RIPARTIAMO TEORICAMENTE!
non da zero, ma senza concessioni alle teorie oggi in campo
di Gianfranco La Grassa
1. Cito dalla Prefazione alla prima edizione de Il Capitale di Marx, uscito nel 1867 (e che resta l’unica parte di quest’opera pubblicata da Marx):
“Una parola per evitare possibili malintesi. Non dipingo affatto in luce rosea le figure del capitalista e del proprietario fondiario [e quindi anche dell’operaio, figura decisiva nel capitalismo così come descritto da Marx, in quanto i due personaggi chiave, fra loro antagonisti, sono appunto il capitalista, proprietario dei mezzi di produzione, e l’operaio in quanto portatore della forza lavoro venduta al primo in qualità di merce dietro salario; nota mia]. Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi. Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi” [quest’ultimo corsivo è mio].
E’ perfino difficile decidere da dove cominciare a commentare questo passo estremamente ricco, molto oltre le stesse intenzioni dell’autore. Magari partiamo dalla “formazione economica della società”. Marx disse più volte che il “capitale non è cosa ma rapporto sociale”. In effetti egli descrive una serie di rapporti che costituiscono la trama di una data società, la sua “struttura”. Quest’ultima è un sistema di rapporti tra individui (i “soggetti”). Tale struttura o sistema viene definita formazione sociale. Marx indica però che, con le figure qui denominate (capitalista, proprietario fondiario) ecc., intende riferirsi ai personaggi (“incarnazione di determinati rapporti e interessi di classi”) in quanto occupano date caselle della formazione economica della società. Essi fanno cioè parte della sfera di quest’ultima caratterizzata appunto dall’economico: produzione e scambio di beni, che nel capitalismo assumono la qualità di merci ed esigono dunque la loro “duplicazione” nel denaro con i connessi settori finanziari.
Marx sostiene in una lettera a Kugelman (del luglio 1868): “Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa”. In questo senso, attribuisce l’importanza principale alla sfera sociale dell’economia indicandola come base economica della società. Le altre sfere – la politica e ideologia (e cultura in generale) – sarebbero le sovrastrutture. E’ qui insita dunque la possibilità di cadere in un determinismo economico. Certamente, si fa riferimento ai rapporti sociali; questi non sono considerati come rapporti tra individui, nel senso complessivo del loro essere umani, bensì appunto solo come personificazioni, oggettivazioni, ecc. dei rapporti stessi. E questo mi sembra scientificamente corretto. Tuttavia, è indubbio che per Marx i rapporti principali e decisivi per ogni forma storica di società sono quelli esistenti nella sfera economica della stessa. Oggi, credo si debba più propriamente dire che i rapporti corrono tra i portatori di determinati ruoli – le postazioni situate ai vari incroci della rete di rapporti costituenti la struttura della formazione sociale – e tra le funzioni che detti portatori sono tenuti a svolgere proprio perché determinati dalle posizioni occupate.
In primo luogo, dunque, non abbiamo a che fare con individui concreti, empirici, con date personalità, bensì con ruoli e funzioni. Sbagliato è dunque passare direttamente, e senza le opportune mediazioni (e avvertimenti circa le stesse), da questi ruoli e funzioni alla lotta tra classi, dove sono in gioco ben altri aspetti afferenti non certo a meri “soggetti astratti” (privi di “carne e sangue”), soltanto agenti nelle funzioni individuate mediante l’analisi delle posizioni occupate da questi nella tramatura sociale. Inoltre, è indubbio che si considerano decisive le funzioni svolte nella sfera economica per il semplice fatto che “se non si produce non si mangia”; e se non si mantiene in vita l’organismo biologico, non sussiste nemmeno quello sociale. Tale concezione è indubbiamente semplicistica. Marx stesso, proprio dividendo la storia della società umana in alcuni grandi “comparti”, le differenti formazioni sociali, affermava che il passaggio dall’una altra – cioè da una data “epoca della formazione economica della società” ad un’altra – avveniva tramite profonde trasformazioni dovute ad una lotta condotta secondo “le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo” (Prefazione del ’59 a Per la critica dell’economia politica).
Concepire il conflitto secondo certe forme o altre implica un “di più” rispetto al semplice adeguare queste forme a quanto sarebbe stato già determinato nella sola sfera economica, in cui si svolge la produzione delle basi materiali della vita sociale. Ho fatto più volte l’esempio del cervello (non perfetto come ogni esempio, ma comunque indicativo). Vi è una base nella materia cerebrale con la sua conformazione legata all’evoluzione naturale. Se si provocano guasti in questa materia, è indubbio che siano posti impedimenti o intralci al pensare umano. Tuttavia, il pensiero formula idee che non sono determinate dalla materialità del cervello. Quest’ultima ha dunque un compito di sostegno e di potenzialità (si può anche parlare di “base”), ma detta potenzialità si sviluppa secondo forme molteplici non strettamente collegate a quella materia e alla sua particolare strutturazione evolutasi nel corso dei millenni che hanno preceduto la “nascita” dell’homo sapiens sapiens.
Così pure, se eventi particolari distruggono le possibilità di produzione in una determinata area, evidentemente in questa non può più permanere la vita di una popolazione umana, con le sue particolari forme di vita associata, le forme cioè dei rapporti sociali tra gli individui (e gruppi) costituenti tale popolazione. Tuttavia, le forme dei rapporti non sono strettamente determinate dalla “base” rappresentata dalla produzione. Si tratta di semplice potenzialità, che si manifesta poi nella conduzione del conflitto combattuto secondo le diverse modalità (giuridiche, politiche, religiose, ecc.) indicate da Marx nel passo appena citato. C’è di più: la produzione si sviluppa mediante processi ramificatisi in varie partizioni – agricoltura, poi industria, poi servizi, e via dicendo (con il moltiplicarsi di vari settori al loro interno) – in seguito alla realizzazione pratica di elaborazioni mentali indotte dall’agire produttivo che hanno condotto alla crescita di quel sapere detto scienza con le sue ricadute tecniche.
2. Per sfuggire ad una troppo rigida determinazione dei comportamenti individuali da parte dei ruoli e funzioni impliciti in quella data strutturazione dei rapporti sociali esistenti nella sfera produttiva della società – per cui non si può ritenere “il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura” – Marx aggiunge quella frase finale: “per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi”. Resta del tutto generica questa “concessione” fatta all’individuo di poter sfuggire alla determinazione funzionale del ruolo da egli ricoperto nella produzione delle condizioni materiali di vita in quella data epoca della formazione sociale.
In realtà – malgrado queste frasi che comunque segnalano la presenza di qualcosa di non strettamente determinato dalla posizione occupata nella sfera produttiva – l’analisi di cui è frutto Il Capitale non tratta più di questa possibilità individuale di ergersi al di sopra delle condizioni determinanti. E questo è senz’altro spiegabile: l’“al di sopra” è connotato da una sorta di capacità dell’uomo di appellarsi a propri caratteri che sfuggono alla determinazione del ruolo occupato nel processo produttivo. Nessuno nega all’essere umano la capacità di nutrire idealità, interessi “superiori” alla semplice materialità del vivere, ecc.; questi aspetti tipicamente umani non devono però entrare subitamente al primo livello (o passo) di un’analisi di tipologia scientifica. Possono (anzi devono) essere presi in considerazione ad un livello successivo, quando si studiano i concreti comportamenti degli individui, singoli o per gruppi, nella conduzione della loro vita quotidiana o nell’organizzazione di forme associative tese ad obiettivi che vanno oltre la quotidianità; questo è però un altro ambito di trattazione dei comportamenti sociali che non può essere mescolato alle funzioni svolte da individui e gruppi entro l’ambito di una “presupposta” struttura sociale e della dinamica da cui si pensa quest’ultima sia interessata. Voler essere, fin da subito, “più vicini alla concretezza” nella formulazione di una data teoria concernente la società rischia di condurre a inconcludenti pasticci e a confondere dei differenti livelli e passi dell’analisi. I diversi ambiti vanno rispettati e semmai poi intrecciati.
Marx ne Il Capitale non fa infatti pasticci di questo genere; semmai aggiunge alla teoria una serie di considerazioni storiche (per sommi capi), così come fa ad es. nel capitolo sull’accumulazione originaria, ma distinguendo sempre i diversi aspetti della società di cui sta trattando. I pasticci li hanno fatti i (pseudo)marxisti, in specie quelli che amano atteggiarsi a filosofi, credendo così di andare oltre la scienza; e per di più chiamando il loro fumoso e confuso blaterare la “Scienza”, quella che attinge proprio la Verità. Fanno solo confusione. Semmai, Marx compie purtroppo un altro errore: visto con gli occhi d’oggi e l’esperienza di un secolo e mezzo di fallimenti nel tentare la via per il socialismo e comunismo. Cerchiamo di capirlo bene.
Sempre nella prefazione a Il Capitale (vera miniera per comprendere la mentalità scientifica di Marx), egli scrive: “Il fisico osserva i processi naturali nel luogo dove essi si presentano nella forma più pregnante e meno offuscata da influssi perturbatori, oppure, quando è possibile, fa esperimenti in condizioni tali da garantire lo svolgersi del processo allo stato puro. In quest’opera debbo indagare il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono. Fino a questo momento [sottolineatura mia, perché è stata notazione ampiamente dimenticata!], loro sede classica è l’Inghilterra. Per questa ragione è l’Inghilterra principalmente che serve ad illustrare lo svolgimento della mia teoria [ancora sottolineatura mia, per lo stesso motivo appena esposto]”.
Chiarissimo, no? Intanto lo svolgimento della teoria marxiana non riguarda il capitalismo, la società capitalistica, bensì soltanto il modo di produzione nella sua storica forma capitalistica, da Marx considerata la trama essenziale, attorno alla quale si va poi formando l’ordito complessivo di quella formazione sociale che si trova nel suo massimo punto di “maturazione” in Inghilterra a metà ‘800, quando egli va scrivendo la sua opera principale (il cui primo libro, l’unico da lui integralmente elaborato, è pubblicato nel 1867). E il grande pensatore di Treviri analizza il modo di produzione in omaggio all’affermazione, già ricordata, secondo cui “anche un bambino sa” che non esisterebbe società se non si producesse ciò che è necessario alla sua sussistenza, affermazione più sopra presa in considerazione.
Chi analizza una data forma societaria non può ricreare, come “in laboratorio”, condizioni tali da poterla analizzare allo stato, diciamo così, “puro”, senza l’intervento di “influssi perturbatori”. E’ dunque necessario utilizzare nell’analisi il pensiero astraente, quello che procede dalla prima esperienza sensoriale e, attraverso una serie di riflessioni successive (che di fatto “costruiscono” l’oggetto osservato e non semplicemente lo “riproducono”), arriva ad eliminare le perturbazioni e a “osservare” tale oggetto allo stato “puro” (ma è una finzione teorica, non la realtà). Il tutto è però condizionato da una parolina: ipotesi. Le riflessioni successive, lo stato “puro” in cui si osserva l’oggetto, la sua costruzione, avvengono via ipotesi; almeno fin che si resta al pensiero detto scientifico. Ipotesi da provare poi in successivi esperimenti che, ancora una volta, nello sviluppo della società riescono con grande difficoltà a isolare gli influssi perturbatori (e sempre per ipotesi successive e prove reiterate in condizioni storiche assai mutevoli). Aggiungo, per completezza, che anche in campo fisico è necessario l’uso del pensiero astraente: la presunta legge (galileiana) del moto rettilineo uniforme (posta via ipotesi, pur se creduta invece reale tout court) non poteva essere formulata se non astraendo dagli attriti che sempre vi sono nel “concreto” percorso di un mobile.
In ogni caso, dal passo marxiano da noi riportato si evince chiaramente: 1) che in quel momento (storico) l’Inghilterra è ritenuta la formazione sociale (particolare, cioè relativa ad un dato paese) più avanzata per quanto riguarda l’affermarsi del modo di produzione capitalistico. Tale formazione ha conosciuto nei secoli precedenti la forma prevalentemente mercantile, poi quella manifatturiera, infine quella decisiva nata dalla rivoluzione industriale con il passaggio dallo strumento (utilizzato dalla mano umana guidata dal cervello) alla macchina (pensata da alcuni e che asservisce al suo movimento molti altri). A metà ‘800, la rivoluzione industriale (la prima) è in pratica definitivamente realizzata solo in Inghilterra (1760-1840, indicativamente), ma non nello stesso senso e compiutezza negli altri paesi pur considerati capitalistici. Il modo di produzione, da Marx considerato elemento decisivo per la definizione della “struttura” dei rapporti sociali, sarebbe stato dunque “puramente” (o quasi) capitalistico solo in Inghilterra. Per questo motivo l’analisi di detto modo di produzione – e quindi la definizione generale delle “leggi” di movimento di una formazione sociale capitalistica, con la conseguente previsione delle sue direzioni di evoluzione – è stata da lui condotta, in quel momento, a partire principalmente dall’Inghilterra.
Marx commette una prima forzatura quando scrive (nel prosieguo del passo appena citato): “Ma nel caso il lettore tedesco si stringesse farisaicamente nelle spalle a proposito delle condizioni degli operai inglesi dell’industria e dell’agricoltura o si acquietasse ottimisticamente al pensiero che in Germania ci manca ancora molto che le cose vadano così male, gli debbo gridare: de te fabula narratur”. Tale passo è stato esaltato dagli studiosi marxisti senza accorgersi che è un punto di debolezza del pensiero di Marx. Egli dà per scontato che il modo di produzione capitalistico non può che svilupparsi se non nelle stesse condizioni e direzione assunte in Inghilterra in ogni paese che prenderà la via capitalistica, la quale d’altra parte è considerata ormai vincente e in espansione mondiale. Inoltre, e questo è ancora più grave, si pensa che le condizioni degli operai nella società a modo di produzione capitalistico vincente sarebbero state particolarmente cattive (gli operai in Germania, paese ancora non pienamente sviluppato in tal senso, avrebbero potuto stringersi nelle spalle e ritenersi più fortunati dei corrispettivi lavoratori inglesi; ma se ne sarebbero accorti! Questo il pensiero di Marx in proposito).
Il sottoscritto ha cercato di dare la massima coerenza al pensiero marxiano in merito allo sviluppo capitalistico (del modo di produzione, scusate se lo ricordo in continuazione) con riferimento all’idea che la “classe operaia” sarebbe stata il soggetto motore della trasformazione socialistica e poi comunistica. Ho messo in luce che – in modo nient’affatto irrealistico, tenendo conto dello sviluppo e crescita degli opifici industriali a metà ottocento, in Inghilterra principalmente, e con la nascita delle grandi società per azioni, ecc. – si poteva ben pensare alla progressiva formazione e ingrossamento di un corpo lavorativo (salariato), dalle massime posizioni direttive (e intellettive) a quelle soprattutto esecutive (e prevalentemente manuali), in contrasto con un gruppo di proprietari (capitalisti) sempre più ristretto e avulso dall’effettiva direzione della produzione. E sempre pensando ai settori della produzione dei beni quali settori cruciali della dinamica della società detta capitalistica.
E’ tuttavia evidente, dalle considerazioni circa le cattive condizioni degli operai nella società a modo di produzione capitalistico, che Marx non credeva al possibile progressivo miglioramento delle stesse. Ed è infantile cercare di arrampicarsi sugli specchi sostenendo che sono migliorate quelle “materiali” mentre sono peggiorate quelle sociali, culturali, magari quelle psichiche o altre. Marx pensava a cattive condizioni e basta. Ciò significa che anche lui, in fondo, si riferiva soprattutto agli operai esecutivi (manuali) di fabbrica, non tanto ai dirigenti pur magari salariati. Di conseguenza, la “deformazione” fatta subire da Kautsky alla teoria del “Maestro”, così fondando il marxismo vero e proprio da allora sempre praticato – e che vede come soggetto rivoluzionario la Classe Operaia, intesa appunto quale raggruppamento dei lavoratori esecutivi, o prevalentemente tali, di fabbrica – non è poi un effettivo tradimento di Marx. Non diverso del resto è il marxismo cui si rifecero i settori rivoluzionari del sedicente Movimento Operaio, ivi compresi i bolscevichi (con Lenin in testa), ecc. I dirigenti salariati vennero infatti considerati degli specialisti borghesi; collaboratori del capitalista, insomma.
3. Non torno adesso su quanto ho ormai chiarito in decine di libri e scritti circa l’errore commesso nel ritenere possibile il realizzarsi della “rivoluzione proletaria mondiale”, con trasformazione del capitalismo in socialismo e comunismo, una volta acclarato che il presunto soggetto rivoluzionario si riduceva agli operai di fabbrica e non all’intero corpo lavorativo, dai dirigenti agli occupanti i più bassi ruoli esecutivi, considerati un unico corpo lavorativo cooperante, sia pure con minori e mediabili contrasti interni. L’errore madornale – sempre illuminato dalla successiva esperienza storica di oltre un secolo – è stato ben diverso.
Marx, e poi il marxismo, hanno criticato a fondo l’economia politica (e poi l’economica) dei “dominanti” (la borghesia capitalistica) e ne hanno mostrato la grettezza e limitatezza. Hanno irriso giustamente all’aver reso il comportamento di Robinson Crusoe quale manifestazione precipua della razionalità (individuale) applicata al vivere in società. Hanno poi criticato il progressivo inaridimento dell’economia marginalistica (l’economica appunto), ridotta infine negli ultimi decenni a ragionamenti sostanzialmente tecnici (di cui nessuno nega l’utilità in dati contesti pratici, basta non farne una “filosofia generale” del vivere sociale), con riduzione di ogni dinamica nella società al suo lato sostanzialmente economico. Il vertice della razionalità sarebbe seguire il principio del minimo mezzo: conseguire un risultato dato impiegando il minimo possibile di mezzi (il “costo di produzione” minore) oppure, il che è la stessa cosa da un’angolazione diversa, ottenere il massimo risultato essendo dati i mezzi a disposizione. Lo stesso punto di vista si applica al potere: si giunge al massimo grado di quest’ultimo se ci si dota della maggiore quantità possibile di mezzi economici (e, ovviamente, il conseguimento di tale condizione ottimale segue il principio appena sopra esposto). E il massimo dell’influenza ideologica? Inutile ripetersi: si segue lo stesso filo del ragionamento, che rinvia al massimo potere economico e dunque, in ultima analisi, alla migliore applicazione del principio del minimo mezzo.
Lascio stare, per non avvilire troppo il lettore, i vincitori di Premi Nobel per l’economia con la “sconvolgente” scoperta che il principio del minimo mezzo non può “concretamente” essere applicato in tutta la sua portata e generalità perché la mente umana è limitata e non ha la conoscenza di tutte le condizioni che si verificheranno e che quindi inficeranno l’utilizzazione dello stesso. Sarebbe come se nel ‘600 qualcuno avesse obiettato a Galilei la sua poca concretezza nel sostenere la legge del moto rettilineo uniforme in quanto non si possono mai in realtà eliminare del tutto gli “attriti”. A questo si è ridotta l’economia, la “scienza” cui tutti si inchinano in specie quando si verifica una crisi, mai prevista da questi “scienziati” e di cui si predica mille volte la fine, che arriva quando …. arriva.
In realtà, mi interessa invece mettere in luce che gli stessi presunti marxisti hanno inzuppato i loro panni finto-teorici nel grezzo economicismo. Si sono serviti della teoria del plusvalore di Marx solo per sentirsi mondi di ogni “soggettivismo”, di ogni riferimento ai bisogni e alle scelte del singolo individuo (il Robinson). La società sarebbe divisa in due grossi raggruppamenti (solo due, perché altrimenti il pensiero di costoro avrebbe cominciato a confondersi e così pure la loro vocazione “rivoluzionaria”): la maggioranza (sfruttata), che fornisce il pluslavoro in forma di (plus)valore alla minoranza (sfruttatrice) in possesso dei mezzi di produzione. La maggioranza era il proletariato (o classe operaia); la minoranza era la borghesia, la classe dei capitalisti. La maggioranza avrebbe preso coscienza dello sfruttamento – per le cattive condizioni di vita; prima materiali, poi, migliorando queste, della propria minorità, dei propri disagi – e si sarebbe ribellata alla minoranza, l’avrebbe abbattuta iniziando la transizione (socialismo) verso la società comunista.
Per fortunata concorrenza di eventi storici, simile ideologia, pur contenendo errori decisivi proprio in merito alla trasformazione del capitalismo in comunismo, ha egualmente dato vita a grandi rivolgimenti che hanno mutato radicalmente la società, e la stessa geografia mondiale, nel corso del XX secolo. Non c’è stata però l’ombra di una società socialista (non parliamo di quella comunista), pur se si è continuato a blaterare su di essa; e non mi riferisco solo agli “adoratori” di tale società, ma pure ai nemici d’essa, quelli terrorizzati dal suo possibile avvento. Anzi, questi ultimi sono stati (e sono) talmente ottusi e ignoranti che continuano ancor oggi a vedere comunisti in ogni angolo dove semplicemente si annidi la critica e il malcontento per una formazione sociale in profondo degrado materiale e in avanzata putrescenza culturale.
Marx è in parte, ma solo in parte, responsabile di una errata interpretazione della formazione sociale capitalistica, della sua “struttura” e del suo carattere fondamentalmente duale, molto semplificato rispetto agli svolgimenti storici manifestatisi, appunto, nell’ultimo secolo. Il suo pensiero è ormai del tutto negletto, deformato, trasformato in aspetti moralistici o di trasporto sentimentale nei confronti dei “poveri oppressi e sfruttati”. Diciamo pure che di Marx presso gli ultimi interpreti, vecchi o giovani che siano, non è rimasto più nulla, salvo una pappardella o semireligiosa o volgarmente e demenzialmente economicistica. Il povero pensatore, così tanto tradito, ha ripetuto mille volte: “il capitale non è cosa, ma rapporto sociale”. E il passo che stiamo analizzando lo ribadisce a chiare lettere. Niente da fare, l’interpretazione dei grandi autori del passato è ormai affidata oggi ad una schiera di emeriti imbecilli, a giovinastri che stanno affollando le Università, affossandole definitivamente in quanto luoghi un tempo in grado di trasmettere un minimo di cultura. Andiamo oltre e cerchiamo di capire dove si situa il lato debole di Marx, a parte quella previsione errata circa la formazione del lavoratore collettivo cooperativo (dal massimo dirigente all’ultimo esecutore, entrambi divenuti lavoratori salariati).
4. Marx analizza i rapporti sociali; e nella loro “oggettività” di assegnazione di ruoli e funzioni ai “soggetti in rapporto”. E’ però indubbio che egli è influenzato da quanto accaduto in Inghilterra: la trasformazione dall’ordinamento servile (feudale) a quello capitalistico, dove la forma di merce va generalizzandosi, si sciolgono progressivamente i legami di dipendenza personale e si afferma la libertà individuale nello scambio contrattuale della merce da ciascuno posseduta; non fosse altro che la propria forza lavorativa (intellettuale e manuale). Nella società precapitalistica la preminenza spettava a gruppi sociali che si collocavano nell’ambito delle cosiddette sovrastrutture politiche e ideologiche; a questi si aggiungono, nella nuova forma dei rapporti sociali, quelli esercitanti un predominio nella sfera economica, ritenuta – per i motivi già messi in luce – la “base” della società.
Sempre partendo dalla crucialità di tale base – dalla considerazione (“vera” ma banale) che, senza produzione, non esisterebbe alcuna forma sociale – Marx fissa l’attenzione su un fatto ritenuto basilare nella nuova “epoca della formazione (economica) della società”. Nel feudalesimo – in genere nel precapitalismo – i “soggetti” che si muovono nell’ambito della “base economica” (produzione) appartengono tutti, in forme diverse, ai gruppi sociali dominati. Il loro lavoro produttivo serviva a mantenere (e riprodurre) se stessi, ma anche i gruppi (classi) dominanti, che esercitavano la loro preminenza nelle sfere “sovrastrutturali” (politico-militare e ideologico-culturale). Il lavoro delle classi servili si poteva dunque dividere in una parte necessaria alla riproduzione di se stesse e in una parte (il pluslavoro) indispensabile a mantenere le classi dominanti (nelle “sovrastrutture”).
Nella società, in cui prende centralità secondo Marx il modo di produzione capitalistico, la preminenza di dati gruppi si esercita prevalentemente nell’ambito produttivo. Il gruppo dominante sarebbe dunque la borghesia in quanto proprietaria dei mezzi di produzione. I dominati si affrancano dal ruolo servile, ma per poter vivere vendono l’unica merce che possiedono, la loro capacità lavorativa (la forza lavoro); cedendo così il pluslavoro – ciò che eccede il lavoro necessario a produrre quanto basta al loro mantenimento (in termini storico-sociali) e che rappresenta appunto il valore della loro forza lavorativa, attorno a cui oscilla il prezzo della stessa (cioè il salario) – sotto forma di plusvalore (nella principale figura del profitto) al borghese capitalista. Il capitale è un rapporto sociale, ma indubbiamente quello decisivo, che instaurerebbe il conflitto di classe antagonistico (sempre duale), s’instaura nella produzione, cioè nella sfera (base) economica della società.
Da ciò sono derivate le previsioni errate circa la rivoluzione proletaria e la transizione al socialismo e comunismo di cui ho parlato tante volte. In realtà, come chiarito altrove, il “laboratorio” di Marx, l’Inghilterra, era semplicemente una delle possibili società basate sulla forma generale di merce e sull’impresa (che non è il semplice opificio industriale, la fabbrica, l’unica presa in attenta considerazione dal pensatore in questione). La formazione sociale di matrice americana, quella di cui ho indicato la classe dominante quale “strateghi del capitale”, è molto diversa. Per un dato periodo storico si è pensato, guardando alle grandi corporations statunitensi, alla proprietà azionaria diffusa (per cui il gruppo di controllo magari possedeva solo il 5 o 10% delle azioni) e alla tendenziale “managerializzazione” dei gruppi di comando imprenditoriali (vedi Burnham). Non è stato così per una serie di motivi che ho già in parte spiegato in altri scritti e che andranno ulteriormente ripresi e delucidati (anche per far fronte al terribile degrado teorico di questi tempi, in cui si riprendono decrepite tesi alla Hilferding circa il comando del capitale finanziario!).
Qui interessa porre in luce il fatto decisivo, il vero e proprio spostamento teorico indispensabile ad afferrare i mutamenti anche oggi in corso; e a fornire maggiore consistenza alla “nuova scienza” della geopolitica, anch’essa tendente a limitarsi alla funzione degli Stati in quanto “soggetti” della sfera politica (o al massimo ideologica) della società. E’ indispensabile superare l’idea del marxismo circa la centralità della proprietà dei mezzi di produzione in quanto carattere delle classi dominanti. Un’idea “brillante”, un vero uso geniale della teoria economica classica, trasformata appunto con la semplice distinzione (il solito “uovo di Colombo”) tra lavoro – in quanto fondante il valore dei prodotti e quindi anche delle merci capitalistiche; dunque lavoro “in atto” – e forza lavoro in quanto capacità di lavorare per trasformare produttivamente dati beni in altri (dunque lavoro “in potenza”); una forza lavoro diventata essa stessa merce nella società (capitalistica) della liberazione dei produttori dai vincoli servili. Questa idea serviva a pensare il “soggetto” della trasformazione rivoluzionaria del capitalismo, ma ha invece condotto ad un’ideologia di totale deformazione dei rivolgimenti avvenuti poi nel XX secolo, con gli esiti ormai ben noti (ma ancora nient’affatto conosciuti!).
D’altra parte, i critici certamente avveduti della piega economicistica assunta da date teorie (non solo quella marxista) hanno spesso ripiegato su un concetto che rischia di divenire altrettanto fuorviante se mal utilizzato: la volontà di potenza. Un simile concetto indirizza di fatto verso un nuovo tipo di robinsonate. E’ certo più duttile, non si rifà grettamente e con mentalità ristretta al solo principio del minimo mezzo, che è semplice indicazione generale di efficienza nel perseguire un dato obiettivo, ma non dice nulla circa la sua efficacia, in termini appunto di acquisizione di potere tramite la vittoria in una contesa. Sembra quasi che quest’ultima venga condotta da tanti singoli individui (in fondo dei Robinson, solo assetati di potenza invece che di mezzi per soddisfare i propri bisogni), dimenticando la determinazione “oggettiva” dei ruoli e funzioni, adombrati nel passo di Marx da cui siamo partiti. E invece, tale determinazione va comunque acquisita in qualche modo pur senza più ricorrere semplicemente al principio della proprietà dei mezzi produttivi (uno strumento come altri) o a quello del soddisfacimento di bisogni con mezzi scarsi a disposizione (notazione utile in dati contesti puramente individuali di necessità acquisitive, ma del tutto sterile per analizzare le dinamiche storiche della società e formulare ipotesi previsive circa il loro andamento).
5. Ho proposto di passare intanto dalla proprietà dei mezzi di produzione alla funzione svolta da determinati “soggetti” nel conflitto per l’acquisizione di un predominio; funzione implicante appunto il pensare e realizzare una serie di mosse che, nel loro complesso, rappresentano la strategia mirante a quell’acquisizione. La strategia, e il conflitto cui essa è intrinseca, diventano dunque il punto centrale della formazione sociale, prendono il posto della proprietà dei mezzi produttivi. Poiché i conflitti mutano nei loro caratteri e negli obiettivi da conseguire, la stessa società – intesa come sistema di rapporti tra raggruppamenti sociali – si va modificando e infine trasformando per “salti storici”, per epoche differenti; differenti in quanto caratterizzate appunto da sistemi diversi di rapporti sociali.
Non si può più allora parlare semplicemente di “formazione economica della società”; perché la nascita di nuove formazioni sociali, i vari passaggi d’epoca storica nello sviluppo della società, dipendono da una dinamica di conflitto che investe ogni ambito (o sfera) di detta società. I concetti di “base” e “sovrastrutture” vanno messi da parte perché inducono a pensare che la base – semplice supporto materiale (una sorta di hardware) di varie forme processuali (il software) – sia una “causa efficiente” che spiega i suoi, più o meno deterministici, effetti relativi alle istituzioni politiche e agli organismi indispensabili alla conduzione delle lotte ideologiche, ecc. Se poi si vuol pensare alla “formazione della società” come ad un “processo di storia naturale”, si deve intendere tale notazione nel semplice senso di un conflitto che permea ogni settore della natura così come la società; notazione però fin troppo generica e non dotata di particolare significato esplicativo.
L’intera storia della società umana è dunque un seguito di conflitti tra gruppi sociali che si vanno articolando e differenziando via via in base alla loro lotta. Un combattimento continuo che comporta necessariamente varie forme di alleanza e di cooperazione. Le sempre risorgenti ideologie “umanistiche” (“buoniste” come si direbbe oggi con giusto accento piuttosto dispregiativo) si ostinano a confondere la causa con l’effetto. Poiché non è possibile combattere un conflitto ognuno contro tutti, ma sono invece necessarie le alleanze, lo spirito cooperativo, ecc., tali ideologie propagandano la possibile armonia universale posta come “tendenza finale” della storia; alcuni ammettono che magari non si arriverà mai ad una vera armonia, ma ci si avvicinerà “asintoticamente” ad essa. Nulla di più ingannevole e falso. Alleanza e cooperazione si sviluppano sempre in base al ben noto principio che “l’unione fa la forza”; e per vincere le battaglie e schiacciare un avversario occorre l’impiego della forza. La stessa amicizia interindividuale, e anche l’amore, che pure coinvolgono intensamente la nostra parte emotiva e sentimentale, non potrebbero esistere se non vi fosse conflitto e bisogno di unione e solidarietà anche soltanto per poterlo sostenere; e tanto più, dunque, se s’intende prevalere (quando avrò tempo, mi divertirò a commentare un buon film del 1960, istruttivo forse oltre le intenzioni del regista: L’uomo che visse nel futuro, “liberamente” tratto dal romanzo di H. G. Wells La macchina del tempo).
Di conseguenza, la storia di tutte le formazioni sociali succedutesi nelle differenti epoche ha un elemento comune nella centralità del conflitto e dell’elaborazione (sempre più complessa, anche perché legata in parte alle successive innovazioni tecniche) di strategie per condurlo a buon fine. Nelle società precapitalistiche il conflitto è particolarmente evidente e acuto nelle sfere politico-militare (decisiva in ultima istanza) e ideologico-culturale. Nel passaggio al capitalismo – con lo scioglimento di ogni ordinamento servile (e delle corporazioni artigiane medioevali) e la produzione generalizzata di merci in reciproca concorrenza; e la forma di merce conduce alla sua duplicazione nel denaro in quanto indispensabile a “lubrificare” la circolazione dei prodotti – sembra divenire centrale la sfera economica (produttiva, in primo luogo, e poi anche monetaria). Tuttavia, in questa viene posta in primo piano la proprietà dei mezzi di produzione (marxismo) o il soddisfacimento dei bisogni degli individui (teorie dominanti in quanto elaborate dal ceto intellettuale legato ai gruppi dominanti nel capitalismo). Il conflitto è pensato quale mera concorrenza, guidata dal principio del minimo mezzo (o massimo risultato) che consente di ottenere il massimo profitto (secondo il marxismo, in particolare) o il massimo del soddisfacimento dei bisogni con dati mezzi (scarsi) a disposizione.
Tutto il tema delle strategie (delle mosse compiute per vincere, tenendo certo anche conto dei mezzi a disposizione per la loro attuazione e delle innovazioni tecniche e organizzative che le coadiuvano) viene obliterato; sia dagli apologeti che dai critici del capitalismo. Marx indicò sempre tale società come modo di produzione capitalistico proprio per distinguere quello che riteneva il “nocciolo centrale” (la base) dalla forma sociale capitalistica nel suo complesso. Tuttavia, ciò non gli consentì di evitare completamente l’economicismo, la “distorsione ottica” provocata indubbiamente dal dinamismo accentuato che andò caratterizzando sempre più la sfera produttiva nel passaggio dalle forme sociali precapitalistiche a quelle capitalistiche. Nel modo di produzione costituito da miriadi di unità produttive in concorrenza mercantile, balzava in primo piano – ma sempre superficialmente e quale mezzo precipuo per prevalere – lo sforzo di produrre a costi più bassi per vendere a prezzi inferiori rispetto ai competitori. Con il passaggio alla forma di mercato detta di mono(oligo)polio, venne sostenuto, salvo alcune eccezioni, il tendenziale affermarsi di accordi fra le grandi imprese per dividersi le fette di mercato.
Lenin se la cavò sostenendo che il monopolio non annullava la concorrenza ma la conduceva invece ad un più alto livello; intuizione di ciò che stava avvenendo, ma non inserita in una corretta teoria poiché all’intero marxismo (anche a quello dei settori rivoluzionari) interessava indicare gli oligopolisti quali nuovi parassiti della società contro cui unire la stragrande massa della popolazione. Kurt W. Rothschild (neoclassico austriaco) sostenne che, per studiare la formazione dei prezzi nell’oligopolio (e dunque la concorrenza tra grandi imprese), era meglio rivolgersi al manuale di strategia di Von Clausevitz. Burnham si spinse anche più avanti con le tesi inerenti alla rivoluzione manageriale (e quindi al passaggio in seconda linea della proprietà), ma rimase ancorato alla sfera economica in quanto preminente nel capitalismo.
In realtà, il capitalismo non è “essenzialmente” un modo di produzione; non è principalmente un processo più efficiente per ottenere crescenti quantità di prodotti da avviare alla ben lubrificata circolazione mercantile onde soddisfare i bisogni della collettività (consumatrice) al massimo livello possibile: quantitativamente, ma in fondo anche qualitativamente tramite successive e sempre più rapide innovazioni, soprattutto di prodotto. In Marx, a differenza che nei degenerati marxisti della seconda metà del XX secolo, il modo di produrre è un modo sociale (è una certa forma dei rapporti sociali) e non certo tecnico-organizzativo. Tuttavia, viene affermata la centralità della sfera economica e della proprietà o meno dei mezzi produttivi; in tal modo la lotta per il superamento del capitalismo diventa fondamentalmente quella tra proprietari e salariati, tra chi acquisisce il pluslavoro (in forma di valore) e chi lo eroga. Simile impostazione ha provocato un sostanziale cortocircuito, ideologico come politico, che ha condotto al fallimento la sedicente “rivoluzione proletaria” (e i comunisti che la propugnavano); è stata inoltre fortemente distorta, per non dire addirittura falsata, l’interpretazione storica del XX secolo. Di simile illusoria “narrazione storica” non ci siamo per nulla liberati ancor oggi: né da parte dei presunti critici del capitalismo né da parte dei suoi apologeti.
6. La centralità del conflitto e della politica intesa quale sequenza di mosse – che nel loro insieme danno vita ad una strategia tesa ad ottenere la vittoria e dunque a conquistare una posizione di supremazia – unifica ed intreccia tra loro le diverse sfere in cui può teoricamente essere suddiviso il sistema di rapporti costitutivo della società. Tale carattere di centralità, come già fatto notare, rappresenta un elemento di continuità tra le diverse formazioni sociali succedutesi nella storia. In definitiva, il conflitto ha caratterizzato la sfera economica anche nelle società precapitalistiche. Tuttavia, in queste aveva maggiore efficacia, ai fini della conquista della predominanza da parte di determinati gruppi sociali, quello in atto nelle altre due sfere: politica (e militare) e ideologico-culturale.
La netta sensazione creatasi con il passaggio alla società moderna è precisamente la posizione decisiva assunta dalla sfera economica (produttiva e finanziaria) per quanto riguarda appunto gli effetti del conflitto – pensato quale concorrenza tra diverse unità produttive, poi tra diverse imprese, nel mercato, nel luogo degli scambi generalizzati tra prodotti e denaro – che mira alla conquista di una posizione dominante nell’ambito della formazione capitalistica. In realtà, tale concezione – tipica sia dell’economia politica dei dominanti, il primo sapere sulla società sviluppatosi in senso scientifico, sia della “critica dell’economia”, oggetto peculiare del pensiero di Marx e del marxismo in generale – ha posto in primo piano il “davanti della scena” con il risultato dell’occultamento degli altri ambiti rilevanti per la lotta mirante al predominio sociale.
In particolare, il marxismo, nel suo intento critico-rivoluzionario della società il cui “nocciolo strutturale interno” era pensato quale modo (sociale) di produzione capitalistico, ha creduto di risolvere definitivamente tale compito assegnando priorità alla proprietà o meno dei mezzi di produzione. Si è cercato di evitare almeno la semplificazione legata al carattere meramente giuridico della proprietà, attribuendo a quest’ultima il significato di potere di controllo sui mezzi di produzione; e in questa concezione, che fu in particolare quella dell’althusserismo, si diede nuovamente particolare importanza, quanto meno nella fase “avanzata” della centralizzazione monopolistica del capitale, agli apparati politici e ideologici. Il “corto circuito” del marxismo (e del pensiero di Marx, in tal caso coincidenti) non consisteva tuttavia soltanto nell’aspetto giuridico della proprietà. Ci si è invece semplificato il compito per quanto riguarda l’individuazione della classe dominante tramite il suo riferimento al controllo dei mezzi produttivi.
Ogni società, in cui si generalizzano le forme dell’impresa e del mercato, viene ipso facto considerata capitalistica (di uno stesso genere). Si identificano semplicisticamente due classi fondamentali di tale società: la borghesia (sempre più minoritaria dal punto di vista numerico) costituita dai proprietari dei mezzi produttivi e per ciò stessa dominante; e il proletariato (o classe operaia) costituito dai lavoratori salariati, i dominati, in quanto meri possessori della loro capacità lavorativa di cui si può soltanto vendere l’uso in forma di merce ai dominanti. La lotta tra le due classi avrebbe dovuto caratterizzare l’intero periodo storico del capitalismo e avrebbe infine condotto alla transizione (socialistica) ad altra formazione sociale (comunistica). Il fallimento totale di tale impostazione, e delle previsioni di dinamica storico-sociale che se ne traevano, ha dato il via a varie ipotesi ad hoc (simili agli epicicli con cui si tentava di salvare la teoria tolemaica della centralità della Terra nell’Universo); ad esempio, si è sostenuto che viene formandosi un ceto sociale intermedio, dei “quadri e competenti”, oggetto di contesa egemonica tra classe dei proprietari dei mezzi produttivi (la borghesia imprenditoriale) e classe operaia.
Il vero fatto è che la proprietà (potere di controllo) dei mezzi produttivi o soltanto della propria capacità lavorativa non è il fattore decisivo per definire i dominanti e i dominati. E’ invece la Politica nel suo senso più specifico (e “alto”) quale sequenza di mosse (strategia) nel condurre il conflitto allo scopo di conseguire la preminenza. Quella che veniva semplicisticamente pensata come lotta di due classi ben definite e contrapposte (in base appunto alla proprietà o meno dei mezzi produttivi) si sfrangia in una più complicata rete di contrasti e scontri tra più gruppi sociali, con varie configurazioni di alleanze per poter meglio battere l’avversario considerato – di epoca in epoca, di fase in fase – il principale.
Questa Politica, la strategia e il conflitto che la caratterizzano, porta i vari “soggetti combattenti” a fissare determinate stabilità (dei campi variamente strutturati in sistemi di relazioni tra elementi opportunamente trascelti) per meglio condurre a buon fine lo scontro. Da quest’ultimo emergono, d’epoca in epoca, tutta una serie di apparati, di istituzioni che tendono a organizzare la società assegnando a determinanti gruppi i posti di vertice in essi e, dunque, nella società stessa. L’affermarsi – nella formazione detta capitalistica, quella la cui sfera economica è contraddistinta dalle due forme fondamentali dell’impresa e del mercato – di un conflitto particolarmente appariscente nella sfera in questione ha portato a quella grossa deformazione economicistica che ha contraddistinto tutte le teorie della società: quelle predominanti negli ambiti istituzionali “ufficiali” (e negli apparati ideologico-culturali tipo Università, ecc.) e quelle critiche, in varia guisa e intensità, del capitalismo.
In quest’ultimo, i gruppi imprenditoriali, soprattutto quelli finanziari (cioè quelli che muovono il mezzo liquido necessario alla circolazione mercantile in tutte le sue varie rappresentazioni e figure), vengono considerati i predominanti per eccellenza. Quelli che sono i mezzi per condurre il conflitto – e che si distinguono in base alla prima, seconda, ecc. istanza cui appartiene il loro uso nella lotta in corso – sono stati elevati al rango di elementi primari per definire chi domina nella società tutta. Di conseguenza, i dominanti di maggior peso diventano quelli che usano lo strumento strategico di prima istanza, il denaro. In secondo luogo, vengono gli imprenditori (magari proprietari nel senso specificamente giuridico del termine) delle unità produttive di merci, in particolare quelli che guidano grossi complessi con particolare peso nel mercato, quelli che si accaparrano le maggiori “fette” dello stesso. I vertici degli apparati politici e militari e quelli degli apparati ideologico-culturali diventano semplici “servitori” dei gruppi di comando economico-finanziari. Grande equivoco che non fa capire la rilevanza di certi leader politici, di certi “opinionisti”, che trattano da pari a pari con grandi imprenditori, talvolta “disobbedendo” ai loro desiderata. Non si tratta affatto di disobbedienza; semplicemente di maggiore ampiezza di orizzonti strategici, di più specifica conoscenza della Politica nel senso indicato.
Certamente, la Politica in questione permea tutte le sfere sociali; la strategia (per la supremazia nel conflitto) è quella usata dai vertici degli apparati politici e militari (dallo Stato, da organismi politici internazionali o di carattere interno; non quelli esclusivamente dediti alla semplice amministrazione di “servizi generali”, la cosiddetta burocrazia), dalle punte più elevate in senso ideologico-culturale, dagli imprenditori in quanto non semplici “soggetti” esclusivamente dediti ai ristretti principi (robinsoniani) del minimo mezzo.
7. Da quanto fin qui sostenuto si dovrà ripartire per riqualificare la teoria della società, anche di quelle formazioni sociali caratterizzate, come lo sono ormai quasi completamente nel mondo, dalla forma di merce e dall’unità produttiva denominata impresa. E riqualificare la teoria – in definitiva un sistema di ipotesi che pone appunto dati campi di stabilità sui quali poter agire nel conflitto per la primazia – implica modificare l’“orientamento visivo” con cui si è guardata la storia negli ultimi due secoli (e più), salvo eccezioni. Quasi sempre, a date teorie dominanti se ne sono opposte altre in contrapposizione frontale; e in questo scontro si sono sostenute vicendevolmente, perdurando nel tempo oltre ogni limite credibile con effetti sociali assai dannosi provocati dalla condotta dei diversi gruppi in lotta.
Quando Lukàcs parlò, con acume, di tesi in contrasto antitetico-polare indicò appunto il carattere che hanno molte teorie critiche di quelle predominanti. Del resto, ancor oggi tutto si svolge all’interno di questo continuo “gioco degli specchi”, in cui i fronti in lotta si forniscono, pur se spesso involontariamente, reciproco appoggio dividendosi le fette di potere (anche chi sta “in opposizione” gode della sua bella fetta) nell’ambito delle formazioni sociali tipiche dell’attuale fase storica; sarebbe però forse meglio dire dell’epoca che si sta aprendo. La riqualificazione della teoria sociale deve abbandonare la mera critica delle teorie oggi in campo. Insistere nella semplice polemica – credendo che questo sia il compito di chi vuol “abbattere” la società detta capitalistica (definita con termine unico che tutto confonde, che stende il velo nero della notte su tutto il “gruppo delle vacche al pascolo”) e iniziare l’immaginaria transizione ad una qualche “isola che non c’è” – è esattamente ciò che vogliono gli ideologi dei gruppi dominanti odierni (non semplicemente quelli economici, ma pure quelli politici e ideologici fra loro in intreccio). Si ha a che fare con un ceto intellettuale di rara disonestà e inettitudine, che continua a pontificare affermando tesi ormai talmente decrepite da rappresentare uno dei più gravi sprofondamenti culturali di tutti i tempi.
Bisogna rinnovare completamente la teoria sociale, proponendo altre tesi. E’ ovvio che non saranno create dal nulla, che recupereranno elementi rilevanti da diversi pensieri già formulati in passato e ripresi sporadicamente da pochi autori odierni, i meno noti e pubblicizzati. L’importante è non farsi guidare da intenti immediatamente polemici e critici nei confronti di una marea di presunti intellettuali ormai dementi, che stanno annientando ogni forma culturale dotata del minimo di intelligenza necessaria a non immergersi nella cloaca odierna dei dibattiti e polemiche da talk-shows.
Cosa resta di Marx e del brano da cui ho preso le mosse? Innanzitutto, il tentativo di individuare – senza alcuna pretesa di riprodurre la realtà così com’essa è – le posizioni occupate dai “soggetti agenti”, posizioni da ritenersi comunque “oggettivamente determinate” nell’ambito della Politica caratterizzata dal conflitto strategico tra gruppi “nemici”, da cui deriva la precipitazione in istituti e apparati vari, ognuno dei quali non può non “condensarsi” (“coagularsi”) in opportune organizzazioni gerarchizzate, che danno stabilità al “terreno” su cui lo scontro si svolge. E’ ovvio che nella rete organizzativa degli apparati – più o meno piramidalizzata, più o meno rigida nella fissazione delle diverse caselle poste in gerarchia – vengano in esistenza ruoli più o meno ben definiti; e chi li occupa svolge le funzioni inerenti a quel ruolo ed esercita il potere inerente a quella posizione nella gerarchia. L’importante è non limitarsi all’identificazione di soltanto due classi antagonistiche – in base, ad es., alla proprietà o meno dei mezzi di produzione – immaginandosi i soggetti agenti nelle posizioni di vertice degli apparati economici quali gruppi predominanti, cui tutti gli altri sarebbero di fatto asserviti o comunque dipendenti.
Nello stesso tempo si spiega anche la frasetta posta alla fine del brano in questione: “per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi”. Non si tratta del “porsi al di sopra” di alcunché. Nel conflitto si affrontano certamente individui concreti, empirici, con la loro specifica diversità. Tuttavia, non si devono mettere sullo stesso piano la determinazione “oggettiva” (per quanto pensata solo in base ad ipotesi formulate nel corso dell’analisi) e le caratteristiche soggettive dei singoli concreti individui; si accosterebbero e mescolerebbero fra loro due diversi livelli teorici. Sarebbe come dire: “il moto è rettilineo uniforme, supponendo l’assenza di ogni attrito; ma, in certi casi, è necessario tenere conto degli attriti che concretamente, empiricamente, esistono”. Così non si fa teoria, ma ci si attiene ad un semplice “buon senso” confusionario.
Il problema è invece pur sempre “oggettivo” (e sempre in via di ipotesi). I “soggetti agenti” possono svolgere il loro conflitto – indipendentemente dalle loro caratteristiche psicologiche individuali – soltanto se fissano dati campi di stabilità nell’ambito di una “realtà” che si suppone essere un flusso caotico, continuamente mutevole; una realtà che non si conosce in questo flusso continuo, ma viene solo ipotizzata mediante la fissazione delle successive stabilità. E’ del tutto evidente che – appunto senza far subito riferimento alle differenze individuali dei vari agenti, occupanti i diversi ruoli negli apparati (economici, politici, ideologici, ecc.) in quanto precipitato delle mosse strategiche di un conflitto tra coloro che devono situarsi, per meglio combatterlo, nei suddetti campi di stabilità – la determinazione “oggettiva” supposta per tali agenti è sempre rimessa in discussione, durante lo svolgimento delle loro funzioni, dal flusso della “realtà”. Non è che ci si possa porre, talvolta, “al di sopra” delle “determinazioni oggettive”. Sempre, nello “scorrere della storia”, quelle presunte determinazioni oggettive vengono “superate”, cioè non rispettate; sempre i soggetti agenti svolgeranno le loro funzioni essendo convinti di perseguire precisi obiettivi, che si dimostreranno infine mai realizzati e invece sostituiti da altri obiettivi impensati. E quando si cercherà di pensarli, ricomincia lo stesso “gioco” dei ruoli degli agenti in conflitto (di strategie) appena considerato.
Mai si giungerà alla mitica società organizzata secondo principi di cooperazione e smussamento (mediazione) dei conflitti. Ma non per questioni genetiche, non perché nel DNA dell’uomo (in quanto animale) ci sia la volontà di potenza, il desiderio di primeggiare e affermare la propria supremazia. E’ un problema di scontro tra la “realtà”, inconoscibile nel suo fluire caotico e continuo, e il modo secondo cui i soggetti agenti sono costretti ad agire in essa; e non si può non agire, altrimenti non si (soprav)vive. Nell’azione si entra in conflitto; non è che non si tenti la cooperazione, da cui nascono le alleanze (come, tra individui, le amicizie, l’amore, ecc.). Il fatto è che il flusso caotico travolge infine ogni campo di stabilità istituito; e il conflitto non può non riprendere (così come spesso vengono azzerate le amicizie, l’amore diventa odio o almeno ostile indifferenza).
Credo si debba ripartire da queste ancora sommarie indicazioni, senza più polemizzare con chi si ostina a cianciare intorno alle “robinsonate”, ai comunismi o comunitarismi, raggiungendo ormai vette di inconcludente vaneggiamento. Quanto all’“amore” predicato da molte religioni, appartiene ad altro ordine di problemi, su cui non mi soffermo in questa sede.