RIPENSARE, NON SRAGIONARE di G. La Grassa
Per Marx, come dovrebbe sapere anche un bambino delle elementari, il comunismo (in quanto “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”, non certo quale “costruzione sociale” di tipo ingegneristico, che il Nostro lasciava ai fourieristi, owenisti e compagnia cantando!) sarebbe dovuto essere l’inveramento sostanziale di ciò che il liberalesimo predicava solo nella forma. In poche parole, si trattava del pieno sviluppo dell’individualità. Il passaggio dalla pura forma (liberalesimo) alla sostanza (comunismo) di tale sviluppo era rappresentato da una appropriazione realmente collettiva dei mezzi di produzione. Non dei beni in generale, come pensano alcuni “cattocomunisti” scemi; non era previsto alcun collettivismo per orologi e mutande; e nemmeno, oggi, per automobili (se non servono da mezzi di produzione per sfruttare il lavoro salariato di certi taxisti) o computer (idem come sopra).
La collettivizzazione dei mezzi produttivi non era però per Marx la loro mera statalizzazione, e la produzione svolta in base a decisioni prese in comune dai produttori non era una pianificazione da parte di un organismo centralizzato e onnipotente, posto nelle mani di determinate oligarchie dominanti (e incontrollate), che sarebbero allora vissute a sbafo del pluslavoro dei produttori associati. Una produzione in comune non significava affatto alcuna forma di organicismo, di costrizione degli individui ad essere simili agli “abitanti” di un qualsiasi formicaio. Anzi, la produzione in associazione in tanto aveva significato in quanto, secondo Marx, avrebbe portato al copioso fluire dei beni (con il famoso “a ciascuno secondo i suoi bisogni”), quindi all’eliminazione della scarsità, della misurazione del contributo individuale in base allo sforzo (lavoro, inteso nel suo complessivo significato di uso di braccio e cervello), con conseguente crescita del tempo libero, in cui ogni individuo avrebbe dato libero sfogo alle sue differenze e propensioni, quelle per le quali ognuno di noi è un unicum e non deve subire le costrizioni degli altri.
Utopia? Solo per chi non capisce che in Marx una simile situazione sarebbe dipesa dal formarsi – all’interno stesso dello sviluppo capitalistico, per sue dinamiche intrinseche – della base sociale indispensabile al prodursi dei fenomeni previsti. L’ho detto più volte e sarò breve: si sarebbe formato l’operaio (o lavoratore) collettivo (o combinato) cooperativo, con l’unione – in un primo momento attraversata da contraddizioni e tensioni, poi progressivamente superate – tra lavoro intellettuale (la mente) e manuale (il braccio), tra lavoro direttivo (“l’ingegnere”) ed esecutivo (il “giornaliero o manovale”). Il gruppo dei capitalisti si sarebbe ridotto ad un drappello di autentici parassiti (finanzieri, proprietari di meri pacchetti azionari, ecc.) sempre più invisi alla maggioranza della popolazione produttiva; abbattendo rivoluzionariamente il loro ultimo baluardo di potere, lo Stato, e passando per una fase transitoria (quella della progressiva abitudine alla collaborazione nell’ambito dell’operaio combinato), si sarebbero poste le basi (sociali, non solo economiche o solo tecnologiche) per il passaggio a quel comunismo ricco di tempo a disposizione per sviluppare le proprie prerogative individuali.
I processi reali di sviluppo capitalistico non sono stati quelli previsti da Marx; ma non perché egli fosse utopista. Tanto varrebbe sostenere che Newton era utopista perché non aveva afferrato la dimensione integrata spazio-tempo della teoria della relatività. Marx ha analizzato il modo di produzione del capitalismo borghese, società sviluppatasi con particolare rigoglio in Inghilterra e ancora largamente invischiata nelle forme sociali precedenti per molti lati culturali, di status sociale e altro. Non insisto su questo, ma in ogni caso, nell’epoca detta dell’imperialismo (quella da me definita policentrica e che non era ultimo stadio di un bel nulla!), si è passati alla società dei funzionari del capitale, in cui la predominanza fu in definitiva assunta dal capitalismo statunitense: una formazione sociale basata essenzialmente sulle prerogative dei dominanti di combattersi fra loro per la supremazia mediante l’impiego di appropriate strategie, la cui comprensione è assai più decisiva di qualsiasi mera proprietà dei mezzi produttivi (e dei fenomeni della sua concentrazione e centralizzazione); e con una complessa articolazione degli agenti dominanti nelle tre sfere (teoriche) in cui la società si suddivide: economica (con le sottosfere produttiva e finanziaria), politica e ideologico-culturale.
La società dei funzionari del capitale è decisamente peggiorativa, più selvaggia e feroce (e alla lunga distruttiva: e non dell’ambiente, o superficiali di sinistra!, bensì della socialità stessa) del capitalismo borghese. Tuttavia, è una società diversa, che non mette in moto le presunte (da Marx) dinamiche intrinseche che preparerebbero la base sociale per una transizione alla superiore forma comunista. Questa società non si può più combattere con il vecchio marxismo e con il vecchio comunismo. Queste forme di pensiero e azione sono come quelle degli sclerotici “materialisti volgari” che hanno in orrore, e non accettano nemmeno adesso, che il fotone possa essere corpuscolo e onda nel medesimo tempo. Questi imbecilli vanno presi a calci in culo; ed è quello che deve essere fatto con marxisti trogloditi e comunisti pasticcioni e inconcludenti. La società dei funzionari del capitale esigerà altre forme di pensiero e azione, che non è facile apprestare: innanzitutto, per il ritardo accumulato dai trogloditi di cui sopra; ma non solo, certamente.
La cultura dominante ha sempre una funzione di freno e di impedimento di ogni pensiero rivoluzionario che cerchi di rinnovarsi. I dominanti, altrettanto trogloditi (ma a loro va bene così, perché non hanno da rinnovare nulla, basta affidarsi agli ormai collaudati meccanismi riproduttivi del dominio), continuano a rispolverare le loro ormai sfatte teorie della “mano invisibile”; oppure, per gettare un po’ di fumo negli occhi, straparlano ancora del decrepito “riformismo” detto keynesiano. Se poi arriva uno come Tremonti – che parla di “valori” (cristianeggianti), che osa attaccare il mercatismo (non mai il liberismo tout court), che individua motivi di speculazione nel comportamento strategico dei dominanti – sembra quasi venire da un altro pianeta; non può che stimolare ammirazione e simpatia, ma solo perché lo si confronta con liberisti e marxisti che sembrano in risalita dalle catacombe. I dominanti sono sempre pronti a fare affluire piccoli rivoli di finanziamento, di assegnazione di cattedre universitarie, di appoggi editoriali, giornalistici, mediatici in genere, anche ai residui sclerotici che del marxismo hanno fatto un’abietta caricatura (in genere economicistica), perché così le loro vetuste teorie sembrano di una sfolgorante modernità, al confronto.
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Non ci sono però solo le imbalsamazioni economicistiche del marxismo; come quelle dei bordighisti e trotzkisti, autentiche malattie genetiche degenerative della teoria rivoluzionaria di Marx (e della prassi altrettanto rivoluzionaria di Lenin). Abbiamo anche l’orrenda, abominevole, mostruosa, aberrante, laida, unione di un comunismo primitivo, anti-individualista ed organicista (da formicaio), e di un pseudo-buonismo (ammantato di falsa religiosità), miscuglio difficile da definire. Per semplificare, anch’io uso a volte il termine “cattocomunismo”, che rischia di essere però fuorviante. Non confondiamo, che so, Dossetti, Rodano, Napoleoni, ecc. con questi disgustosi “tanto buoni” verso tutti i “diversi” e “diseredati”: mantenendoli rigorosamente nella loro diversità e disadattamento sociale, cercando solo di assumerne la “pelosa” difesa falsamente solidaristica e, spesso, assumendone le caratteristiche degenerative (in termini sociali, non d’altro genere).
Abbiamo a che fare con esseri verminosi che si trincerano dietro la più assoluta deresponsabilizzazione individuale pur di minare alla base ogni pur minima convivenza sociale. Le loro manifestazioni sono il festival dell’anarchia e distruttività, sono caratterizzate dall’assenza di un autentico uso della ragione pensante, sono il dispiegarsi della massima rozzezza e volgarità; esattamente la stessa che vediamo debordare da spettacoli come il “grande fratello” o i talk show dove non si riesce a captare l’esistenza di un qualche sussulto di cervello umano. Quando si leggono i loro blog e siti, è ancora peggio, sono veramente orrorifici.
Questi vili e debosciati assegnano ogni colpa, ogni delitto, ogni degenerazione, alla “società”. Qualsiasi abominio è sempre a carico di questa “società”. Questo è il loro modo di scaricarsi la coscienza: non assumere mai una responsabilità individuale. Certamente, non ci vengano ad insegnare, questi cretini o farabutti (o entrambe le cose), che l’individuo è “impigliato” in una rete di rapporti sociali, che l’essere sociale ha una valenza cogente rispetto alla coscienza individuale. Il vero comunista, che ho fatto a tempo (almeno in parte) a conoscere, non ne faceva comunque uno scudo per non assumere la piena responsabilità individuale dei suoi atti; e dunque si sentiva in diritto e dovere di giudicare anche la responsabilità altrui senza rinviare a determinismi sociali quali mere scuse per tutto giustificare. E lo stesso vale per un vero cattolico, che non fa sempre appello alla predestinazione per scansare quello che deve valere come recisa condanna di comportamenti nocivi e asociali.
Non è chi non capisca che è proprio la sinistra – e quella “radicale” in primis – ad assumere questi vili comportamenti di totale deresponsabilizzazione individuale. E, se vogliamo giocare sulla determinazione della coscienza individuale da parte dell’essere sociale, allora diciamo che la sinistra di cui si parla ha questa abietta e laida mentalità perché abituata alla totale deresponsabilizzazione indotta dall’impiego nel settore pubblico, dove essa è prevalentemente infilata (perché è qui che allignano questi buonisti del cazzo, non certo nelle fabbriche e luoghi similari). La società dei funzionari del capitale è molto peggiore del capitalismo borghese; proprio per questo, è oggi che vengono in fondo allevati gli irresponsabili del “tutta la colpa è della società” (la borghesia aveva in qualche misura il senso della responsabilità e della condanna). Questa vigliacca abdicazione alla propria responsabilità individuale rende contenti i dominanti attuali, perché pone ostacoli ad ogni reale critica adeguata alle nuove strutture sociali, che non sono più quelle combattute dal vecchio marxismo e dal vecchio comunismo.
Queste ormai superate correnti di prassi e di pensiero hanno combattuto con piena responsabilità la società del loro tempo, hanno fornito insegnamenti della massima serietà. Solo che non ci si può sclerotizzare sul vecchio: nella nuova formazione sociale, saranno necessarie altre teorie e altre prassi, che andranno tuttavia ripensate e praticate con la stessa serietà di quelle vecchie, con la loro capacità di assumersi le responsabilità di successi e fallimenti, con la durezza delle condanne per chi sgarrava. Basta con la favoletta che certe punizioni erano solo questione di lotta per il potere. Certamente, ci sono stati anche scontri durissimi di tal tipo, perché anch’essi fanno parte di un essere sociale che “determina” la coscienza individuale; la quale mai si può sottrarre però alla responsabilità dei suoi atti, dei suoi sbagli, delle sue eventuali colpe.
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Certuni ci dicono che una certa sinistra odia questo blog. Forse credono di intimorirci? Non odio questa sinistra, la considero soltanto la malattia sociale per eccellenza. Il mio pensiero è molto netto: aborrisco i deresponsabilizzatori, gli attributori delle colpe alla “società”, i buonisti che amano tanto i “diversi” e “disadattati”, trattandoli per ciò stesso da diversi e disadattati, solo scusandoli e dicendo loro che sono mammole e gigli purissimi: è stata la “società” a schizzarli di fango. Tutti assolti! Sinistri simili vanno estirpati e annientati; questo facevano i bolscevichi dopo la rivoluzione del ’17, poiché li conoscevano bene quali debosciati atti ad impedire o guastare il lavoro di coloro che almeno tentarono la trasformazione dei rapporti sociali; i bolscevichi sapevano che quest’ultima è decisiva allo scopo di affermare nuovi valori e nuove responsabilità, ma intanto si assumevano quelle necessarie al tentativo in corso, pagando di persona quando dovevano pagare.
Questa sinistra di irresponsabili e piccolo borghesi infingardi e vili, sia al più presto spazzata via, e senza rimpianti né rimorsi. Un alibi di meno per i dominanti di questa distruttiva società dei funzionari del capitale.
PS Mi permetto un consiglio a chi vuol veramente ripensare una nuova teoria critica dell’attuale formazione sociale. Si limiti a rileggere e rimeditare Marx, Lenin, Gramsci e Althusser. Il primo è il “fondatore” del marxismo, ma solo apparentemente – per gli scolastici che ne hanno sempre fatto l’esegesi senza un minimo di intelligenza in grado di andare oltre il deleterio accademismo – è il pensatore di una teoria valida in generale, la teoria di ogni modo di produzione capitalistico in qualsiasi tempo e luogo. Vale per Marx quello che lui stesso affermò nella Prefazione del 1859:
“Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa”.
Marx non è quello che egli pensa di essere; e tanto meno quello che pensano sia gli esegeti di cui sopra, sempre alla stupida ricerca di ciò che un autore avrebbe “veramente detto”. Marx è nei fatti un pensatore di fase, di quella del capitalismo borghese, affermatosi durante l’epoca della predominanza centrale inglese. Lenin e Althusser sono stati mirabili nella loro precisissima comprensione della lotta (teorica e pratica) nella congiuntura data; la loro politicità è di una “purezza” difficile da eguagliare. Gramsci si potrà anche criticare per un certo cosiddetto “crocianesimo”, ma è esemplare per avere fatto i conti con la nostra storia e politica nazionale, con la nostra struttura sociale, i blocchi sociali e di potere, ecc.
Giusto considerare il contesto internazionale del conflitto; ma non si può farlo con il semplice buonismo verso i reietti e perseguitati dall’imperialismo americano. Siamo in Italia, o voi che volete sempre ricostruire questa miserabile sinistra dell’abiura e della inconsistenza intellettuale! E la nostra storia, in particolare quella del dopoguerra (e di dopo la svolta seguita al “crollo del muro”), è da rimeditare: con lucidità e con piena adesione alla lezione del Machiavelli, che fu alla base anche delle riflessioni gramsciane. Quei “deboli di cervello”, che oggi fanno i moralisti e che gridano contro il “fine giustifica i mezzi”, vanno trattati come minorati psichici; perché tali sono, e ci metterei la firma che, al momento opportuno, sarebbero i più meschini opportunisti capaci di ricorrere a osceni mezzucci pur di strappare qualche modesta prebenda. Amici e vecchi compagni, alla larga da questi ipocriti e aspiranti a nuovi rinnegamenti. Ricordate: Marx, Lenin, Gramsci (con Machiavelli) e Althusser! Gli altri, sfogliateli a volo d’uccello nei momenti di grande afa e calura, quando il vostro cervello ha bisogno di un po’ di rilassante noia.
E soprattutto: uccidete in voi la sinistra del falso moralismo e buonismo, queste squallide caratteristiche del servo plebeo in cerca di riconoscimenti da parte dei funzionari del capitale!!! Ma ogni servo, in qualsiasi epoca storica, è sempre stato un falso moralista al servizio dei padroni. Il suo riconoscimento è perciò di una semplicità assoluta. Egli non si smentisce mai, ripete con monotonia lo stesso schema: è dunque facilissimo scoprirlo. E anche l’odio che porta a chi lo smaschera, e lo dipinge nei suoi veri tratti di vilissimo mercenario, è una costante storica. Siamo quindi onorati se veramente questi “sinistri” ci odiano; abbiamo colpito giusto, li abbiamo colti in flagrante mercimonio e svendita.