista sardo. Da queste premesse risulta la bella e concettualmente pregnante formulazione dello Stato come entità caratterizzata dall’ “egemonia corazzata di coercizione”. 10
Ti segnalo che Gumplowicz utilizza una metafora analoga alla tua ‘roccaforte’, parlando di ‘castello’, ma la impiega sul piano conoscitivo per distinguere i punti di vista del giurista e dello studioso della società circa lo Stato. Il punto di vista giuridico è ritenuto da Gumplowicz assai distorcente giacché tende a leggere la configurazione e le funzioni dello Stato, dall’interno dell’edificio, mentre il punto di vista sociologico gli è superiore perché cerca di comprendere quella stessa configurazione, e le precipue funzioni statali dall’esterno, in quanto parti di un insieme sociale. “Il giurista vuole—cosa del tutto impossibile—conoscere la posizione esteriore e la qualità dell’edificio dagli intricati meandri interni, dai quali non può uscire. Il sociologo inizia le sue osservazioni, abbracciando con lo sguardo tutto il paesaggio, che circonda l’edificio e passa poi ad osservarne le singole parti, i corpi e le ali annesse, per spiegare mediante la loro natura e posizione i nessi giuridici che si trovano all’interno e che risultano necessariamente dalla posizione e dalle qualità esteriori. [corsivo dell’autore] E’ manifesto che, essendo errata la via che dal diritto conduce a spiegare lo Stato, perché l’edificio non fu costruito su misura degli anditi interni, ma viceversa, sia razionale e scientifica unicamente quella, che considera l’edificio dal contorno, cioè lo Stato, dalla storia naturale dell’uomo e dalla vita dell’orda umana. Tutte le chiacchiere dei giuristi sullo Stato, partendo dal diritto, non sono che il giudizio, che un cieco può dare dei colori.”11
3. “In realtà, i gruppi che hanno maggiore influsso decisionale negli affari sociali – fra cui si trovano spesso pure le élites ufficialmente rappresentanti gli “esclusi” dalle decisioni più rilevanti per la riproduzione dei rapporti sociali in quella loro forma specifica – portano la lotta entro le mura della roccaforte, nei vari “androni” (apparati statali) che la costituiscono. Le decisioni che da quegli ‘androni’ escono – al di là della formulazione assunta (in base a regole predisposte) e osservando invece con maggiore attenzione e capacità analitica gli obiettivi posti e realizzati oppure mancati – sono la risultante del conflitto tra i gruppi decisionali in questione.”12
In questo modo si evita il limite intrinseco all’immagine dello Stato quale roccaforte, pur rimarcando la positività della metafora. Dietro (concettualmente) il davanti della scena, si staglia un campo conflittuale: la roccaforte statale svolge il compito decisivo del mantenimento dell’ordinato (pur se conflittuale) funzionamento d una data formazione sociale particolare. Ma può svolgerlo efficacemente solo celando a) che normalmente vi è un conflitto tra i gruppi per orientare influire sul flusso decisionale, e b) che gli esiti di un dato flusso decisionale siano esclusivamente la risultante di un dato conflitto tra gruppi decisionali e non altro, al di là del rivestimento (giuridico di forma generale) che assumono. Celando a) e b), cela anche la propria fisionomia di ‘roccaforte’. Solo se l’ordinato e ordinario funzionamento di a) e b) diventano problematici, emerge—e necessariamente deve emergere—con maggiore chiarezza e nitidezza, anche alla superficie, la fisionomia dello Stato come roccaforte. Necessariamente perché anche l’attuazione (formalmente dichiarata o meno) dello ‘stato d’eccezione’, che mostra la complementarietà della forma autoritaria dello Stato rispetto alla forma democratica dello Stato stesso, è comunque parte integrante del funzionamento—seppur (stra)ordinario—dello Stato. In tali casi la crisi, intacca qualche ‘androne’ o relazione tra ‘androni’, ma non incide sull’assetto statico dell’edificio costituito dalla ‘roccaforte’. Altra tipologia di crisi si dà invece quando si verificano date circostanze, per cui il potere di influire sul flusso decisionale dei diversi gruppi dominanti, prima dotati di minore influsso decisionale, si accresce (per variegate cause interne, o esterne al proprio Stato se trattasi di subdominanti ai vertici di una potenza statale subordinata) e quindi tentano di scalzare quello(i) che aveva(no) precedentemente conquistato la supremazia. Allora lo Stato in quanto campo conflittuale, si avvia verso la multipolarità e poi verso il policentrismo (impiego, anche al di fuori del loro contesto teorico, le categorie lagrassiane perché a mio avviso, in prima istanza aiutano a descrivere la dinamica interna dello Stato in congiunture di crisi profonde). La battaglia diviene sempre più aperta, il campo stesso della battaglia diviene sempre più visibile e di conseguenza il tessuto di quello stesso campo rischia di lacerarsi. La ‘roccaforte’ statale è scossa sino alle fondamenta, anche negli ‘androni’ decisivi, e questo è il sintomo del carattere rivoluzionario (dentro o contro il capitale, dipenderà dal tipo di agenti strategici che si saranno o meno formati, e da quali saranno o meno in grado di prevalere ecc.).
Un’ulteriore notazione, pur rimanendo all’interno dell’ottica del primo svelamento marxiano, e, pur riferendosi al solo apparato parlamentare Pasukanis segnalava che “in tutte le deliberazioni del Parlamento si possono cogliere, tralasciando un’ottica giuridica, non già atti statuali, ma decisioni di un certo gruppo di persone spinte da motivi individualistici ed egoistici, o di classe, analoghi a quelli che muovono ogni altro gruppo.”13
Ma per apprezzare sino in fondo il passo avanti dello Stato come campo conflittuale tra gruppi dominanti, occorre fare un passo indietro. Mi scuso per il detour nelle tue stesse precedenti posizioni, ma per me è stato utile comparare la rappresentazione dello Stato come luogo della mediazione e ricomposizione della classe dominante (essendo allora la sfera economica designata come quella del conflitto redistributivo tra ‘classi’ e della competizione intercapitalistica) con quella attuale. Salto in quest’occasione il problema dell’esistenza o meno di una teoria marxiana dello Stato, sia perché meriterebbe (con implicazioni e trasfigurazioni del passaggio di campo che il Pci stava compiendo non casualmente all’epoca in cui il dibattito scoppiò a partire dai famosi saggi di Bobbio), sia perché hai già risposto ampiamente con i tuoi lavori. Parto quindi dalla discussione che andavi conducendo con la formulazione althusseriana degli apparati ideologi di Stato per precisare allora il tuo concetto di Stato. “Gli apparati egemonici—quelli che Althusser chiama apparati ideologici di Stato (scuola, famiglia, Chiesa, partiti, sindacati, stampa ed editoria, ecc.)—sono certo di rilevante importanza per la fondazione del dominio di classe e per la riproduzione dei rapporti di produzione capitalistici, ma possono esplicare convenientemente la loro funzione solo in quanto vengono posti sotto la protezione dello ‘scudo’ (della ‘corazza’) rappresentato dall’ apparato di coercizione. La stessa azione del Governo, organo fondamentale di direzione dello Stato borghese, deve avere come sua ultima (e suprema) garanzia—qualora le mediazioni egemoniche non funzionino più adeguatamente—tale apparato repressivo.”14 A partire da questa acquisizione, ponevi però l’accento sul fatto che “la concezione leninista concentra la visibilità su quello che è…il nucleo essenziale dello Stato—l’apparato di coercizione che si erge come baluardo estremo dell’ unità del potere della classe dominante e della riproduzione dei rapporti capitalistici—ma impedisce di considerare gli apparati del dominio politico capitalistico in tutta la loro complessità (e specificità).” 15 Per poter procedere nella considerazione tale complessità e specificità degli apparati statali si riconosce che “se l’idea della non neutralità dello Stato rappresenta un’altra delle acquisizioni fondamentali del leninismo—…—tuttavia, il semplicismo dell’idea che lo Stato rappresenti,in ogni epoca storica, l’emanazione della classe sfruttatrice sacrifica la considerazione dell’ assoluta specificità dello Stato capitalistico. Lo Stato del modo di produzione capitalistico non può essere paragonato alle istanze politiche di altre formazioni sociali. Lo Stato capitalistico si forma infatti in relazione alla necessaria frammentazione della produzione sociale in tante unità produttive separate, fenomeno specifico del modo di produzione capitalistico, dovuto all’introduzione del potere dello sfruttatore all’interno stesso del processo di lavoro e alla continua riproduzione ‘approfondita’ dei rapporti di produzione capitalistici. Tale frammentazione esige, da un lato, la connessione esterna operata da quel tessuto connettivo, peculiare della società capitalistica, che è la circolazione; quest’ultima non è riducibile al mercato on senso stretto ma comprende…gli apparati della mediazione politica. Dall’altro lato, l’esistenza frammentata della produzione capitalistica fa sì che la classe capitalistica non si presenti immediatamente come classe unitaria, ma al contrario come classe intimamente frazionata e conflittuale, ed abbi perciò la necessità di recuperare ad un altro livello la propria identità di classe dominante, tramite un’istanza specificamente destinata all’esercizio del dominio politico : lo Stato,…,strettamente inteso come nucleo coercitivo.” 16Lo Stato (anche nella sua strutturazione) è quindi qui inteso come sia come il luogo di ricomposizione ed unificazione della classe dominante sia come luogo in cui questo dominio assume una forma compiuta, infatti affinché “…la classe borghese, dominante nella formazione sociale contraddistinta dal modo di produzione capitalistico, possa costituirsi effettivamente in classe per sé—che agisce secondo direttrici politiche tendenti all’unificazione e al ‘compattamento’ dell’organizzazione sociale—attraverso la mediazione dello Stato (il potere esecutivo, il Governo) che sia sempre in grado di utilizzare—come garanzia centrale del suo potere—l’apparato coercitivo, la cui struttura e le cui pratiche organizzative sono rette da principi unitari e ferramente ordinati al mantenimento delle condizioni necessarie alla riproduzione dei rapporti capitalistici.” 17 In sintesi secondo la Turchetto: “…la classe capitalistica si costituisce oggettivamente nel processo di approfondimento del dominio del capitale nella produzione; si costituisce in soggetto nella sfera dei rapporti di circolazione ; si costituisce in classe dominante (…) tramite lo Stato.” 18 Invece, nella formulazione attuale dello Stato come campo conflittuale tra gruppi dominanti, la dimensione della mediazione e ricomposizione, assume in primo luogo un ruolo subordinato rispetto a quello prioritario del conflitto e, soprattutto, la forma della ricomposizione è determinata dall’avvenuta conquista della supremazia—sempre temporanea e reversibile—da parte di uno dei gruppi di decisori in conflitto, che impone agli altri la sua particolarità sotto la forma della generalità. La classe dominante non è quindi un Soggetto—tantomeno un soggetto unitario, ma è la risultante di un conflitto tra gruppi di decisori, intrecciati nelle tre sfere sociali economiche, politiche ed ideologico-culturali. Lo Stato definisce nello stesso tempo, sia le modalità secondo le quali un gruppo di decisori giunge ad imporsi e ad esercitare la propria supremazia, sia le forme attraverso cui questa supremazia (quella di un gruppo particolare) deve essere espressa per essere riconosciuta dagli altri gruppi in conflitto (in primo luogo di decisori, ma anche di non-decisori) come valida e legittima per tutti (assumendo quindi la forma della generalità).
4. “Nemmeno si deve però trattare lo Stato quale soggetto a se stante, talvolta preso per padrone della società, altre volte quale organizzatore di servizi generali per la collettività abitante in un dato territorio geografico-sociale. E’ facile farsi abbagliare da tale apparenza poiché gli apparati costituenti lo Stato sono stretti in fascio da una regolamentazione giuridica, che sembra unirli in un tutto compatto e funzionante in scorrevole coordinamento, servendosi della cosiddetta burocrazia, corpo di funzionari selezionati, inquadrati in cosiddetti organici con rigide carriere ben scandite nei loro passi successivi e che, in teoria, devono svolgere le loro attività lavorative secondo principi organizzativi ben definiti e in modo relativamente omogeneo.”. 19Si deve perciò prestare attenzione al fatto che “Le mosse strategiche effettuate in determinati campi, stabilizzati mediante l’analisi (con formulazione di teorie) e di cui si prevedono date evoluzioni in base alla “costruzione cinematica”, utilizzano necessariamente vari insiemi di organismi e di apparati, fra cui fondamentali sono quelli costituenti lo Stato, i quali sono i più stabili e durano spesso, nella loro strutturazione (normalizzata tramite regole giuridiche), per intere fasi storiche.” 20
A proposito dello Stato colto esclusivamente nel suo carattere di ente “organizzatore di servizi generali”, ritengo ancora calzante la discriminante leniniana secondo la quale“Proprio su questo punto vien fuori il piccolo borghese per il quale lo Stato è ‘comunque’ qualcosa che sta al di fuori o al di sopra delle classi.”21 Infatti, tale caratteristica dello Stato è strettamente connessa al suo assumere la forma giuridica, per cui osservava Pasukanis “Come la ricchezza della società capitalistica prende la forma di una enorme accumulazione di merci, così la stessa società si presenta simile ad una interminabile catena di rapporti giuridici.”22 Pasukanis, infatti operò un tentativo di re-interpretare il diritto con riferimento alla forma di merce capitalistica. Partendo dal presupposto fondamentale che la forma specifica della regolamentazione giuridica capitalistica nasceva dalla forma di merce (e, secondo lui dall’antagonismo degli interessi privati), Pasukanis cercò di spiegare la correlazione esistente fra lo Stato, il moderno diritto formale astratto ed i rapporti sociali capitalistici. Pur con la consapevolezza da noi acquisita della complementarietà della coppia ideologica pubblico/privato, ritengo fecondo, per comprendere perché lo Stato assuma tale veste giuridica come sua forma di superficie, utilizzare gli spunti traibili da Pasukanis. Egli parte dalla constatazione che “L’apparato statuale si attua in effetti come ‘volontà generale impersonale’, come ‘autorità del diritto’ e così via, in quanto la stessa società costituisce un mercato. In esso ogni venditore ed ogni acquirente, come si è visto, si determina come soggetto giuridico par excellence.”23 Ne enuclea quindi il seguente interrogativo:“Dietro tutte queste controversie si nasconde un problema di fondo: perché mai il dominio di classe non rimane ciò che è, l’assoggettamento di fatto di un settore della popolazione ad opera di un altro, ed assume la forma di un potere ufficiale dello Stato; o, che è lo stesso, perché il sistema di coercizione statuale non si determina già come apparato privato della classe dominante, ma assume caratteri distintivi di apparato pubblico impersonale, separato dal corpo della società?”24 Ma a questo punto si pone un problema analogo a quello marxiano sulla genesi del plusvalore in rapporto alla sfera circolatoria dove stazionano formalmente eguagliati i possessori di merci: “La coercizione, nella misura in cui si definisce come comando di un uomo nei confronti di un altro e si sancisce per mezzo della forza, contraddice alla premessa fondamentale della relazione tra possessori di merci. In una società di possessori di merci, quindi, e all’interno di un atto di scambio, il compito della coercizione non si può realizzare come funzione sociale senza essere astratta ed impersonale. Per una società produttrice di merci la subordinazione di un uomo ad un altro uomo come tale, in quanto specifico individuo, comporta la soggezione all’arbitrio, coincidendo con la subordinazione di un possessore di merci ad un altro, e così anche la coercizione non si può sviluppare qui in forma diretta, come un atto esclusivamente strumentale. Essa deve operare come coercizione che trova la sua matrice in una qualche persona astratta e generale, che si realizza non per un interesse specifico dell’individuo da cui promana—in una società mercantile ogni uomo è un uomo egoista—, ma che parte dall’interesse di tutti i soggetti della comunicazione giuridica. Il dominio dell’uomo sull’uomo si attua come dominio del diritto, in altre parole come dominio di una norma astratta ed imparziale.”25 Da ciò ne ricava la considerazione che “Il potere politico classista può rivestirsi della forma di un potere pubblico proprio perché il rapporto di sfruttamento si configura formalmente come un rapporto tra due possessori di merci ‘indipendenti’, in cui il proletario vende la forza-lavoro e il proprietario la compera.”26 La soluzione generale richiesta dalla forma capitalistica del potere prevede quindi che “Parallelamente al diretto dominio di classe si configura un dominio indiretto, mediato, nella forma del potere dello Stato come forza speciale, separata dalla società. Nasce così il problema dello Stato, che per essere analizzato comporta difficoltà non minori del problema della merce“.27
Riassumendo: Pasukanis si chiede perché lo Stato in quanto espressione della classe dominante assuma la forma di un’associazione di dominio pubblico e non quella di un’associazione di dominio privato. Dal che ricaviamo la funzionalità della forma pubblica nella riproduzione del dominio rispetto a quella privata. Conformemente alla struttura della sfera circolatoria, dove l’eguaglianza giuridica tra i possessori di merci occulta e dissimula quanto avviene nella sfera della produzione, la forma pubblica occulta sia il dominio sia il suo celare dietro la ‘generalità’ il conflitto di gruppi di agenti dominanti volta a volta prevalenti nella loro ‘particolarità’. La ‘particolarità’ del gruppo di agenti strategici dominanti che prevale, assume—per quel dato tempo che la prevalenza dura—la forma della ‘generalità’. Analogamente al fatto che nel modo di produzione capitalistico il pluslavoro è secondo Marx, invisibile (reso invisibile direttamente) in quanto inscindibile nell’unitarietà del tempo di lavoro (e dall’essere la forza lavoro divenuta essa stessa merce), la forma privata di quell’associazione di dominio che è lo Stato è nascosta (resa invisibile direttamente) nel suo necessario manifestarsi in forma pubblica.
Inoltre il conflitto è regolato giuridicamente definendo e delimitando:
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quali sono gli apparati deputati formalmente all’espressione del conflitto—nelle sue forme di superficie rappresentate dal davanti della scena (e di converso, quali sono quali ne sono formalmente esclusi);
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quali sono le poste in gioco accettabili e presentabili e quali le modalità d’azione consentite;
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la formale esclusione del conflitto tra apparati ed interno agli apparati stessi, in modo che esso rappresenti ordinariamente una dimensione anomala e patologica.
Tutto questo mantenendo la consapevolezza tipica di quello che tu chiami il primo svelamento. Per dirla con le parole di Zolo: “La concezione borghese del diritto come strumento di realizzazione del valore ideale della giustizia e, in essa, dell’uguaglianza e della libertà, è, al pari della teologia, con cui presenta notevoli affinità, forma ideologica diretta ad occultare i reali meccanismi discriminatori e oppressivi della statualità borghese.”28 Per Zolo “l’elemento fondamentale della teoria marxiana (e marxista) dello Stato è l’analisi delle antinomie del principio rappresentativo come principio di atomizzazione del corpo sociale e di delegazione ‘sostituiva’ della sovranità popolare (la rappresentanza come semplice ‘designazione’ e ‘deputazione’, il divieto del mandato imperativo, il carattere organico delle assemblee parlamentari, ecc.). Ed è, assieme, la critica del formalismo ‘politico’ moderno come dissociazione fra la sfera politica e la sfera civile, fra il pubblico e il privato, fra l’universalismo astratto dello Stato e il particolarismo acquisitivo della sfera pubblica, fra l’eguaglianza formale e la disparità di fatto.”.29 Penso invece che, per quanto rilevante, questa contraddizione tra formale e sostanziale, non sia il punto decisivo di una teoria dello Stato, tantomeno in quella marxiana, che va invece (come hai più volte ben spiegato) derivata a partire dalla centralità del rapporto sociale capitalistico (di produzione) fondato sulla proprietà o meno dei mezzi di produzione, con annessi corollari—anche per quanto riguarda lo Stato—ricavabili all’ipotesi della dinamica della formazione del lavoratore collettivo cooperativo con relative conseguenze. Sottinteso è che la forma (giuridica) assunta dallo Stato, quale lato con cui presentarsi immediatamente non deve mai oscurarne il suo fondamento costituito dagli apparati coercitivi. Tanto che perfino il massimo esponente del formalismo giuridico (Kelsen) si espresse in questi termini : “La moderna teoria dello Stato intende per Stato un’associazione di dominio.., un ordinamento costrittivo e questo coincide con l’ordinamento giuridico.”30
5.“Ribadisco che gli apparatistatali sono strumenti derivati, seppure indispensabili, dello strumento principe del conflitto: le strategie, impiegate” 31
Qui hai realizzato a mio avviso, un significativo avanzamento, circa la problematica dello Stato, che sta venendo riformulata a partire dalla tua ipotesi paradigmatica di fondo. Il conflitto strategico ha come mezzo principale le strategie per il dominio (per prevalere, ottenere la supremazia) predisposte ed attivate dai vari gruppi di agenti strategici in conflitto (nelle diverse sfere sociali). A loro volta le strategie approntate per il conflitto impiegano quali propri strumenti, apparati come lo Stato (insieme strutturato di apparati di diversa funzione e decisività). Questa formulazione dello Stato come strumento, non viene insidiata dalla tradizionale critica althusseriana perseguita da Poulantzas, Queste posizioni criticavano la concezione strumentalista dello Stato, perché in essa lo Stato era un’emanazione della volontà della classe dominante, che lo usava quindi come un suo strumento. Implicita vi era una data concezione del rapporto Soggetto-Oggetto, secondo la quale un dato Soggetto si rapportava ad un ‘Oggetto (lo Stato), appunto, strumentalmente. Secondo Poulantzas infatti, in quanto strumento “lo Stato si ridurrebbe al dominio politico, nel senso che ogni classe dominante si confezionerebbe il proprio Stato su misura e lo manipolerebbe così, a piacere, secondo i propri interessi. Ogni Stato sarebbe, e in questo senso preciso, una dittatura di classe. Concezione puramente strumentale dello Stato, che riduce, impieghiamo già i termini, l’apparato di Stato al potere di Stato.”32 In particolare Althusser aveva distinto il Potere di Stato dagli Apparati di Stato, sostenendo che la concezione strumentalista vedeva solo il primo dei due. Lo Stato risultava quindi essere un Oggetto, mentre invece era da pensarsi come un rapporto, un rapporto di forza tra le classi (Potere di Stato), che poi si condensava in forme organizzative stabili (Apparati di Stato). Da ciò derivava la centralità degli apparati in quanto condensazione dei rapporti di forza. Gli apparati (al di là del fatto che si opti per la priorità di quelli repressivi o di quelli ideologici) sarebbero l’espressione materiale del dominio politico (analogamente a come, nelle tue formulazioni degli anni Ottanta, le macchine che incorporavano la divisione tecnica del lavoro—a sua volta ipotizzata come il tratto specifico dei rapporti sociali di produzione capitalistici). Ancora con le parole di Poulantzas: “si tratta di una concezione strumentalista: lo Stato come strumento o macchina (mi sono lasciato scappare il parolone), maneggiabile ad libitum, in mano alle classi dominanti. Il potere sarebbe un’entità quantificabile, incarnata in questo Stato ipostatizzato in Oggetto. Se passiamo dalla metafora meccanicistica alla metafora topologica, il risultato è più o meno questo: lo Stato costituisce un blocco monolitico senza faglie, tranne quelle risultanti dalle disfunzioni della burocrazia. Le contraddizioni interne allo Stato come contraddizioni di classe non saranno mai accettabili per il suo nocciolo duro ma, al limite, solo per gli A.I.E. Questo Stato resta una fortezza inespugnabile per le lotte rivoluzionarie delle classi dominate. Concezione strumentalista, ma essenziali sta anche dello Stato: o le masse popolari vi sono incluse—‘integrate’, e quindi contaminate dalla pestilenza borghese che infesta la fortezza o rimangono pure alla ricerca del loro per-sé/coscienza di classe (partito), e quindi sono radicalmente fuori dalle mura. Conquistare il potere di Stato non può quindi significare, per lo meno per il suo nocciolo duro, altro che penetrare nella fortezza dal di fuori, tramite assalto-guerra di movimento o per accerchiamento-guerra di posizione (Gramsci), cioè sempre tramite una strategia ‘frontale’ del tipo a doppio potere. Il partito quindi non può essere posto che fuori-Stato, operando come anti-Stato per la costituzione del secondo potere (Soviets) che sostituirà il primo (distruzione dello Stato).”33 Invece la collocazione concettuale che tu effettui in questo scritto dell’entità Stato quale strumento, è profondamente differente da quella sopra ricordata, ma ciò andrebbe a mio avviso precisato ed argomentato esplicitamente nelle sue motivazioni di fondo. Si dovrebbe partire dal fatto che se ad un primo livello ipotizzi che lo Stato sia classificabile come uno strumento analogamente alla finanza, poi si deve articolare quali sono le modalità di derivazione di tale strumento rispetto alle strategie. Hai individuato ed esposto con precisione—anche nel tuo ultimo scritto in corso d’opera ‘Sommarie riflessioni sulla crisi’—perché la crisi si manifesta in primo luogo alla superficie necessariamente tramite l’aspetto finanziario: ma come investe lo Stato e i suoi apparati? Attraverso l’acutizzarsi del conflitto tra gruppi di decisori rispetto a strategie diverse? Prima di quello che definisci “regolamento di conti bellico” quindi tra Stati, non vi è un regolamento di conti politico interno ad ogni Stato proprio per affrontare al meglio l’altro regolamento? La finanza è uno strumento sicuramente più flessibile rispetto agli apparati statali, per cui l’essere accomunati in quanto strumenti di strategie del conflitto per la supremazia, va accompagnato con la differenzazione in quanto strumenti, per loro natura e campo d’applicazione, differenti. In quel saggio in corso d’opera, hai posto un primo punto per cui “Gli apparati sono meno flessibili e mutevoli delle strategie, permangono di solito a lungo nella loro ‘condensazione’ e ‘materialità’.” 34
Andando oltre, ritengo che, se si opta per la collocazione dello Stato quale strumento rispetto alle strategie che sono a loro volta i veri mezzi del conflitto strategico, si deve precisare che gli apparati statali sono attraversati dal conflitto tra le strategie. Apparati che, sono sempre la stabilizzazione dovuta alla prevalenza, in ogni caso temporanea—dove l’entità di tale temporaneità, solo con l’analisi di fase e l’analisi della disposizione dei blocchi sociali in campo in un dato momento in una data formazione sociale, può, ed anche in tal caso, solo in parte venire delineata—di uno o più gruppi di agenti strategici coalizzati. Di conseguenza, gli apparati statali esprimono anche la condensazione del conflitto di cui sono strumenti (il che li rende strumenti del tutto particolari nella loro natura). Lo Stato, controllato ed orientato dal gruppo temporaneamente prevalente è uno strumento del conflitto tra questi stessi gruppi, ma dissimula la sua azione ed il suo essere parte in gioco (se questo avvenisse ordinariamente, il gioco sarebbe scoperto e avrebbe più difficoltà a funzionare). Se è quindi vero che lo Stato non è un Oggetto a disposizione di un Soggetto, perché questo Oggetto sarebbe il luogo di ricomposizione della classe dominante in quanto Soggetto, è però un luogo dove si dispiega il conflitto tra gruppi dominanti e dove la sintesi (ricomposizione) non è mai data in modo definitivo, né scaturisce dalla cooperazione armonica ma risulta dalla supremazia raggiunta da uno di questi gruppi. Supremazia, che viene accettata e riconosciuta (obtorto collo) dagli altri gruppi dominanti, pur potendo venire da questi sempre insidiata, ricercando essi nel tempo le occasioni ritenute più opportune, al fine di rovesciarla., Tutto questo però si dispiega ordinariamente sempre entro un campo da gioco che rimane inviolato (o ripristinato con lo Stato d’eccezione, se necessario), da tutti i contendenti, nessuno dei quali vuole distruggerlo, sapendo quali sono le regole di tale gioco, affinchè possa continuare ad essere giocato (pur con variazioni, anche all’interno di una data fase, epoca…). I gruppi dei dominati che entrano nel gioco, entrano in quel gioco ed in quel campo da gioco, e la prima regola implicita (ma sono le regole che veramente contano) sarà sempre quella di non farne emergere la sua effettiva funzione (mi riferisco qui, ai soli gruppi che intendevano effettivamente incidere sul gioco con propri scopi autonomi non funzionali alla riproduzione di tal gioco; per gli altri l’unico problema è solo entrare e permanervi, ed il consenso della base è solo una risorsa contrattuale per mantenersi dentro tale gioco) pena la messa fuori dal gioco stesso. L’essere strumento dello Stato è diverso, rispetto alle formulazioni precedenti: il rapporto sociale (di forza) non è incorporato nell’apparato (in nessun apparato), esattamente come il rapporto sociale di produzione capitalistico non era incorporato (oggettivato) dalla divisione tecnica del lavoro, senza ritornare riformisticamente alla tematica dell’uso dello Stato, in quanto neutrale rispetto alle classi sociali. Nell’ipotesi del conflitto strategico muta non tanto la natura capitalistica dello Stato, ma il contenuto di questa natura: lo Stato non è neutrale rispetto ai raggruppamenti sociali perché costituisce il campo di battaglia tra i gruppi sociali dominanti, né lo è rispetto ai dominati perché nasconde e dissimula il suddetto essere campo di battaglia tra dominanti ed al contempo il suo costituirne il baluardo coercitivo (sia rispetto all’essere campo di battaglia tra dominanti che al suo essere uno strumento di dominio verso i dominati). Quindi, anche attraverso questi nascondimenti, mascherati dietro la sua forma ideologica prevalente che è quella dell’ideologia giuridica, lo Stato contribuisce alla riproduzione di un dato assetto di una data formazione sociale, sia verso l’interno, che verso l’assetto tra le diverse formazioni sociali. Per poter usufruire di questa sua caratteristica di dissimulazione degli interessi di gruppi sociali particolari, facendogli assumere la forma dell’interesse generale, nessuno di tali gruppi dominanti, sia quelli al momento prevalenti che quelli al momento soccombenti, disvela tale caratteristica: questa è una regola del gioco ordinaria, che si può contravvenire solo in casi estremi, in cui il conflitto eccede i limiti entro cui deve svolgersi, che per questo si qualifica come straordinaria. Questa lacerazione del velo (giuridico) di copertura avviene solo in contingenze eccezionali, rappresentando il sintomo di una crisi rivoluzionaria (dentro o contro il capitale): in queste circostanze, la sottostante dimensione della forza emerge in modo preponderante rispetto all’ordinario procedere degli apparati statali presi nel loro insieme.
Voglio fare qui un’ulteriore considerazione. Come ho richiamato nel punto 3 di queste mie riflessioni, nelle tue formulazioni degli anni settanta e ottanta lo Stato era visto come un’istanza ricompositiva, pur se molto diversa dalle teorizzazioni della tradizione marxista in cui lo Stato sembrava svolgere un ruolo di capitale complessivo sociale quale soggetto cosciente che media tra i diversi capitali (e le frazioni di classe capitalistica che ne è sono la soggettivazione) avente come fine—consapevolmente perseguito—della riproduzione del sistema sociale nel suo complesso. Vi era però un punto in comune tra queste due posizioni. In entrambe, se è vero che allo Stato non era attribuito un ruolo super partes rispetto alla conflittualità tra le classi—pilastro della concezione liberale (e di ogni ideologia, che proprio per questo assume una connotazione capitalistica )—si riteneva che lo Stato esercitasse però un ruolo super partes (quindi neutrale) rispetto alla conflittualità tra le diverse ‘frazioni’ della classe capitalistica. Il paradigma della centralità del conflitto strategico consente di sostenere che lo Stato non è neutrale neppure rispetto ai diversi gruppi di dominanti che lottano per la supremazia. Lo Stato è un campo conflittuale in cui però, quel gruppo di dominanti che ne controlla e orienta i suoi apparati decisivi, rispetto agli altri gruppi in conflitto con i primi che non ne dispongono in egual misura (o controllano apparati statali di minor ‘peso’), dispone di un maggior potere d’influsso sul processo decisionale. Lo Stato è quindi anche una posta in gioco del conflitto infradominanti, per cui i gruppi dominanti temporaneamente soccombenti, ambiscono a conquistare loro gli apparati decisivi: per questo ne rispettano le ‘regole’ (quelle vere, sostanziali, non quelle formalisticamente decantate per il ‘popolo sovrano’…..su nulla!): non possono certo demolire, smascherando lo strumento che, anche se al momento è usato contro di loro o a loro sfavore, potrebbe—una volta (ri)acquisitone il controllo—essere usato da loro stessi, sempre sotto il comodo e pieghevole mantello della generalità.
6.“In un certo senso, senza esagerare nell’assimilazione analogica dei diversi fenomeni, i rapporti tra Stati – e tra paesi di cui gli Stati sono organi di “amministrazione degli affari generali”, muniti però di forza coercitiva onde orientare la riproduzione dei rapporti sociali secondo gli interessi dei gruppi dominanti ivi in conflitto per la supremazia – sono simili a quelli tra i possessori di merci nell’organizzazione sociale della produzione capitalistica. I possessori di merci sono “liberi ed eguali” sul piano formale della contrattazione; sono diseguali nella situazione reale di possessori di merci di natura differente: i mezzi di produzione (i capitali monetari, o assimilati a questi, necessari ad acquistarli in qualità di merci) in mano a storicamente specifici gruppi dominanti, la mera forza (capacità) di lavoro in libera disposizione di chi ha soltanto questa “cosa” da vendere, come merce, per vivere. Gli Stati sono formalmente eguali fra loro e apparentemente liberi nella contrattazione o meno – anche nell’assenza di contrattazione vi è apparente libertà tra i non contraenti – intesa a tessere i loro reciproci rapporti.”35
Utilizzerei l’analogia anche per gli ‘individui’ nella sfera ‘circolatoria’ interna degli Stati, dove è lo Stato stesso a porre—giuridicamente, attraverso strumenti giuridici che generano l’ideologia giuridica dominante—gli individui come ‘liberi ed eguali’ rispetto a se stesso. Trova qui fondamento il davanti della scena (e la conseguente preferenza) della forma democratica dello Stato, donde occorre lo svelamento che gli ‘individui’ sono dotati di forza diseguale ed i conseguenti rapporti di forza sono la determinante effettiva (il sotto o dietro della scena). Solo da questo punto di osservazione si può mostrare come lo Stato sia un campo di battaglia tra gruppi di dominanti (in cui s’inseriscono—in modo subalterno sotto date condizioni—anche i gruppi rappresentanti i dominati) e che i mezzi ed il terreno su cui lo scontro/confronto avviene sono di natura diversa rispetto a quello declamato e presentato sul davanti della scena (preferito perché da forza all’ideologia giuridica dominante del ‘liberi ed eguali’ sul mercato elettorale e sovranità dell’elettore—identica a quella del consumatore). Detto con le parole del grande Lenin: “Nello Stato borghese più democratico le masse oppresse s’imbattono a ogni passo nella stridente contraddizione tra l’uguaglianza formale, proclamata dalla ‘democrazia’ dei capitalisti, e gli infiniti sotterfugi e restrizioni reali, che fanno dei proletari degli schiavi salariati. Proprio questa contraddizione apre gli occhi alle masse sulla putrescenza, sulla menzogna, sull’ipocrisia del capitalismo.”36 Su quest’ultimo punto (al di là del fatto che tale contraddizione che aprirebbe o meno gli occhi…) però il contrasto tra formale e reale non è più sufficiente (se mai lo è stato) a rappresentare l’intrinseca contraddittorietà della forma democratica dello Stato. Anche riconoscendo che il contrasto tra formale e reale non è occasionale ma strutturale, si rimane pur sempre all’interno di quello che La Grassa definisce ‘primo svelamento’: importantissimo e da mantenere, ma al contempo si deve andare oltre. Dove oltre significa rappresentare lo Stato—qualunque sia la forma prevalente, democratica o autoritaria—come un campo conflittuale tra gruppi di dominanti.
7. Ho notato che in un commento di F. al tuo lavoro sulla crisi, al punto 7 si rileva che la “sfera economica nel modo di produzione capitalistico deve restare centrale nel prosieguo della sua opera teorica. Se si perdesse questo punto, infatti, il pensiero di GLG finirebbe con l’arrivare esattamente al punto dove sono arrivati i neo-weberiani, anche se tramite un percorso originale.”. Anche qui che un detour rispetto alle tue posizioni precedenti è stato a me utile per chiare il nesso tra queste due sfere sociali, a sfera economica e la sfera politica, di estrema importanza per l’impostazione della problematica dello Stato. Nelle tue formulazioni degli anni settanta e ottanta il nesso era, a mio avviso, così impostato: “In altri tipi di società pre-capitalistici …il potere politico è immediatamente la forma suprema della connessione sociale, l’istanza di dominio degli sfruttatori, che costituisce lo ‘spazio sociale’ entro cui vengono ad unificarsi i processi lavorativi (divisi socialmente nell’ambito della comunità di villaggio, così come tra le diverse comunità [il lavoro si presenta come diviso socialmente al suo interno, ma le sue varie parti sono immediatamente connesse tra loro]) controllati direttamente dai produttori sfruttati.” 37 Con l’affermarsi del modo di produzione capitalistico “L’introduzione del potere dello sfruttatore all’interno del processo di lavoro,…, spezza quello spazio sociale, quel tessuto connettivo, costituito dall’esercizio del potere feudale (esterno alla produzione), nell’ambito del quale i vari processi lavorativi appaiono immediatamente connessi l’uno all’altro.” 38 Si determina di conseguenza “La frammentazione del processo lavorativo (…) moltiplica incessantemente i processi di lavoro e quindi i settori e le unità in cui può essere suddivisa la produzione sociale complessiva. D’altra parte,…,il potere (interno) capitalistico spezza quello esterno ai processi di lavoro, dissolve lo spazio sociale in cui questi ultimi sono immersi come unità produttive il cui nesso sociale è immediatamente nella forma del ‘politico’ e dell’ ‘ideologico’, dipende dai più generali rapporti di dominio-servitù. Nel capitalismo, allora, il nesso sociale tra i diversi processi di lavoro, tra le diverse unità produttive (…), si manifesta nella forma dell’ ‘economico’ (cioè della mediazione non consapevole, cieca , automatica). […] Gli apparati di carattere politico-ideologico sembrano restringersi al minimo indispensabile e costituiscono la mera cornice dello sviluppo (in genere nazionale) delle varie società capitalistiche. Lo Stato del capitale appare nella sua funzione essenziale di scudo protettivo,di ‘nucleo’ di coercizione (necessario ad impedire che il conflitto delle classi porti alla disgregazione della società. Il dominio della classe capitalistica è essenzialmente economico; il governo dello Stato si presenta come ‘comitato d’affari’ della borghesia, preposto cioè all’espletamento degli affari generali di tale classe.”39L’introduzione del potere dello sfruttatore dentro il processo produttivo quindi ridefiniva sia luoghi e funzioni del potere politico che i termini del rapporto tra sfera economica e sfera politica (Stato in primis). Lo Stato assume la funzione di scudo coercitivo esterno, involucro protettivo della ordinata riproduzione dei rapporti sociali. Si poneva di conseguenza il problema del rapporto tra potere nella sfera economica e potere nella sfera politica (Stato), che comunque fosse concettualizzato, sia come connesso quale scudo dei rapporti sociali di produzione che come altro da essi in quanto autonomo (e in interazione con esso), era sempre un rapporto tra un’istanza decisiva (determinazione in ultima istanza) e un’entità funzionale e necessaria ma di grado inferiore rispetto alla prima (l’inversione di dominanza tra sfera economica e sfera politica praticata da Poulantzas, non risolve questo problema ma si limita appunto a rovesciarne i termini della determinazione). Il conflitto strategico riguardo a questo consente di impostare così la questione:“In ogni caso, con l’avvento del capitalismo, la sfera economica, duplicatasi necessariamente in produttiva e finanziaria (“produzione” e commercio di denaro nelle sue svariate forme), diventa pur essa luogo di scontro per la supremazia nella società. Mentre la scienza del “capitale” (dei dominanti) vede nel mercato il luogo precipuo della competizione, considerata virtuosa perché condotta secondo i metodi del miglioramento e innovazione delle tecniche produttive e dei prodotti, Marx individua la reale diseguaglianza esistente tra i soggetti implicati in questo specifico ambito (…). Tuttavia, egli pensa come fondamentali i rapporti sociali esistenti nell’ambito della produzione e punta l’attenzione sulla proprietà dei mezzi produttivi da parte di particolari soggetti riuniti nel concetto di classe borghese, considerati in netto antagonismo rispetto ai non proprietari e controllori della sola forza lavorativa venduta appunto in qualità di merce. In realtà, per quanto sia stata indubbiamente un mutamento rilevante l’estensione del conflitto per la supremazia dalle sfere politica e ideologico-culturale a quella economica (produttiva e finanziaria), è rimasto un elemento di ‘invarianza’ che attribuisce determinati connotati comuni alle diverse formazioni sociali conosciute.”40 Da che cosa è costituita questa invarianza? Risposta: “E’ la politica il fulcro di detta dinamica, non meno che nelle società precapitalistiche; solo che nella nuova formazione sociale essa si è estesa alla sfera dell’economia, a sua volta scissasi nelle due sottosfere già più volte indicate.”41 Ritornando poi dalla dimensione invariante (la centralità del conflitto strategico nelle diverse formazioni sociali storicamente succedutasi) alla dimensione della specificità, precisi che “il conseguente estendersi della lotta per la predominanza all’ambito economico – prima solo fondamentale per la sopravvivenza della società, mentre le questioni del potere e della competizione per conquistarlo si risolvevano nelle altre due partizioni della società – hanno comportato mutamenti profondi in detta lotta. I mezzi economici, quale strumento di quest’ultima, hanno acquistato rilevanza.”42 Che cosa significhi e implichi questo mutamento profondo dovuto a tale estensione del conflitto strategico nella sfera economica è ben esemplificato e chiarito dal seguente passo: “Lo scontro tra detti paesi per la supremazia – una volta che alcuni d’essi conquistarono la forza per contestare quella inglese – doveva certo impiegare, in ultima analisi, gli strumenti di sempre, cioè le armi e gli eserciti (oltre alla diplomazia, alle pressioni, alla corruzione o convincimento per interesse di dati gruppi dominanti in altri paesi, ecc.); tuttavia, la sfera economica era divenuta un decisivo strumento corroborante l’impiego dei mezzi d’ultima istanza.”43 Quindi le entità decisive nella sfera economica diventano anch’essi strumenti. Precisamente strumenti che vanno a ‘corroborare’ gli altri strumenti già a disposizione delle strategie. Di conseguenza, “I capitalisti partecipano però alla lotta per la prevalenza in quanto siano capaci di svolgere la politica, le strategie della lotta; i loro strumenti, ma solo strumenti, di battaglia sono le imprese, sono i mezzi produttivi e il denaro da essi controllati. Questi strumenti sono divenuti, sia nelle teorie apologetiche che in quelle critiche del capitalismo, l’aspetto centrale, la vera causa della dinamica di tale società. Questo è stato l’errore fondamentale di apologeti e critici insieme. E’ la politica il fulcro di detta dinamica, non meno che nelle società precapitalistiche; solo che nella nuova formazione sociale essa si è estesa alla sfera dell’economia, a sua volta scissasi nelle due sottosfere già più volte indicate.” 44 Viene quindi ribadita la distinzione tra politica in quanto tale, e la sfera politica in quanto sfera (partizione) sociale: “Le strategie del conflitto sono quelle che denomino, in mancanza di un termine migliore, la politica nel suo senso più proprio; mentre gli apparati detti politici (ed oggi, primieramente, quelli denominati Stato nel loro insieme) sono suoi strumenti di esercizio, esattamente come solo strumenti sono quelli in cui si va condensando la lotta ideologica (anche nel senso di scontro di “idee sul mondo”), aspetto certo rilevante ma non quello “decisivo in ultima istanza” nel conflitto per prevalere.”45
Anche la sfera politica risulta modificata profondamente dall’estensione del conflitto strategico alla sfera economica. In primo luogo perché deve tenere conto che si aggiungono nuovi strumenti e ambiti del conflitto, per cui la sfera politica e la sfera ideologico-culturale vengono affiancate e ridefinite sia nel loro peso nella partizione sociale riguardo al terreno del conflitto sia nella loro configurazione interna. Infatti anche la sfera politica viene modificata dalla generalizzazione della forma di merce e denaro. Inoltre la presenza e l’influenza di strumenti tipici della sfera economica, quali l’impresa e la banca, a loro volta incidono nel rimodellare la sfera politica. Lo Stato, è un’entità—nuova rispetto a precedenti unità di dominio politico di formazioni sociali pre-capitalistiche—che emerge nella sfera politica quale strumento del conflitto (nel duplice senso di costituire un ambito del conflitto ed un mezzo per combattere il conflitto stesso) che si affianca agli altri strumenti (avendo ovviamente presente che lo Stato, in quanto insieme strutturato di apparati che si muove nella sfera politica, è uno strumento che, in quanto strumento, impiegato dalle strategie, è ad un tempo analogo e differente dall’impresa e dalla banca). Per tornare al punto in questione, il nesso tra sfera economica e sfera politica è a mio avviso chiarito in questo passo di un tuo saggio precedente. “In ogni sfera della società – ricordo sempre che si tratta di una sua divisione teorica – esistono vari soggetti, gli agenti in quella data sfera, che tendono a dotarsi di strumenti (apparati, metodologie d’azione, specifiche finalità di breve momento e parziali, ecc.) in grado di consentire loro particolari attività il cui risultato (“prodotto”, detto in senso lato) è una quantità di energia, di potenza, che serva al controllo e orientamento, di più lungo periodo, di porzioni le più ampie possibile di quella determinata sfera sociale e, per loro tramite, della società nel suo insieme. Gli agenti economici (delle strategie d’impresa) sviluppano questa energia per rendere sempre più ampie le quote di mercato dei loro gruppi imprenditoriali, ma da qui prendono le mosse per aumentare la loro influenza sociale complessiva. Gli agenti dominanti strategico-politici agiscono nello stesso senso: esplicano energia, in reciproco conflitto, per la conquista di parti sempre più ampie del territorio della politica, onde impiantare più solide radici nella società tutta a vantaggio delle proprie frazioni di appartenenza. Sia gli uni che gli altri non potrebbero mai sviluppare tali loro attività, tese a “produrre” questi “grumi di potenza” (veri quanti di energia, senza nessuna intenzione di stabilire analogie improprie con teorie fisiche che non saprei controllare), se non si rifornissero di mezzi materiali che, nella società capitalistica, sono merci e richiedono moneta per essere acquistate; e i valori monetari, come sappiamo, abbisognano di una “base” costituita dalla produzione della ricchezza, pur in forma di valore. In questo senso, appaiono del tutto sciocche le tesi dell’ autonomia del politico, durate del resto l’espace d’un matin; ma non sono nemmeno fondate le tesi della dominanza del politico nella fase monopolistica del capitalismo (come pretendeva Poulantzas e, in genere, la scuola althusseriana).Il problema è che non bisogna mai fare confusione tra il potere e gli agenti dello stesso. Il potere – i grumi di energia di cui sopra – è “prodotto” dai suoi agenti; ma questi non possono produrlo senza la base economica adeguata, per cui l’economia – anzi la vera produzione e non la mera finanza – resta sempre dominante. Tuttavia, i “produttori” del potere sono sia gli agenti strategico-imprenditoriali sia quelli strategico-politici; che sono in tendenziale conflitto – più o meno marcato o attenuato a seconda delle congiunture, con possibilità di alleanze, promosse però al fine di meglio combattere gli avversari – tra di loro e al loro interno, cioè tra le diverse frazioni economiche e tra le diverse frazioni politiche. Gli agenti economici mirano, come prima finalità, all’allargamento delle quote di mercato, e poi (un poi più logico che cronologico) si proiettano verso le altre sfere sociali (che del resto, mi si scusi la ripetizione, sono separate solo per scopi teorici). Gli agenti politici utilizzano “quantità di potere” per espandere le sfere di influenza dei loro sistemi sociali di riferimento.”46
Traggo da quanto sopra le seguenti indicazioni:
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non vi è quindi decisività strutturale permanente di una sfera rispetto ad un’altra, ma per ogni epoca, congiuntura e collocazione di una formazione sociale particolare si definiscono le relazioni: da qui ritorna di nuovo l’importanza dell’ analisi concreta…
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non vi è né connessione interiore né esteriore tra la sfera economica e la sfera politica, ma entrambe sono percorse e costituiscono ambiti di dispiegamento del conflitto tra strategie per la supremazia: la sfera economica è costituita da due strumenti del conflitto, la produzione e la finanza, mentre la sfera politica, da strumenti quali lo Stato e le diverse forme d’azione collettiva (partiti, sindacati, movimenti, lobby, ecc).
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la sfera economica è decisiva perché, è specifico del capitalismo l’estensione ad essa del conflitto tra agenti dominanti per la supremazia, rispetto a formazioni sociali pre-capitalistiche. La sua decisività dipende dal fatto che le strategie devono impiegare anche gli strumenti tipici della sfera economica per la conduzione del conflitto (non solo unitamente agli altri tipi delle altre sfere, ma anche gli altri vengono rimodellati e rimodulati, dal generalizzarsi della forma di merce e denaro connotante la società capitalistica).
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come ribadisci nello scritto sulla crisi, il conflitto strategico entra anche nella sfera economica, per cui è l’elemento unificante le tre sfere sociali. Le strategie sono il nucleo unificante (ed attraversante, innervante) le tre sfere sociali: solo lo sguardo a partire dagli apparati (imprese, banche, Stato) rappresenta tali apparati quali fossero entità tra loro autonome che entrano successivamente in relazione (sempre quindi estrinseca), mentre l’ipotesi della centralità del conflitto strategico, di cui le strategie sono mezzi decisivi, consente di cogliere l’unitarietà di tali strategie in quanto mezzi, senza annullare le differenze nel loro dispiegarsi e concretizzaarsi nelle diverse sfere sociali (a partire dalla differenza degli strumenti di cui le strategie si servono e concretizzano il loro pieno realizzarsi).
Un’ultima notazione. A proposito della soluzione che distingue la politica come insieme delle strategie in conflitto per la supremazia, rispetto alla sfera politica in cui si materializzano gli apparati quali strumenti di quelle strategie, credo si possano rilevare analogie, ma con differenze a vantaggio della soluzione lagrassiana rispetto a quella pur acuta proposta da Foucault secondo la quale “l’insieme dei rapporti di forza di una determinata società costituisce l’ambito della politica, e che una politica è una strategia più o meno globale che cerca di coordinare e di finalizzare questi rapporti di forza, credo si possa rispondere alle sue domande in questo modo: la politica non è ciò che determina in ultima istanza (o che surdetermina) delle relazioni elementari e per natura neutre. Ogni rapporto di forza implica ad ogni istante una relazione di potere (che ne è in un certo senso lo spaccato istantaneo), ed ogni relazione di potere rinvia, come suo effetto ma anche come sua condizione di possibilità, ad un campo politico di cui fa parte.”47
[APPENDICE]
Prendendo spunto da un commento nel quale Gianfranco ricorda i primi due scritti organici della sua ricerca sulle categorie e sulla metodologia marxiana, ‘Struttura economica e società’ e ‘Valore e formazione sociale’, formulo qui di seguito ulteriori riflessioni circa la problematica dello Stato, in particolar modo a come è trattata in quei volumi.
In primo luogo, sottolinerei l’importanza nell’impostazione metodologica di analisi della forma della società, come insieme di rapporti sociali strutturati, a partire dalla quale la collocazione concettuale e l’analisi delle specifiche determinazioni dello Stato possono venire pensate. Nel primo volume La Grassa partiva dalla “critica di Marx, per il quale ogni dato fenomeno ‘economico’ implica sempre una determinata struttura sociale, l’ ‘economico’ è soltanto un ‘aspetto’ della vita sociale che concerne la produzione delle basi materiali di quest’ultima, produzione che vede gli uomini entrare fra loro in ‘collegamento’ secondo certe specifiche (e storicamente transeunti) forme di relazioni sociali, di rapporti sociali di produzione.”48 Le ideologie dominanti le scienze sociali invece rimuovono la ricerca di quella specifica struttura dei rapporti sociali per cui tendono sistematicamente “partendo da una simile ‘visione’ della realtà—a ‘staccare’ l’aspetto ‘economico’ dagli altri aspetti che presenta lo sviluppo del fenomeno sociale. E qui molto facilmente si inserisce l’ideologia borghese della ‘razionalità’ economica, dell’organizzazione ‘scientifica’ della produzione, organizzazione che sarebbe ‘indipendente’ dalla forma di società entro cui si effettua la produzione dei beni. Da queste premesse si conclude poi che solo le leggi di questo produrre (e consumare) razionale interessano l’economista, mentre tutti gli altri discorsi sugli altri ‘settori’ di cui una società si compone, vengono lasciati ad altre discipline, che gli economisti, salvo casi sporadici, considerano con molta sufficienza.”49 In modo particolare si immagina qui che nel suo consueto incedere “il pensiero borghese ‘frantumi’ l’unità della società in tanti ‘settori’ (l’economico, il politico, ecc.) tra loro separati, esterni l’uno all’altro, tra cui si affermano semplici rapporti di interazione, di connessione dovuta ‘a contatto’ (e, per di più, molto spesso accidentali, cioè non dovuti alle necessità organiche di una data strutturazione della società).”50 Quindi, secondo tale procedimento “Si ‘isolano’ i rapporti puramente economici—come semplici relazioni tra i singoli soggetti e le cose (i beni) in quanto valori d’uso, in quanto valori-utilità—da ogni altro rapporto sociale e si fa della teoria economica l’analisi assolutamente neutrale di un sistema che può essere espresso matematicamente) di interrelazioni tra questi vari rapporti soggetti-cose. Tutto ciò apre poi la strada a una considerazione della società stessa come ‘aggregato meccanico di individui’ e a tutti i ‘ragionamenti’ dei sociologi soggettivisti ‘introno alla società e al progresso in generale’.”51 Questa ricostruzione e richiamo del punto di vista metodologico (marxiano), già in nella prima formulazione lagrassiana consentiva di impostare la problematica dello Stato, in modo differente, non solo ovviamente rispetto ai punti di vista dominanti ma anche con alcuni spiragli innovativi rispetto alla tradizione marxista. Cito qui, pur senza sviluppare commenti ulteriori, tre punti già posti in quei testi:
j. “lo Stato capitalistico ,ad es., presenta particolarità differenti a seconda che lo si indaghi come Stato di questa o quella società concretamente esistente (nello spazio e nel tempo).”52
jj. “Ma anche la ‘sovrastruttura’ statale ha una sua ‘struttura interiore’ tipica, che corrisponde alla forma determinata dei rapporti sociali (e, in special modo, dei rapporti di produzione) di quella particolare ‘tappa’ di sviluppo ‘storico’ della società.”53
jjj. “Nella formazione sociale, così pensata, i livelli ‘sovrastrutturali’ (politico, e in primo luogo proprio lo Stato, ideologico, ecc.) svolgono un’importante funzione nella riproduzione della formazione sociale stessa. Questa funzione è però sempre inscritta nel complesso delle strutture costitutive di quella data formazione sociale.”54
In secondo luogo, a fronte dei punti j-jj-jjj, dotati di capacità espansiva una volta enucleati rispetto al primo svelamento marxiano, nel primo dei due volumi lagrassiani la funzione dello Stato è al contempo anche così delineata: “Il capitalista, come individuo, tende ad accaparrarsi persino una quota del ‘prodotto necessario’, e l’organismo politico borghese (che rappresenta gli interessi generali della classe borghese nel suo insieme) è costretto, a un certo punto, a porre un freno a tale tipo di sfruttamento, fissando certi limiti alla giornata lavorativa”55 La centralità del conflitto nella sfera economica, novità specifica del capitalismo, sembra richiedere come avevo fatto notare al punto 3 di questo mie riflessioni, una quasi camera di compensazione dislocata nella sfera politica, individuata in particolare nello Stato. L’attribuzione allo Stato di questa funzione, e di un suo particolare modo di esercitarla, deriva da una data rappresentazione del capitalismo, e del capitalista quale portatore soggettivo di funzioni sociali differenti, esercitate in sfere sociali differenti. Il capitalista, in quanto singolo, è visto come portatore soggettivo di una funzione conflittuale, nella sfera economica (conflitto con la forza-lavoro nei processi lavorativi e competizione intercapitalistica). Il capitalista in quanto espressione del sistema sociale capitalistico, è visto come portatore soggettivo di una funzione di salvaguardia—dal conflitto stesso—di quello stesso sistema sociale: funzione che si esplica nella sfera politica. Siccome la funzione conflittuale nei ‘modi di produzione’ pre-capitalistici si svolgeva nella sfera politica, il suo trasferimento dentro la sfera economica, non viene ipotizzato come un espandersi anche alla sfera economica a fianco della sfera politica (e di quella ideologico-culturale)—come risulterà con il secondo svelamento nella terminologia lagrassiana—, ma come uno spostamento della funzione conflittuale entro la sfera economica, per cui, per quanto riguarda la classe dominante, la sfera politica diventa nel capitalismo un’istanza ricompositiva e mediatoria della conflittualità, che si dispiega nella sfera economica, ma può prorompere da essa. Lo Stato è visto come uno strumento della classe dominante per mantenere l’ordine riproduttivo vigente rispetto alla classe dominata, ma per quanto riguarda la classe dominante, la funzione prevalente non è quella conflittuale tra i gruppi che la compongono, bensì quella della ricerca dell’interesse generale quale sintesi mediatoria tra questi stessi gruppi. Questa impostazione è prossima a quella di Antonio Pesenti secondo la quale, nel ‘Manuale di economia politica’, pubblicato solo tre anni prima del primo dei due volumi lagrassiani: “In ogni caso se lo Stato è, come afferma il marxismo e come dimostra la comune esperienza, la forma suprema di organizzazione di una determinata società, è chiaro che il dominio di esso sia esercitato da chi nella società ha il dominio sull’economia.”56 Poco più avanti Pesenti, precisa ulteriormente in che cosa consista la suddetta ‘determinata società’ di cui lo Stato sarebbe l’espressione organizzativa più elevata: “Lo Stato è sempre la forma suprema di organizzazione di una società divisa in classi: comprende cioè oltre alla classe dominante la classe sottoposta, il cui peso economico e politico varia nel corso del tempo; il governo d’altra parte esprime la situazione del momento nei rapporti di forza tra le classi. In ogni caso sempre una classe dominante, per essere tale, deve tener conto, sia pure dal proprio punto di vista e di conservazione della struttura, anche degli interessi della classe sottoposta. (…) Rimane sempre fermo il principio che lo Stato è uno strumento di dominio di una classe sulle altre, espressione quindi della ‘dittatura’ che una classe—nel sistema capitalistico la borghesia—esercita sulla classe sottoposta e sugli altri ceti sociali dipendenti. “57In particolare Pesenti correla la forma dello Stato alla tappa in cui il capitalismo si trova: “Nell’epoca del capitalismo di prevalente concorrenza, lo Stato era lo Stato di tutti i capitalisti, che avevano una forza più o meno uguale. E quindi non interveniva nel ‘mercato’,…, lasciava fare alle ‘forze economiche’. In realtà il lasciar fare era già di per sé una forma di intervento, il quale poi si manifestava anche positivamente (legislazione doganale, fiscale, ecc.)”. Con il passaggio all’epoca del capitalismo monopolistico, secondo Pesenti avviene “subordinazione dello Stato ai monopoli” che modifica ulteriormente la natura dello Stato, per cui, pur permanendo la sua natura capitalistica, mutano i contenuti di questa sua natura capitalistica: dall’essere lo Stato di tutti i capitalisti all’essere lo Stato dei soli capitalisti monopolisti. Con questo passaggio, in quanto “forma suprema di organizzazione di una società” lo Stato diviene ancor meno rappresentativo, in quanto oltre alla classe sottoposta il suo dominio tende ad esercitarsi anche su tutti quei capitalisti che—in quanto non monopolisti—sono dotati di minore forza. Acquista ancora più ragionevolezza la linea politica che pone al centro l’esigenza di democratizzare lo Stato. Tale linea politica del Pci esprimeva l’adeguamento dello Stato alla sua funzione di “forma suprema di organizzazione di una determinata società”, che il capitalismo monopolistico, ancor più di quello concorrenziale, distorce, assegnando il dominio politico ad un’oligarchia. Se nel ‘capitalismo concorrenziale’ lo ‘Stato di tutti i capitalisti’ è disrappresentativo della società nel suo insieme perché discrimina i portatori soggettivi della forza-lavoro sulla base del loro essere esclusi dalla proprietà dei mezzi di produzione, il capitalismo monopolistico è quindi ancor più disrappresentativo. Per ulteriori sviluppi argomentativi in questa direzione, segnalo le seguenti considerazioni che La Grassa ha effettuato nel suo saggio dedicato a Pesenti: “proprio perché il capitalismo monopolistico è trattato da Pesenti nelle sue modalità di trasformazione in quello monopolistico di Stato, cioè di stretta integrazione tra capitale e Stato, si assiste ad un altro marchingegno per trasferire reddito dai salari ai profitti: le manovre sulla moneta (effettuate dal centro del sistema bancario) tese a provocare una lenta inflazione che erode i salari reali.[…] Ci troviamo comunque di fronte a due nodi principali ed essenziali non della sola elaborazione pesentiana, ma di grande rilevanza per la ‘linea politica’ del Pci, e in genere dei comunisti nei paesi a capitalismo avanzato: la trasformazione del capitalismo da concorrenziale in monopolistico, ma ormai un monopolismo di Stato; i profondi mutamenti della struttura dei rapporti nelle società caratterizzate da quest’ultimo e, appunto, dall’alto grado dello sviluppo capitalistico.”58
Tornando al punto degli agenti capitalistici quali portatori soggettivi di una funzione conflittuale, è significativo come si differenzi il livello dell’agire dei capitalisti in quanto singoli nella sfera economica dall’agire in quanto ‘classe’ nella sfera politica, laddove la differenza tra le due sfere sarebbe dettata dalla prevalenza degli interessi particolari (singolari) nella sfera economica e dalla prevalenza degli interessi generali nella sfera politica. Forse da questo sorge l’idea dello Stato in quanto espressione suprema della società, espressione che, per quanto alterata dalle forme che le diverse epoche del capitalismo gli fanno assumere, riemergerebbe sempre, costringendo anche i capitalisti a tenerne conto . Nelle parole di Pesenti: “I rapporti tra politica ed economia divengono sempre più stretti, il capitalista è portato sempre più a ragionare e ad agire non più ‘uti singulus’, ma come classe e ad utilizzare la forma più elevata di organizzazione, cioè lo Stato, per difendere i suoi interessi.”59Cambierebbe quindi la visione stessa dei capitalisti in relazione alla sfera, economica o politica, del loro agire: “E l’insieme di questi legami permette l’uso dello Stato quale strumento coordinatore e conservatore della attuale struttura sociale. E’ chiaro che il capitalista come classe dirigente agisce in modo diverso dal capitalista come singolo, come capitano cioè di industria. La sua visione non è aziendale, è politica, cioè considera i suoi interessi nell’insieme della società.”.60 L’ipotesi della centralità del conflitto strategico permetterà di modificare profondamente queste impostazioni, cogliendo la complementarietà dei termini delle coppie opposizionali singolare/generale come quelle di pubblico/privato e di sfera economica/sfera politica, così come erano state poste nella tradizione marxista. Ma, qui non riapro e ricomincio, in questa occasione, il discorso.
6 Gramsci ‘Il rivoluzionario qualificato : scritti 1916-1925’ (a cura di Corrado Morgia) Delotti editore pag. 30-31