RIPOSIZIONARSI, NON ABBARBICARSI AL DECREPITO

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1. C’è ancora qualcuno che si precipita a pensare alla fine del capitalismo non appena quest’ultimo attraversa un grave crisi (per il momento solo economica, che non è la più lacerante fra tutte le crisi sociali). Inutile obiettare che il capitalismo ha passato, e superato, crisi economiche altrettanto o ancor più gravi: quella assai prolungata del 1873-96, quella del 1907 (con varie difficoltà protrattesi in fondo fino alla “Grande Guerra”), quella iniziata nel 1929 e che si è di fatto trascinata fino alla seconda guerra mondiale. I cocciuti credenti nella fine (o crollo) del capitalismo si pongono la domanda: perché questa volta non dovrebbe essere quella buona del tracollo dell’odiato nemico? Domanda del tutto speculare alla sua contrapposta: perché non dovrebbe finire come tutte le altre volte, al massimo con una trasformazione più o meno profonda della formazione capitalistica?
In realtà, proprio quelli che sperano nella fine dell’attuale società non ne colgono mai le vere e notevoli trasformazioni. L’unica volta che un cambiamento è stato individuato è stato all’epoca della crisi del 1873-96, considerata epoca di passaggio dalla concorrenza al monopolio. Dunque, un mutamento trattato nel suo aspetto più superficiale ed economicistico, relativo alle “forme” di mercato. Si è andati un po’ più oltre con le teorie dell’imperialismo, di cui l’unica ancora oggi da prendere in considerazione è quella di Lenin. Tuttavia, anche questi ne parlò come di un ultimo stadio del capitalismo prima dell’esplodere di una serie di rivoluzioni proletarie, di cui quella del 1917 (rivelatasi infine per nulla proletaria, pur se comunque importantissima) avrebbe dovuto rappresentare l’innesco se non proprio l’immediato detonatore. La storia effettiva – non quella desiderata, perseguita, e a lungo immaginata secondo la consuetudine di ideologie diventate sterili dogmi semireligiosi – si è svolta lungo percorsi altri, dimostrando che l’epoca dell’imperialismo è stata tutt’al più di tipologia policentrica, con lotta tra alcune nazioni -potenza per la supremazia mondiale; una lotta durata a lungo perché il monocentrismo, in senso stretto, è durato dal 1989-91 fin verso il 2003-4; e comunque non è definitivamente tramontato, non cadiamo in altri marchiani errori per troppa fretta.
Semmai, è da dire che tra la depressione ultraventennale di fine secolo XIX e la seconda guerra mondiale, è probabilmente avvenuta la trasformazione del capitalismo borghese – quello che Marx analizzò ne Il Capitale costruendo il concetto di modo di produzione capitalistico – nel capitalismo da me definito provvisoriamente, e in mancanza di un vero concetto, dei funzionari del capitale, affermatosi in modo particolare negli Usa, e che ha costituito quasi sicuramente uno dei motivi decisivi della predominanza di tale formazione particolare all’interno del “campo capitalistico occidentale” (ivi compreso il Giappone). Questa forma di società “storicamente specifica”, la cui differenza rispetto al primo capitalismo si coglie “intuitivamente”, non è però mai stata effettivamente analizzata – soprattutto per differenza – salvo quella superficialissima notazione della monopolizzazione del capitale, che ha condotto in direzioni errate tali da rappresentare oggi un vero “manto oscuro” per la comprensione degli avvenimenti mondiali.
La rielaborazione, da me compiuta, dei concetti marxiani tradizionali ha posto in risalto, collocandolo al centro dell’analisi, il tema del conflitto tra agenti strategici (non solo nella sfera economica) del predominio capitalistico. Tale cambiamento implica una completa ristrutturazione di quel campo teorico prima occupato dal concetto di modo di produzione – poiché non considera più la contraddizione tra capitale e lavoro come principale e antagonistica, assegnando notevole rilevanza, soprattutto in date fasi storiche, al conflitto tra gruppi dominanti, e tra formazioni particolari sul piano mondiale – ma non definisce ancora, appunto concettualmente e per differenza, il capitalismo dei funzionari del capitale in rapporto a quello borghese dei primordi (e della predominanza centrale inglese).
Alcuni, ormai pochissimi, considerano ancora validi oggi gli obiettivi (comunistici) della Rivoluzione d’ottobre e insistono nel volerli ripensare e “rivalidare”. Altri li danno per puramente e semplicemente falliti. Altri ancora – contro cui si è giustamente scagliato qualche giorno fa G.P. nel nostro blog – strillano che non si doveva fare quella rivoluzione, che bisogna dimenticarla e rinnegarla tout court, se si vuole ripresentarsi “puliti” e con le carte in regola per ritentare…..la propria svendi-
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ta ai gruppi dominanti attuali. Ci sono poi quelli che credono di riverniciare a nuovo il vecchio comunismo – che in Marx si fondava comunque su tendenze realistiche dello sviluppo capitalistico, del tutto realizzatesi storicamente, solo in un contesto non correttamente previsto che ne ha parzialmente, ma significativamente, mutato il segno – proponendo sotto la denominazione “comunitaria” vecchie utopie, che assumono un carattere profondamente reazionario; non nel senso spregiativo che normalmente si associa a tale termine, ma comunque ambigue e pericolose per il loro essere perniciosamente fuori della realtà attuale.
In effetti, bisognerebbe ricordare che, nella storia, si conseguono alla fine scopi assai lontani da quelli perseguiti da chi aveva dato inizio a grandi movimenti rivoluzionari (la Rivoluzione del 1789 mi sembra un esempio preclaro in tal senso). Tutti i movimenti rivoluzionari sono “un fallimento” se prendiamo semplicemente in esame gli obiettivi che si erano posti. Marx aveva con forza sostenuto – proprio nella vituperata Prefazione del ’59 – che “come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento [rivoluzionario, appunto; nota mia] dalla coscienza che essa ha di se stessa”. Un’epoca storica non ha evidentemente “coscienza”, poiché non è un individuo dotato di cervello pensante; la “coscienza dell’epoca” è quella degli individui, riuniti in dati gruppi sociali in lotta fra loro, che perseguono determinati obiettivi (di gruppo). La “coscienza dello sconvolgimento”, prodottosi in una “data epoca”, è quella dei gruppi in azione rivoluzionaria che perseguono determinati obiettivi.
Ovviamente, questi obiettivi non dipendono dal puro desiderio dei rivoluzionari, si basano invece sull’analisi della situazione pensata come oggettiva, dotata di tendenze intrinseche; in una certa misura non può non essere così, altrimenti i rivoluzionari corrono soltanto alla loro immediata disfatta e annientamento, come accade a tutti i semplici utopisti e visionari. Tuttavia, il successo della rivoluzione innesca lunghi processi storici, alla fine dei quali successive generazioni, magari lontane dall’avvio degli stessi, rilevano di trovarsi in un mondo che è, si, mutato radicalmente, ma non nella direzione che era stata pensata e voluta. Ho la sensazione – nulla più che questo, perché per troppo tempo siamo tutti rimasti invischiati nelle vecchie ideologie: sia quella dei comunisti, sia quella dei dominanti visceralmente anticomunisti, anche per la “paura presa” di possibile fine del loro predominio – che a un secolo di distanza dall’ottobre del ’17 si stiano dispiegando i profondi mutamenti intervenuti comunque, e che non si sarebbero verificati senza quell’evento.
Quando “a naso” prevedo l’entrata in una nuova epoca policentrica, che metterà fine alla indiscussa centralità statunitense (senza però ripristinare uno stagnante, e tuttavia instabile, bipolarismo), mi riferisco a “qualcosa” che ripete ma in nuove forme l’epoca “dell’imperialismo”. In quest’ultima, a cavallo tra XIX e XX secolo, si compì la transizione, non ancora concettualmente definita, dal capitalismo borghese a quello dei funzionari del capitale. Non è da escludersi che dalla nuova epoca policentrica nasca un’ulteriore transizione, di cui i paesi ex “socialisti” (quelli che sono anche potenze, formazioni particolari dotate della forza sufficiente a ingaggiare la multipolare lotta per la supremazia) sono oggi solo l’annuncio, non ancora la “precipitazione e condensazione” in un’autentica nuova forma sociale. In tal senso, l’attuale crisi economica, pur se fosse sconvolgente (come lo sono i “terremoti”, movimenti comunque di superficie), andrebbe considerata nulla più che uno, e non il più rilevante, dei momenti di avvicinamento al possibile policentrismo, cioè alla suddetta transizione.
Si è ancora in arretrato per quanto concerne la comprensione del capitalismo nato dal precedente scontro policentrico; lo si è semplicemente trattato quale forma monopolistica (una interpretazione che oggi appare veramente banale e sconsolatamente superficiale), duplicando con tale errore quello precedente della fallace previsione marxiana circa la definitiva e irreversibile prevalenza del parassitismo finanziario (della “classe” dei rentier). Adesso, senza aver spiegato quella prima transizione, siamo con grande probabilità alla vigilia di una nuova. Si pensi a quanto siamo in arretrato teoricamente. E senza teoria, ben lo sanno le persone minimamente avvertite, non vi è alcuna possibilità di una pratica corretta, di un orientamento che non prenda cantonate ad ogni mossa compiuta.
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2. Lo scopo di questo scritto non è così ambizioso da voler risolvere il problema di nuove concettualizzazioni della formazione capitalistica. Mi preme rilevare come una serie di teorizzazioni fatte oggi non siano altro che la ripresa della vecchia “nefasta teoria delle forze produttive” aspramente combattuta, ma in un diverso contesto, all’epoca della rottura tra Cina e Urss, tra comunismo che si pretendeva marxista-leninista e quello definito neorevisionista. In Europa, la critica fu portata avanti particolarmente dall’althusserismo, cui ho appartenuto e che non rinnego affatto tuttora, considerandolo anzi l’unico episodio di una ripresa scientifica, non insensatamente utopica, del marxismo e del comunismo. L’“operaismo” – profonda degenerazione del marxismo (non certo quello di Marx), cui Althusser, nella sua seconda e un po’ “fluida” fase, fece qualche concessione – aderì ad una forma particolarmente regressiva della teoria delle forze produttive: da quelle materiali e oggettive passò al loro lato soggettivo; che poi si tratti di operaio-massa, di operaio sociale, di “macchine” desideranti, di moltitudine, ecc. poco importa. Sempre di iperbolica sopravvalutazione di un qualche “soggetto rivoluzionario” (gli operaisti ne hanno teorizzati di ogni specie) si tratta; e tale soggetto è parte integrante del concetto di forze produttive, non strutturate dai rapporti sociali (di produzione).
Per un marxista quale io sono, pur essendo conscio dei limiti di questa teoria (anzi sono proprio marxista in quanto non religiosamente prono di fronte ai suoi principi resi dogmi), il primo obbligo è di chiarire il contesto in cui si svolgono determinati dibattiti teorici. Di quello sulla “nefasta teoria delle forze produttive” sono stato (piccolo) protagonista, althusseriano, agli inizi degli anni ’70; quindi ricorderò, per i più giovani, quel periodo. Intanto, dagli anni ’50 in poi, era tutto un fiorire, da parte comunista, di statistiche (aggiustate) che volevano dimostrare come, nel giro di 20 anni, l’Urss avrebbe superato la produzione (oggi diremmo il Pil) degli Usa, la Cina avrebbe superato quella dell’Inghilterra, il campo socialista avrebbe contribuito per più del 50% alla produzione mondiale. Sarebbe stata la dimostrazione di un assunto attribuito, con qualche ragione, a Marx stesso: i rapporti capitalistici rappresenterebbero, oltre un certo limite di sviluppo delle forze produttive, un freno a quest’ultimo; il capitale sarebbe “barriera al suo stesso sviluppo”.
In quegli anni, iniziava a diffondersi l’automazione dei processi lavorativi; non quella informatica, è evidente, quella solo meccanica. Tuttavia, essa (si vedano gli studi di Pollock) rappresentava un grande progresso verso la liberazione dell’uomo dalla costrizione al duro lavoro; sarebbe aumentato il tempo libero e quindi la possibilità di dare ampio sviluppo ai bisogni umani d’ordine superiore, culturale, ecc. (quale utopia!). Tuttavia, i rapporti capitalistici non erano ritenuti in grado di sopportare un elevato livello e ritmo di automazione, poiché sarebbe così stata sostituita la forza lavoro, la fonte stessa del pluslavoro/plusvalore (ecco dove porta la parodia economicistica della teoria del valore lavoro di Marx). Anche l’automazione, quindi, avrebbe giocato in favore del superamento del limite costituito dai rapporti capitalistici da parte delle forze produttive in crescita.
Questa dunque la tesi di fondo di quelli che noi, marxisti-leninisti, ritenevamo riformisti opportunisti e attendisti. In effetti, le tesi di questi ultimi – dai sovietici kruscioviani (e poi brezneviani) agli italiani togliattiani – conducevano alla conclusione che non c’era più alcun bisogno di rivoluzione; tutto sarebbe avvenuto gradualmente, pacificamente – in occidente tramite la conquista di maggioranze parlamentari – per la dimostrata incapacità del capitalismo di svilupparsi ulteriormente e di dare maggior benessere al popolo, diminuendo nel contempo la sua fatica lavorativa. Elemento fondamentale di tali tesi, lo si badi bene, era che tale dimostrazione – la putrescenza e arresto dello sviluppo produttivo – avrebbe convinto non più soltanto la Classe (operaia), bensì la pressoché intera popolazione, dell’impossibilità di crescere ulteriormente in regime capitalistico. La rivoluzione sarebbe dunque stata un “frutto maturo”, anzi “fradicio”, e sarebbe caduta in mano ai comunisti senza colpo ferire, per via pacifica (la “via italiana al socialismo”, lanciata opportunisticamente da Togliatti nella famosa intervista del 1956 a Nuovi Argomenti).
In simili concezioni permaneva evidentemente il solito errore marxista (e anche marxiano) secondo cui il capitale, giunto al supremo stadio del suo sviluppo, si trasformava in parassitario monopolio finanziario, controllato da un pugno di rentier ormai disinteressati alla produzione e solo
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dediti agli imbrogli cui sono in effetti sempre interessati i capitalisti finanziari (l’ultima crisi è paradigmatica al proposito). Per capire come mai il capitalismo, malgrado lo scatenamento dei giochi finanziari e le crisi che ne conseguono, non sia crollato (e vedrete che non crollerà nemmeno stavolta), bisogna mutare paradigma nel senso da me indicato più sopra ma anche in tutti i miei scritti degli ultimi 12 anni: i dominanti come agenti del conflitto strategico, ecc. Tornando a quegli anni, vi era nelle concezioni revisioniste, oltre all’enfatizzazione di questo preteso stadio supremo, un errore teorico, con le debite disastrose conseguenze pratiche, di cui né Marx né Lenin sono responsabili primi: l’identificazione del socialismo quale proprietà dello Stato e pianificazione globale da parte dello stesso.
La “via italiana al socialismo”, ad esempio, blaterava in continuazione di riforme di struttura; a parte una generica indicazione di alleanza tra la Classe e i “ceti medi produttivi” (in un certo senso, le piccole imprese dette artigiane e i coltivatori diretti), il vero cavallo di battaglia di tale politica opportunistica era il preteso uso dell’industria di Stato – utilizzata intelligentemente dalla Dc, come prima lo era stata solo in parte anche dal fascismo, per lo sviluppo del paese – in funzione antimonopolio privato. Vi erano indubbiamente pezzi dell’IRI che si ponevano come aiuto all’impresa privata; penso alle Acciaierie di Cornigliano Ligure, accusate di vendere materia prima sotto costo alla Fiat. E’ intanto da rilevare che a quel tempo la nostra principale impresa automobilistica era di fatto un’azienda d’avanguardia nella introduzione e diffusione del fordismo in Italia, rimasta indietro da questo punto di vista rispetto ad altri paesi capitalistici più avanzati (per non parlare ovviamente degli Usa).
Tuttavia, bisogna anche dire che Eni, Enel (creata con il varo del primo centro-sinistra) e altre imprese di Stato, fondate in parte in epoca postfascista, funzionavano con efficienza e vantaggio del sistema-paese. Le pretese del Pci di renderle sottoposte ad una politica di semplice abbassamento dei costi e dunque dei prezzi di altri beni, prodotti ad esempio da imprese che utilizzavano quelle fonti di energia, per favorire i consumatori (il popolo) e spezzoni di ceti produttivi, avrebbe di fatto ridotto tali aziende di proprietà statale – così come fu di altre sotto la Dc e poi il centrosinistra – a dei semplici carrozzoni per imbarcare inefficienti “amici politici” (cioè fedeli esecutori), simili ai grandi Kombinat sovietici (e degli altri paesi “socialisti”), causa certo non ultima dell’affondamento di quei sistemi sociali, economici e politici.
3. Per sommi capi, questo era il contesto in cui si sviluppò la lotta del neoleninismo (e del maoismo) contro il neorevisionismo. Quest’ultimo era comunque rappresentato da politici di buona levatura, gente colta, che sapeva l’importanza della teoria. Nulla a che vedere con gli squallidi, ignoranti e puramente mascalzoni personaggi che impestano oggi il panorama politico. Di conseguenza, i neorevisionisti sfruttarono, ai fini della la loro tendenza all’attendismo opportunista, teorizzazioni marxiste, torcendo a loro modo anche dichiarazioni di Marx. In particolare, appunto, utilizzarono le frasi della Prefazione del ’59, da cui si poteva arguire che la formazione capitalistica – strutturata da certi rapporti, nella sua presunta ultima fase divenuti quelli tra rentier e “popolo dei produttori” – non avrebbe più consentito lo sviluppo delle forze produttive. Di conseguenza, favorire tale sviluppo, appoggiando gli strati produttivi del suddetto “popolo” (con l’utilizzazione dell’industria a proprietà statale vista come un gradino appena sotto a quella socialista), avrebbe significato mettere in sofferenza la proprietà (parassitaria, arretrata) capitalistica, aprire gli occhi alla gente tutta, spingendola, anche con il semplice voto, verso i partiti del superamento del sistema: in pratica, quindi, verso i soli partiti comunisti. La “rivoluzione” sarebbe ormai evoluta in senso pacifico; addirittura, in occidente (e in Italia, con il più forte partito comunista di tale area), in senso parlamentare.
Contro questa svolta, giudicata un autentico tradimento della rivoluzione comunista e un ottundimento delle oggettive (in sé) caratteristiche radicali della classe operaia (“l’autunno caldo” del 1969 sollecitò in Italia le errate speranze di una rivitalizzazione rivoluzionaria di detta classe, con tutti gli errori, e peggio, che ne seguirono), si scatenò la critica alla “nefasta teoria delle forze produttive”. Che cosa sosteneva la critica? Era una critica allo sviluppo delle forze produttive in se
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stesso considerato? Ci si può immaginare che il maoismo del “grande balzo in avanti” (mai sconfessato) potesse sostenere simili posizioni? Nemmeno per sogno! Maoismo cinese e althusserismo europeo attaccarono solo la tesi secondo cui tale sviluppo sarebbe andato incontro ad un limite insuperabile rappresentato dai rapporti capitalistici, che quindi sarebbero stati lacerati, sconvolti, aprendo automaticamente e pacificamente la strada alla trasformazione socialistica, con il convinto appoggio della gran massa del popolo. In particolare, l’althusserismo puntò la critica su questo passo di Marx (Prefazione del ’59):
“A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica; corsivo mio) dentro i quali tali forze per l’innanzi si erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura”.
Questo il determinismo (per discutere quanto vero e quanto presunto, rinvio al mio saggio su tale Prefazione contenuto nel sito), contro cui si rivolse la critica maoista e althusseriana. Alcuni “maoisti” particolarmente “infantili”, e ancora una volta si deve puntare il dito sull’operaismo, sostennero addirittura – criticando la formulazione marxiana secondo cui ci si doveva battere contro l’uso capitalistico delle macchine e non contro queste ultime tout court – che se un paese “socialista”, Cina o Cuba, ecc. che fosse, avesse importato sistemi tecnologici avanzati dall’occidente, avrebbe con ciò stesso pure importato i rapporti capitalistici “contenuti” in quelle tecnologie, che avrebbero così funzionato da “Cavallo di Troia” del sistema nemico. Non mi tiro indietro: per qualche anno, sostenni anch’io simili asinerie. Era un “clima trascinante” (“all’Inferno”).
L’althusserismo, Bettelheim in testa, non arrivò a tanto. Si sostenne semplicemente che la lotta di classe non veniva ammorbidita e resa pacifica (anzi, tutto il contrario) dallo sviluppo delle forze produttive in crescente urto con il limite posto dalla “barriera” capitalistica (i suoi rapporti di proprietà). Tale critica serrata comportò molti mutamenti essenziali nella teoria marxista tradizionale fino allora accettata. Innanzitutto, si enfatizzò il lato politico e ideologico della lotta di classe contro ogni interpretazione (opportunistica), che si affidava al semplice sviluppo delle tecnologie. Non perché queste fossero capitalistiche in sé (non portavano dentro di sé il Maligno, il Demone capitalistico); semplicemente non rompevano alcun involucro incapace di contenerne lo sviluppo poiché quest’ultimo non conduceva di per sé, secondo quanto affermato nel passo marxiano sopra riportato, a nessuna “epoca di rivoluzione sociale”, tanto meno ad una evoluzione pacifica verso il socialismo. Diveniva però nello stesso tempo del tutto chiaro come anche la teoria, secondo cui le tecnologie elaborate dal capitalismo contenevano in se stesse i rapporti capitalistici, apparteneva di diritto a quella “nefasta delle forze produttive”, perché venivano sempre poste in primo piano queste ultime, i rapporti capitalistici erano comunque pensati come riprodotti automaticamente dal loro sviluppo (tecnologico). Questo è stato il primo passo compiuto in direzione di quell’atteggiamento anti-progresso scientifico-tecnico oggi così diffuso presso i “comunisti religiosi”, i nuovi “socialisti utopisti”; insomma, i nuovi reazionari che si presentano, come allora, in veste di “ultrarivoluzionari”.
Il secondo mutamento subito dalla teoria tradizionale riguarda il socialismo quale primo gradino (o prima tappa) nella direzione del comunismo. Primo gradino significa appunto primo obiettivo conseguito nello sviluppo delle forze produttive (però dopo compiuta la “rivoluzione proletaria”) con il “dare a ciascuno secondo il suo lavoro”, che poi sarebbe stato seguito dal secondo, più evoluto (e creduto definitivo), in cui ad ognuno sarebbe stato dato “secondo i suoi bisogni”. Criticata la teoria delle forze produttive, il socialismo diveniva una lunga fase di lotta di classe – sempre in ogni caso susseguente ad una riuscita “rivoluzione proletaria”, come si pensava fosse avvenuto in Urss, Cina, ecc. – in cui non cessava affatto il tentativo della “borghesia” di riprendere il potere: e per vie interne, sfruttando Stato e partito troppo facilmente considerati ormai sicuro porto d’arrivo e patri-
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monio dei proletari, dei rivoluzionari.
In questa lotta – che sarebbe continuata per un’intera epoca storica, di transizione dal capitalismo al comunismo, senza gradini o salti irreversibili – a nessun maoista, a nessun althusseriano, venne mai in testa la stupida idea che si dovesse bloccare lo sviluppo delle forze produttive per avviarsi ad un “comunismo” francescano, della povertà, della rinuncia al confort consentito dagli sviluppi tecnologici moderni. Ci si rendeva invece ben conto che se questa lotta di classe, nella lunga fase di transizione, non avesse saputo elevare gli standard di vita delle masse popolari, avrebbe rivinto il capitalismo. E lo si capiva proprio grazie alla nuova visione teorica che pensava a quest’ultimo come a un sistema di rapporti che non bloccava affatto lo sviluppo produttivo. La critica maoista e althusseriana voleva appunto dire questo: state attenti perché gli opportunisti vi raccontano che è sufficiente sviluppare le forze produttive, e il socialismo e comunismo vi cadrà tra le braccia come un frutto maturo.
No, il capitalismo è capace di sviluppo, non ha alcun limite intrinseco allo stesso. La lotta deve divenire accanita proprio politicamente e ideologicamente per una autentica trasformazione dei rapporti sociali nella direzione che i rivoluzionari propugnano; perché nulla è deciso oggettivamente, automaticamente. Se i capitalisti sono più abili nel soddisfare i bisogni crescenti delle masse popolari, essi alla fine vinceranno. E così accadde infatti in Cina con Den-xiao-ping; così accadde in Urss, così si disfece l’intero campo presunto “socialista”. I perfetti reazionari, che oggi predicano contro il progresso tecnico e scientifico, contro lo sviluppo, sono nemici fra i più pericolosi giacché diffondono torbide ideologie oscurantiste, tese a disarmare i dominati e a rinsaldare il potere dei gruppi dominanti che, per soprappiù, realizzano grazie ad esse, e al rimbecillimento di quote delle “masse popolari”, ottimi affari
L’ultimo decisivo cambiamento apportato da maoismo e althusserismo alla teoria tradizionale è stato la demistificazione dell’ideologia sottesa alla coppia “pubblico”-“privato”. La proprietà dei mezzi produttivi non ha da essere necessariamente privata affinché ci sia capitalismo; i marxisti tradizionali – e ancora una volta opportunisti – sostenevano che la proprietà statale era ipso facto socialista. Stalin si accorse delle imperfezioni della costruzione socialistica perché la proprietà “collettiva” in agricoltura era prevalentemente quella kolkoziana, quindi non statale, quindi non compiutamente “collettiva”. Errore madornale. Tutto sommato fecondo visto che il problema posto concretamente dalla Storia – e travisato dalle forze che ideologicamente credevano di battersi per il comunismo – non era la transizione a quest’ultimo tipo di società, ma semplicemente la creazione di una grande nazione -potenza. Allora, però, nessuno di noi pensava in tal modo; quindi, a differenza dei neorevisionisti, avevamo capito che la proprietà statale era semmai la rivincita di una sorta di lassallismo, ma non c’entrava nulla con la proprietà collettiva dei produttori associati.
Se la proprietà statale non era per nulla quella collettiva, la pianificazione centrale – ma nemmeno, anzi ancor meno, quella della “autogestione” (finta) jugoslava, o la “programmazione democratica” del Pci – non eliminava affatto la netta separazione delle varie unità produttive fra loro. Sostituire il mercato, la rete connettiva “impersonale” del capitalismo, con l’imposizione – fortemente autoritaria (come in Urss) o invece più blanda e con margini di autonomia di dette unità – della loro necessaria ed “equilibrata” (cioè calcolata ex ante) interconnessione, ha comportato una inefficienza tale da affondare il sistema. Non ci si può adesso soffermare su questo punto; ricordo solo che, in Marx, i “produttori associati” sarebbero stati, secondo le sue previsioni, i diversi comparti del lavoratore collettivo od operaio combinato, dal più alto dirigente al più basso esecutore. La prima separazione tra le unità produttive, sede dei diversi processi lavorativi, è intanto dovuta al fatto che non c’è mai stata unione e cooperazione (che avrebbe dovuto essere perseguita non semplicemente dalla “buona volontà” dei lavoratori, ma resa obbligatoria, necessitante, dagli obiettivi produttivi da raggiungere) tra manager ed esecutori, fra loro invece separati da una complessa serie di gradini gerarchici, che non sono affatto una pura imposizione ed un inganno escogitato dai capitalisti come si sostenne improvvidamente nel ’68 (sempre gli operaisti in primo piano con le loro concezioni distorte circa il dispotismo capitalistico, retaggio nascosto del reazionario Dühring).
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Un passo in più andava però compiuto al fine di comprendere l’impossibilità di unione cooperativa tra i diversi comparti del lavoro, con la creazione delle gerarchie, ecc. Credo di aver compiuto tale passo con la tesi dei dominanti in quanto agenti del conflitto strategico: quindi esterni ai processi lavorativi (come i rentier previsti da Marx), ma non affatto parassitari e inessenziali ai processi produttivi alla guisa di detti rentier. Anzi mi sento di sostenere che l’errore commesso da Marx, e proseguito dai marxisti fino agli svarioni della proprietà statale presa per collettiva e della pianificazione quale coordinata e armonica interconnessione tra unità e settori produttivi, deriva direttamente proprio dalla incomprensione di tale conflitto strategico. Con l’idea della mera proprietà (in quanto potere di disporre dei mezzi produttivi, quindi possesso dei poteri mentali della produzione atti a controllare tecnologie e organizzazione lavorativa e quant’altro) era facile pensare: a) che la separazione della proprietà dal possesso dei poteri mentali conducesse i portatori di questi ultimi ad avvicinarsi agli esecutori in nome di una necessaria cooperazione ai fini produttivi; b) che i proprietari capitalisti, una volta persa quella capacità (ammessa da Marx in relazione alla prima fase capitalistica) di “contribuire a creare ciò che poi avrebbero prelevato in forma di plusvalore” (Glosse a Wagner), sarebbero stati un intralcio all’ulteriore sviluppo delle forze produttive.
Da qui nacque la sopra esposta critica maoista e althusseriana al marxismo tradizionale, quello delle forze produttive; ci si avvide che il capitalismo, i suoi rapporti proprietari, non impediscono di per sé lo sviluppo, il capitale (la proprietà capitalistica) non è barriera a se stesso, al suo dinamismo. Ciò che non fu colto è che tale dinamismo è dovuto proprio al fatto che gli agenti dominanti in questa società sono quelli delle strategie di lotta per la supremazia. Tali agenti – che possono essere semplici manager o invece proprietari a seconda di diverse congiunture storiche (quanti passaggi dalla preminenza degli uni a quella degli altri, con relative “teorizzazioni” del perché fosse giusta quella specifica preminenza, ci sono stati finora?) – non solo non rappresentano un limite, un intralcio, allo sviluppo, ma ne sono proprio gli artefici.
Ecco perché la società capitalistica ha prevalso sempre di fronte sia a formazioni passate sia a quella che pretendeva di essere il futuro (con una proprietà statale che ha solo soffocato e reso inefficace tale conflitto). Ecco perché in Cina non poteva non vincere Den, pur senza essere teoricamente conscio di quanto sosteneva correttamente nella pratica. Il maoismo e l’althusserismo sono stati sconfitti – pur ponendo il problema della lotta politica e ideologica senza limitarsi al semplice economicismo della spinta allo sviluppo delle forze produttive – per non aver compreso tale decisivo problema. Non era sufficiente affidarsi ad una generica, e “demiurgica”, lotta di classe, che sottintendeva il vecchio impianto del concetto di modo di produzione capitalistico con in primo piano il conflitto sociale in verticale, tra dominanti e dominati; mentre quello che caratterizza il vincente dinamismo capitalistico restava nell’ombra più completa.
Bisognava capire che era inutile giocare tra dominanza (politico-ideologica) e determinazione d’ultima istanza (l’economia). La preminenza appartiene sempre fondamentalmente agli agenti della sfera politica (in subordine quella ideologica; per il ben noto principio gramsciano che l’egemonia deve essere, alla resa dei conti, corazzata di coercizione). Il disperato tentativo di mantenere la determinazione d’ultima istanza all’economia significava, esplicitiamolo una buona volta, la volontà di far restare la contraddizione capitale/lavoro come principale e antagonistica, pur dichiarandola surdeterminata da una costellazione di altre contraddizioni. Si può surdeterminare quanto si vuole; si era in presenza dell’incomprensione (di tutti i marxisti, il sottoscritto in testa) che gli agenti dominanti fondamentali – attivi in ogni sfera della società, ma che svolgono una funzione precipua in quella politica – sono portatori dei ruoli inerenti al conflitto strategico per la supremazia; e non solo all’interno di ogni determinata formazione particolare (in definitiva, paese o area socio-geograficamente delimitata), poiché ancor più decisivo per il dinamismo capitalistico è il conflitto tra gruppi dominanti di formazioni particolari diverse assurte al ruolo di nazioni -potenza nelle fasi policentriche di scontro per il predominio (quasi) mondiale.
In tale nuovo contesto teorico, si comprende bene come la crisi sia manifestazione specifica del capitalismo, non però di quella sua “realtà” che si vorrebbe rappresentata dal mero concetto di
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modo di produzione. La crisi non è crollo bensì nuovo passo in avanti trasformativo con conseguente riavvio di una fase di forte sviluppo. Così è stato dopo la lunga depressione della fine del XIX secolo; così pure dopo la crisi del 1907 di fatto terminata con la prima guerra mondiale, finita la quale – non subito evidentemente – si verificò il grande sviluppo degli anni ’20, in specie negli Usa che erano divenuti ormai il più potente paese della nuova formazione dei funzionari del capitale. Si verificò, con epicentro proprio in esso, il tracollo del ’29 durato, come fase stagnante, fino alla seconda guerra mondiale. Grosso modo, fra i primi anni ’50 e gran parte di quelli ’60 ci fu un periodo con tassi di sviluppo del capitalismo fra i più alti della sua storia.
Ci si vuol rendere conto che la teoria di tale formazione sociale è tutta da rifare? Affermare che “questa crisi potrebbe veramente essere l’ultima”, è di una “ingenuità” (per non usare termini peggiori) del tutto sconfortante. Non si vuol pensare, non ci si vuol porre nuovi problemi; bisogna sentirsi rassicurati che gli eventi evolvono secondo i nostri desideri. Potrei definire questo un atteggiamento religioso, di stampo puramente passivo; in effetti mi pare solo stupido, di cervelli che si stancano a pensare. Purtroppo sono quelli che al 90% si trovano in Internet; non a caso sono gli stessi che credono alla “democrazia”, alla diffusione di un potere “popolare” tramite questo strumento, che sarebbe servito perfino ad eleggere Obama. Pensate quanti cretini ci sono! C’è mai stata un’altra epoca storica con una così alta concentrazione di “idioti con lampi di imbecillità” (Petrolini)?
4. Siamo arrivati infine a conclusioni non ovvie secondo i dettami delle teorie più tradizionali, ivi compresa quella marxista coltivata dai dogmatici, ultimi residui degenerati di una teoria che fu rivoluzionaria. Mi auguro almeno che a nessuno venga più in testa di sostenere che il sottoscritto ha riaderito alla “nefasta teoria delle forze produttive”. Ho spiegato il contesto di quella lotta: non semplicemente teorica, tanto meno filosofica sui “grandi temi” dell’Uomo, del suo Essere (o Essenza, si scelga quel che si preferisce). Ho spiegato che la critica investiva l’idea secondo cui il semplice sviluppo di tali forze (nel loro aspetto materiale, oggettivo) avrebbe lacerato l’involucro rappresentato dai rapporti (di proprietà: in quanto espressione giuridica di quelli di produzione) capitalistici, divenuti un ostacolo a detto sviluppo oltre un certo suo livello. Tutti i marxisti “rivoluzionari” volevano tuttavia superarlo, ben sapendo che la posta in gioco era l’appoggio popolare alla continuazione della lotta di classe nella situazione di (presunta, sperata) transizione al comunismo.
Tanto più questo sviluppo è da appoggiare quando si è capito che il modo di produzione – con la sua contraddizione solo in verticale, tra dominanti (capitalisti) e dominati (operai o proletari o semplici lavoratori, ecc.) – non è concetto adeguato a definire l’epoca capitalistica successiva alla fine della centralità inglese, epoca caratterizzata dall’espansione, per ondate successive, di questa formazione sociale sul piano mondiale. Tale espansione vede l’alternarsi di epoche monocentriche e policentriche; in entrambe, e in specie nelle seconde, diventa fondamentale la contraddizione tra formazioni particolari, quelle divenute nazioni -potenza, in conflitto strategico per la supremazia all’interno della formazione globale. Si parte dal presupposto – validato all’epoca della Rivoluzione d’ottobre e in quella delle “rivoluzioni” susseguenti alla seconda guerra mondiale – che la lotta tra queste nazioni -potenza apre pertugi, “brecce di Porta Pia”, nelle mura di cinta della “grande città” capitalistica, attraverso cui possono passare i “reggimenti bersaglieri” dei dominati (organizzati e guidati, non affidati alla pura spontaneità anarcoide).
Senza dubbio, poi, la Storia fa i suoi giochi alle spalle di coloro che guidano le rivoluzioni, il cui risultato finale, come ricordato all’inizio, è diverso da quello desiderato e inseguito. Ciononostante, questo è l’unico modo che ci sia mai stato di tentare le rivoluzioni, di portarle ad un successo che non va giudicato effimero (solo perché non realizza i nostri sogni), ma che invece produce comunque cambiamenti duraturi; e tutto sommato, più spesso di quanto non si ammetta, in meglio (anche se non è Il Meglio). Non si tratta però di perseguire immediatamente il comunismo affidandosi alla presunta contraddizione principale e antagonistica, che è invece puramente tradunionistica, distributiva, interna all’ulteriore sviluppo capitalistico; e sempre nei suoi connotati più arretrati, quelli non trasformativi, quelli della passata fase di sviluppo, poiché i “sindacati dei lavoratori” sono trop-
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po spesso le più reazionarie e “passatiste” organizzazioni di lotta che agiscano all’interno delle formazioni particolari capitalistiche.
Ecco perché il sottoscritto appoggia il progresso scientifico-tecnico e lo sviluppo. Fra l’altro, quest’ultimo non è il semplice sviluppo delle forze produttive (materiali), bensì quello della potenza, per favorire un più celere avvicinamento alla fase policentrica e alla possibilità delle “brecce di Porta Pia”. Se qualcuno non intuisce la differenza tra il mero sviluppo delle forze produttive e quello della potenza, non starò adesso a spiegargliela; ci sarà semmai tempo in futuro. Comunque, è chiaro come il Sole che non aderisco a nessuna tesi secondo cui lo sviluppo delle forze produttive è il Demiurgo della transizione al comunismo o almeno di una fuoriuscita dal capitalismo. La mia posizione teorica (che fa tutt’uno con quella politica) è di fase, prende atto delle trasformazioni in corso (anzi di quelle già avvenute perfino nella precedente epoca policentrica capitalistica) e dell’assoluta incapacità della teoria – non solo marxista – di almeno “intuire” tali cambiamenti. Piaccia o meno, credo di averli invece intuiti, di aver già forgiato una serie di ipotesi teoriche nuove, di essere quanto meno al “flogisto”. Molti altri annaspano, come tutti quelli il cui cervello si è rappreso alla guisa di una colata di cemento.
Voglio spendere poche parole per far capire come tutti quelli che pensano di essere antieconomicisti e antideterministi siano invece dentro la “nefasta teoria delle forze produttive”. Vogliamo afferrare l’“essenza” di tale teoria? Essa non è la credenza di una semplice oggettività che, anche in assenza d’azione dei “soggetti” umani, conduce nella direzione della rottura dei rapporti capitalistici; se in direzione del vero e proprio comunismo o solo di una società “più umana” (versione peggiorativa della precedente, frutto di cervelli banali e superficiali), poco importa. In realtà, l’urto dello sviluppo di tali forze contro la (presunta) barriera costituita dai rapporti (di proprietà) capitalistici avrebbe dovuto provocare nelle “moltitudini” – che si tratti del “popolo produttivo” od “operaio combinato” marxiano, oppure di “tanto buoni” che semplicemente si unirebbero nel desiderio del comunismo o della società “più umana” o altro, poco importa ancora una volta – il convincimento ad appunto raggrupparsi in grandi masse (maggioritarie) per abbattere il capitalismo, questa società “disumana”.
Ebbene, coloro che strillano contro il consumismo sfrenato, che vogliono parsimonia e frugalità, che predicano il desviluppo o una forma diversa di sviluppo (presunto sostenibile in base ad incerte proiezioni futurologiche simili a quelle di un meteorologo che pretenda di dirci come saranno le estati dei prossimi dieci anni), sono eguali a quelli che predicano la sopra criticata teoria delle forze produttive. Mettere il segno meno invece che più ad una entità, non ne muta il valore assoluto. Manca sempre la considerazione, sia pure in base ad ipotesi, dell’effettiva struttura dei rapporti tra i vari gruppi sociali, l’articolarsi delle loro possibili lotte e delle condizioni favorevoli o sfavorevoli per il successo di questi o di quelli, ecc. Si spera solo nel convincimento delle moltitudini “disgustate” (ma quando mai lo sono; è proprio un’utopia bella e buona!) dal consumismo, dal degrado culturale o da quello ambientale ecc. ecc.
Metto quindi in discussione anche la lotta degli ambientalisti, perché si tratta sempre di atteggiamenti religiosi. Non entro qui in diatribe riguardanti i veri danni all’ambiente procurati dal capitalismo; critico però aspramente il non farsi minimamente carico di analizzare le strutture dei rapporti caratterizzanti le effettive, concrete, società capitalistiche in specifiche fasi della loro evoluzione e mutamento dinamico. Certuni desiderano semplicemente che qualcuno o qualcosa sopperisca alla loro insipienza teorica e pratica; quindi alla loro incomprensione di quali sono i reali, e più attivi, conflitti in corso in quella data fase storica della società capitalistica. Una volta ci si affidava alla Classe, ma questa ha deluso. Allora “sotto” con le masse diseredate del Terzo mondo. Qualche flebile rantolo d’agonia viene ancora emesso da piccoli gruppi che credono a tale Demiurgo. Altri hanno deciso di passare oltre; e allora ecco l’Ambiente da salvare, e allora ecco l’Anti-consumismo, e allora ecco la Decrescita, ecc. Tutto pur di sfuggire all’analisi delle strutture dei rapporti che definiscono le possibilità d’azione dei gruppi sociali effettivamente esistenti e operanti in concrete situazioni di fase (o d’epoca).
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L’Uomo è una disgustosa menzogna di certi filosofi (non dei filosofi tout court). E’ un modo di ragionare semplicistico e approssimativo, solo in grado di ammannire bei pasticci per i palati di “rozzi clienti” che non amano cibi dai sapori ben definiti e preparati con rigore “culinario”. Diciamo che è una sorta di nouvelle cuisine, una delle più orride invenzioni della “cucina (post)moderna” (che per fortuna sta passando di moda). Si tratta di un’arretratezza reazionaria di difficile digestione, di cui si servono i dominanti per paralizzare il cervello e l’azione di coloro che potrebbero rivoltarglisi contro; è meglio passivizzarli, spingerli a credere a future catastrofi di modo che non pensino alle concrete situazioni di contraddizione sociale e di possibile lotta. Tanto più che poi, sull’ambiente, sulle energie alternative, sui nuovi cibi con cui nutrire “le genti”, ecc., il capitale guadagna ottimi profitti. Per di più ottiene questi risultati in settori non propulsivi, non strategicamente rilevanti, cosicché il paese (formazione particolare) predominante ottiene pure il risultato di tenere i paesi, le cui popolazioni cedessero di fronte a quest’opera terroristica, in posizione di subordinazione; come potrebbe accadere all’Italia, paese di “colonizzati” e di una sinistra (seguita da settori di una destra egemonizzata e dunque succube) particolarmente imbelle e indifesa di fronte agli inganni delle reazionarie ideologie ambientaliste, decresciste, ecc.
Chiunque usi la tematica della critica alla “nefasta teoria delle forze produttive” sia al di fuori del suo contesto specifico (quello degli anni ’60 e ’70 del novecento) sia imbrogliando le carte – facendo passare l’idea di una critica allo sviluppo tout court e non invece alla credenza che da quest’ultimo derivi la rottura dell’involucro proprietario capitalistico e l’avvio della transizione al comunismo – è intellettualmente disonesto; costui approfitta della scarsa conoscenza del problema, e del vecchio dibattito, da parte dei più giovani per ingannarli e avviarli lungo la strada di fumose e sterili lotte fintamente anticapitalistiche. Egli è più criticabile di un coerente liberista o di un keynesiano; è più ambiguo, contorto, pericoloso per il suo scarso rigore, il suo eclettismo, i suoi “slalom” tra concetti allo stato fluido.
5. La critica alla teoria delle forze produttive può ancora avere un qualche (minor) valore se serve a definire con più precisione l’ambito della sua validità e lo scarto storico rispetto al periodo, da me sopra ricordato, in cui fu svolta con il massimo vigore. Circa il determinismo economicistico dell’esposizione tradizionale di quella teoria, e il suo opportunistico attendismo da parte dei piciisti di quell’epoca, non credo ci sia nulla da aggiungere a quanto già rilevato in questo breve scritto. Interessante, invece, rilevare i limiti della “nostra” critica di allora, che si rifaceva ampiamente all’althusserismo, l’unico serio e radicale tentativo di rinnovamento del marxismo compiuto dopo la seconda guerra mondiale. D’altronde, per quanto mi riguarda, tale rinnovamento fu ben più moderno e incisivo della fin troppo osannata “Scuola di Francoforte”, per non parlare di altri autori, anch’essi assai sopravvalutati, che sono oggi da dimenticare veramente, perché ci farebbero “camminare come i gamberi”.
Gli althusseriani, quindi anche il sottoscritto (uno dei primi e pochi, assieme a Maria Turchetto, a farsi propagandisti di questa scuola in Italia), compresero che il capitalismo non era affatto incapace di sviluppare oltre certi limiti le forze produttive. Caduta l’esaltazione provocata dal lancio sovietico del primo Sputnik e del primo uomo nello spazio, ci si rese conto che il pur notevole slancio impresso dal “socialismo” allo sviluppo scientifico e tecnico non si riversava nei settori produttivi “civili”, e che il capitalismo aveva recuperato in pochi anni lo svantaggio, superato il socialismo e innalzato di un bel po’ – e con trend ascendente per un lungo periodo di tempo – il tenore di vita di tutti gli strati sociali, pur nella differenziazione crescente tra di essi. Contrariamente alle sciocchezze degli attuali antimodernisti e decrescisti, si sostenne che proprio l’involuzione e arresto della lotta di classe durante la transizione – con ritorno al potere delle “borghesie di Stato e di partito” – aveva arrestato lo sviluppo produttivo e determinato il vantaggio vincente del capitalismo; si predisse con grande anticipo la putrefazione e poi fine del “socialismo” se non fosse ripresa questa lotta di classe e non si fosse sconfitta la “nuova borghesia”. “Stranamente”, con l’ascesa di Gorbaciov, gli althusseriani doc (e lo stesso Bettelheim) sperarono nella rivitalizzazione del socialismo, mentre
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l’“althusseriano italiano”, il sottoscritto, sostenne fin dal 1986 che quel mediocre dirigente sovietico avrebbe, prima o poi, attuato la liquidazione del “socialismo reale”.
Il limite grave dell’althusserismo, come già constatato, fu del resto a quell’epoca inevitabile. Pur nell’ammodernamento, non si voleva abbandonare la vecchia concezione marxista della contraddizione principale tra capitale (proprietà in quanto potere di disporre dei mezzi produttivi, senza comunque più distinzione tra “pubblico” e “privato”, un grande passo in avanti oggi del tutto dimenticato dai nuovi “comunisti religiosi”) e classe lavoratrice. La lotta di classe restava il Demiurgo della rivoluzione anticapitalistica, pur attenuandone la rigidità tradizionale con la tesi che le classi si formano nella lotta e “non entrano in campo già belle e formate come squadre di calcio”. Questa fluidità è tuttavia più un peggioramento che un miglioramento, perché consente di esaltare qualsiasi sussulto (anche preagonico) di strati di dominati quasi fosse l’annuncio di un “ricominciamento”.
Si pensi alla lotta dei minatori inglesi all’inizio degli anni ’80 – che certi bordighisti italiani, con cui ebbi per caso e per mia disgrazia a che fare, vedevano, con occhi roteanti di beota idiozia, quale inizio di una “rivoluzione” – stroncata infine dalla Thatcher. Perché non dovrei ricordare che lo predissi immediatamente, quasi fin dal primo giorno di quello scontro? Del tutto arretrato, di tipologia “luddista”, i cui portatori erano quindi “passatisti”, destinati ad essere travolti come tutti i rivoltosi del genere. Intendiamoci: il luddismo fu per certi versi “eroico”, umanamente comprensibile e degno di rispetto e simpatia, così come certo lo è stata la lotta dei minatori inglesi. Tuttavia, bisogna nello stesso tempo mantenere una lucidità di giudizio e non appoggiare, sempre e comunque, certe lotte, quando diventa chiaro che ci si schiera con il “superato” ormai predestinato alla sconfitta; senza nemmeno, tramite quest’ultima, aprire uno spiraglio verso il futuro. Non ogni stormir di fronda è lotta d’avanguardia. Ed infatti: quale mai prospettiva ha aperto il “luddismo”? E quale la rivolta dei minatori inglesi? Diamoci infine una risposta degna di cervelli che ragionano; non andiamo come al solito “là dove ci porta il cuore”!
Appoggiare Gorbaciov – perfino cedendo all’insulsa tesi del “socialismo di mercato”, una contraddizione in termini – fu comunque un atteggiamento assai peggiore, un autentico sbandamento sia pratico che teorico, imperdonabile in certi althusseriani. Così facendo, si è incrinato un grande patrimonio di rinnovamento e si è aperta la via alla propria liquidazione, con il ripresentarsi di conati umanistici reazionari e antimodernisti, vera “quinta colonna” dei dominanti più arretrati e parassitari, da essi utilizzata per ostacolare i tentativi di rinascita di una teoria e prassi critico-rivoluzionarie sulla base di un avanzamento, di un progresso.
Di fronte alla sconfitta, verticale e generale, del “primo tentativo” di rivoluzione presunta proletaria, di fronte agli esiti ben diversi che essa ha avuto e che cominciano ad apparire con maggior chiarezza ad un buon secolo di distanza dal 1917, è necessario un passo indietro che consenta di tornare a “quel bivio”, da cui poi riuscire ad imboccare il sentiero non preso nel corso del ‘900 (mi verrebbe da citare a tal proposito la bella poesia di Frost, La strada non presa, ma lasciamo correre adesso). La contraddizione capitale/lavoro non è quella principale, per il semplice motivo che i due termini d’essa sono semplicemente inesistenti. Il capitale non è la classe dei rentier, parassiti e ormai inutili allo sviluppo, anzi un ostacolo allo stesso; il lavoro non è l’operaio combinato (manager e lavoratori esecutivi cooperanti insieme pur con contraddizioni del tutto secondarie). Esistono gruppi di dominanti e di dominati, con interessi variegati, fra loro in lotta secondo schieramenti per nulla affatto ben delineati e delimitati, se non dalla ideologia di vecchi schieramenti politici e sindacali. In ogni caso, mai questa lotta esce dai suoi binari distributivi e tradunionistici, qualsiasi livello di acutezza raggiunga.
Tale lotta è senza dubbio uno degli elementi del dinamismo capitalistico, e dell’illusione “democratica” che, salvo che in particolari congiunture eccezionali (in cui certe regole debbono temporaneamente essere sospese), garantisce il consenso sostanziale dei dominati (meglio: non decisori) alla riproduzione dei rapporti nella loro forma sociale di tipologia capitalistica. Le tensioni più acute, quelle che attribuiscono il più alto livello di dinamismo – non semplicemente lo sviluppo delle forze produttive, ma anche ampi e potenti movimenti di “ricambio sociale”, pur sempre interni alla
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riproduzione di questa società – si instaurano tra gruppi di dominanti in lotta per la supremazia. E l’acutezza, e dunque il maggior impulso allo stesso “ricambio sociale”, è ancora superiore quando si entra nell’epoca policentrica del conflitto di strategie tra quelle formazioni particolari, assurte al ruolo di nazioni -potenza, per la supremazia nell’ambito della formazione mondiale o globale.
E’ tale conflitto di strategie, dunque un fattore che trova particolare risonanza nella sfera sociale della politica, ad impedire la saldatura tra i possessori delle potenze mentali della produzione e quelli che forniscono solo lavoro esecutivo. Chi ha ignorato il netto predominio di questa razionalità strategica, e ha creduto a quello della mera razionalità (strumentale) del minimo mezzo – lo stesso marxismo, anzi lo stesso Marx, è caduto in questa ignoranza – si è potuto illudere che tutto il lavoro dipendente (salariato) fosse in grado di unirsi con spirito cooperativo. Tale spirito non era affidato però – in questo sta il realismo di Marx al contrario dei filosofi del “buonismo umanitario” odierni, vera peste e colera del pensiero – alla bontà e generosità degli uomini-lavoratori, ma anzi al loro incattivimento e acrimonia nei confronti di una classe di rentier, avulsi dalla produzione e ciononostante succhiatori di gran parte del reddito, che sarebbe stato pluslavoro/plusvalore appropriato in forma di interesse e con l’utilizzazione di varie forme di frodi finanziarie, ecc.
Quando si nasconde che la vera razionalità propulsiva è quella politica delle strategie, di fronte alle crisi finanziarie è perfino facile scatenare l’ira dei dominati – che nel frattempo hanno, per trend secolare, aumentato il loro complessivo tenore di vita pur tra differenze crescenti; e in buona parte sono divenuti essi stessi proprietari di piccoli pacchetti di titoli ad interesse (anche i dividendi azionari sono in realtà interessi, variabili, per i piccoli proprietari) – contro i dirigenti, i cosiddetti possessori delle suddette “potenze mentali”, creando magari invece una cintura di protezione intorno agli effettivi proprietari, ai possessori dei pacchetti azionari di controllo.
Il dinamismo capitalistico – che ha sempre sotterrato alla lunga i suoi avversari – dipende dunque, in prima (e decisiva) istanza, dal (politico) conflitto strategico, che tuttavia resta ben nascosto, protetto, mascherato dall’ideologia propalata dai ceti intellettuali dei dominanti, purtroppo non squarciata nemmeno dai critici marxisti, nemmeno da Marx. Naturalmente, la formazione capitalistica è assai articolata; la razionalità strategica sottomette a sé – essendone però ben coadiuvata – quella strumentale (del minimax) attuata nei settori produttivi e in quelli finanziari. Il capitalismo, fondato sul mercato e il calcolo economico nella produzione di merci, non può evidentemente fare a meno del settore finanziario, del “commercio del denaro”. Se si vuol sostenere (con fornitura di strumenti adeguati) la razionalità strategica, la razionalità del conflitto che è il massimo del dinamismo concepibile, la distorsione e crescita ipertrofica – in congiunture particolari – del sistema finanziario non è un errore, ma una necessità.
I corifei del capitalismo si mettono a strillare che tale distorsione è stata una deviazione dal retto operare dovuta a troppa avidità, che è mancata l’etica, e altre fanfaluche del genere. Invece, è stata una necessità; ed essa diventa tanto più urgente quanto più acuto si fa il conflitto strategico tra gruppi dominanti; e raggiunge il suo massimo quando si entra nell’epoca dello scontro reale delle nazioni-potenza per la supremazia globale. Oggi non ci siamo ancora, ma già il fatto che il “sistema mondiale” si avvii in quella direzione (policentrica) sta provocando la “più grave crisi del dopoguerra”. Figuriamoci la prossima, fra una decina o ventina d’anni. Allora, bisogna mettere in moto tutte le menzogne del ceto intellettuale per mascherare che la crisi è inevitabile, dipende in ultima analisi da una trasformazione, che si compie oggettivamente, disponendo nel miglior modo possibile le forze in campo per il confronto che si approssima. Ecco allora scatenarsi gli antiliberisti – il “keynesismo” statalista che predica la falsa superiorità del “pubblico” – e poi ancora gli “etici negli affari”; e infine i più meschini e infidi: gli “ultrarivoluzionari” delle informi masse “in rivolta” (nella loro testa), della decrescita, dell’antimodernismo, dell’anticonsumismo da frugali “fraticelli francescani”, delle “catastrofi” secolari, ecc.
La distorsione finanziaria, e dunque anche la crisi detta reale, si produce necessariamente. Milioni vengono sacrificati sull’altare di una modernizzazione e crescita di efficacia dell’intero sistema capitalistico, con eliminazione dei suoi settori più arretrati – quelli di passate epoche di trasforma-
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zione – e sviluppo di quelli innovativi più consoni a nuove strategie del conflitto. Naturalmente, tutto ciò avviene con maggior vigore nelle nazioni -potenza più …. potenti, più avanzate sulla strada della lotta per la supremazia; mentre altri paesi galleggiano nella situazione di “alleati-subordinati” rispetto a tali nazioni (si può pensare all’Italia, “questa poveretta”?).
A questo punto, è necessario capire – e chi non lo afferra venga lasciato al suo destino – che la crisi economica, sempre all’inizio finanziaria per poi sfociare in quella reale (produttiva), non ha nulla a che vedere con il crollo del capitalismo, ma sempre con la sua trasformazione; senza dubbio traumatica, perché tale è il tipo di trasformazione dinamica di una simile forma sociale. Schumpeter aveva in parte colto bene il problema con la tesi dello sviluppo mediante fasi di distruzione creatrice; egli aveva posto in luce come quest’ultima sia caratterizzata dalla eliminazione o diminuzione di importanza (strategica) dei vecchi settori, sostituiti dai nuovi, e nuovi grazie soprattutto ad innovazioni di prodotto (e di fonti di energia) più ancora che di processo. Egli aveva compreso la decisività della funzione dell’apparato bancario (finanziario) in tale passaggio dal vecchio al nuovo. Solo che anch’egli, non differentemente da Marx, aveva pensato ad una sorta di società capitalistica-tipo. Quindi, aveva immaginato lo sviluppo certamente caratterizzato da onde cicliche, ma con una sorta di trasformazione sufficientemente guidata e orientata (sia pure dal mercato, non certo dallo Stato), relativamente armonica in questo suo andamento ondulatorio.
Il concetto marxiano di modo di produzione capitalistico pone al centro la visione (distorta) della contraddizione tra proprietà capitalistica e lavoro salariato quale antagonistica e principale: la tesi schumpeteriana fissa l’attenzione sulla competizione interimprenditoriale (tra imprenditore-innovatore e quello tradizionale, di routine). In ogni caso, manca la più drammatica considerazione dello scontro globale tra dominanti sul piano mondiale. In esso si verificano appunto quegli eccessi, provocati – nel loro aspetto soggettivo e più superficiale – dall’avidità, dai raggiri e truffe, ecc., da cui prende avvio il “terremoto” della crisi, prima finanziaria e poi anche reale (produttiva). Tali eccessi non sarebbero così sconvolgenti e catastrofici se dipendessero soltanto dal mero sviluppo di un capitalismo-tipo. Invece, è proprio il conflitto tra più formazioni particolari – soprattutto quando crescono come nazioni -potenza facendo entrare infine il mondo nel policentrismo – a provocare lo scardinamento e il caos a livello della formazione globale, cui viene a mancare un centro in qualche modo coordinatore; da qui si origina l’autentica ipertrofia monetaria che apre spazi inusitati, e fuori controllo, alla cupidigia dei capitalisti finanziari che è – lo ribadisco – solo l’aspetto soggettivo di un processo oggettivo e inevitabile.
In questo scontro interdominanti, nel momento della sua maggiore acutezza in piena epoca policentrica, possono irrompere “rivoluzionariamente” – in determinati e limitati punti del globo, ma con l’azione coadiutoria delle “masse” di altre aree – reparti avanzati, guida di ampi spezzoni di dominati, che lacerano, politicamente, le maglie del potere dei dominanti, già indebolitesi in quei punti a causa del conflitto tra questi ultimi. Se invece, sulla base della semplice crisi economica, con tutte le sofferenze sociali che non può non implicare, si pretende di scagliare il lavoro salariato contro il capitale (senza distinzioni di sorta tra i gruppi di agenti strategici in cui è suddiviso) all’interno di una data formazione particolare, si può essere pressoché certi che l’unico risultato è una lotta reazionaria, “luddistica”, un aiuto di fatto alla sopravvivenza delle parti capitalistiche più arretrate in paesi dalla struttura socio-economica debole, che dunque sono più facilmente appannaggio del predominio di qualcuna della nazioni -potenza già costituitesi o in crescita.
Proprio per questo non si può più sopportare che in Italia, paese particolarmente fragile, piccole torme di “ultrarivoluzionari” si dedichino – chi con la riproposizione di vecchi schemi marxisti ormai oscuranti, chi con le abiette teorie decresciste, anticonsumiste, antimoderniste, catastrofiste – a indirizzare rivoli di lotta verso posizioni di arretratezza, di “luddismo”. E non si può più tollerare chi ripete le insensatezze sul “potrebbe essere la volta buona del crollo del capitalismo”. Va detto senza mezzi termini che si tratta di bugiardi, di pescatori nel torbido, che tentano di conquistare un po’ di notorietà alla guisa di Erostrato. Proprio dal punto di vista morale, sono peggiori di coloro che almeno difendono con chiarezza e una certa coerenza il sistema capitalistico, senza tante ipocri-
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sie. Questi meritano solo le nostre critiche, gli altri il rigetto. Se fossimo nel 1917, i primi verrebbero utilizzati come “specialisti borghesi” (sotto attenta sorveglianza), i secondi sarebbero messi da parte e ridotti al silenzio, una vera “tortura” per gente abituata a ossessive ciance di (e sul) niente.
Va detto per onestà che gli unici che avessero (e abbiano) colto alcuni barlumi della reale impossibilità di saldatura tra possessori delle potenze mentali della produzione e lavoratori esecutivi – saldatura indispensabile qualora si pensasse di condurre, nella crisi, lotte di avanzamento e non di arretratezza – sono quelli che hanno enfatizzato il cosiddetto general intellect. Indubbiamente, costoro si rendono conto di dove si situa il centro della crisi in quanto trasformazione e non crollo, danno importanza al lato della politica in questa trasformazione, ecc. Tuttavia, a mio avviso, si illudono sul fatto che i possessori delle potenze mentali – sia pure quelli dei settori più innovativi del capitalismo in crisi-trasformazione – conquistino una funzione di avanguardia in questo processo di mutamento, che potrebbe poi essere indirizzato addirittura al superamento del capitalismo stesso.
Malgrado tutto, anch’essi sottovalutano la razionalità strategica, non la pongono nella sfera politica che le si addice – e dove essa si maschera meglio, nascondendo la sua decisività e la sua preminente funzione nel conflitto per la supremazia – e danno eccessiva importanza alle contraddizioni interne ad una formazione particolare, di fatto rendendo invece assai nebulosa, pur se non tutti aderiscono alle becere tesi negriane, la formazione sociale mondiale, con le sue specifiche articolazioni e rapporti di forza, mutevoli di fase in fase, tra formazioni particolari, di cui alcune sono nazioni-potenza in conflitto per la supremazia, mentre altre tendono a rimanere subordinate a queste ultime.
Gli agenti dominanti principali non sono quelli del general intellect. Questi ultimi sono interni ai processi lavorativi, sia pure dei settori più avanzati (in ciò consiste la superiorità di questi gruppi intellettuali rispetto ai dogmatici marxisti e agli antimodernisti e decrescisti). Mentre invece i veri agenti predominanti sono esterni a tali processi, in ciò essendo formalmente simili ai rentier di marxiana memoria. Solo che, a differenza dei rentier (parassiti), sono i veri artefici del dinamismo capitalistico nelle crisi di trasformazione; queste tuttavia, non a caso, non trasformano definitivamente e realmente il sistema capitalistico fino a quando non si è verificata la generale resa dei conti tra le nazioni -potenza. Ecco perché le grandi crisi del 1873-96, del 1907, del 1929, hanno trovato vera soluzione solo tramite il suddetto regolamento dei conti (prima quelli parziali, poi quelli mondiali).
Credo che veramente il nodo della questione stia in ciò: bisogna superare la concezione dei conflitti interni ai processi produttivi in senso stretto (processi lavorativi), da cui consegue necessariamente tutta l’enfasi che poi si pone sul lato finanziario di detti processi che producono merci, oscurando completamente la funzione di vero predominio esercitata dagli agenti del conflitto strategico nella sfera politica. La preminenza di tali agenti mette immediatamente in discussione la limitatezza di quelle concezioni che riguardano una sorta di capitalismo-tipo (il modo di produzione marxiano, l’imprenditore innovatore schumpeteriano, gli “ideal-tipi” weberiani, ecc.), mentre si devono invece articolare le varie forme del conflitto tra diversi raggruppamenti sociali (non più le tradizionali “classi”), subordinandole alla dominante influenza dello scontro tra formazioni particolari; in specie quelle che, nel contesto di un’epoca policentrica, divengono nazioni -potenza. Il tutto con un’attenzione del tutto specifica non a semplici considerazioni di teoria generale, ma ad ipotesi scientifiche calate “nell’analisi concreta di una situazione (fase storica) concreta” (Lenin).
Per i motivi fin qui esposti, ho rivalutato l’ordine di esposizione seguito da Marx ne Il Capitale (criticato dall’althusserismo e da me stesso in altra epoca) e ho preso atto della netta affermazione, contenuta nelle già citate Glosse a Wagner, secondo cui il “soggetto” dell’analisi marxiana “non è il processo lavorativo ma la merce”. Ovviamente, non ho compiuto questa rivalutazione per tornare ad una concezione puramente mercantile del capitalismo, da cui poi i marxisti hanno tratto l’errata identificazione di quest’ultimo con il mercato mentre la pianificazione statale era equiparata al socialismo; da cui si è giunti a quella falsa contrapposizione tra “privato” (capitalismo) e “pubblico” (socialismo o gradino che immediatamente lo precederebbe). L’ordine di esposizione seguito da Marx serve più che altro a comprendere che il conflitto, nei suoi aspetti principali e più significativi, non si combatte nel processo lavorativo, bensì nell’ambito della società nella sua com-
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plessiva strutturazione.
Per Marx, dunque, la “classe operaia” (che è, nella sua concezione, il lavoratore collettivo cooperativo) non è immediatamente antagonista in uno scontro diretto con la proprietà capitalistica, nel luogo in cui questa controlla i mezzi produttivi; occorre tener conto di molte mediazioni poste nella configurazione d’insieme della formazione sociale, di cui il modo di produzione è solo “nocciolo strutturale interno”, non rappresenta – nemmeno fosse una “sezione d’essenza” – la (presunta) totalità capitalistica, non è affatto l’“immagine” di quest’ultima. Come aveva capito intuitivamente Lenin, la formazione sociale è qualcosa di ben più complicato e composito del modo di produzione. Il dirigente bolscevico aveva anche compreso (si legga il Che fare) che si poteva perdere tutta una vita a “interrogare” gli operai, a studiare le loro condizioni di vita e di lavoro, senza mai trovare il “bandolo della matassa da sbrogliare” per iniziare una “rivoluzione”, pur manifestandosi le condizioni congiunturali della stessa.
Sulla base di tutte queste avvertenze, si deve ricostruire una teoria del conflitto sociale nell’attuale epoca storica, che diventerebbe anche una interpretazione delle crisi economiche e un tentativo (futuro) di individuazione dei nuovi anelli deboli; non però della catena imperialistica, non di un capitalismo globale (peggio che peggio se definito monopolistico), bensì di una formazione sociale mutevole, anguillesca, nelle diverse fasi della sua metamorfosi nel tempo e nello spazio. Se vogliamo semplificare, diciamo: anelli deboli della catena dei capitalismi. Per il momento, basti.
Finito il 10 novembre 2008
APPENDICE
Mi prendo lo sfizio di riportare la poesia di Frost che ho citato nel saggio qui sopra. E’ comunque bella come poesia; e poi, volendo, qualche significato metaforico si può trovare.
La strada non presa di Robert Frost
Divergevano due strade in un bosco
ingiallito, e spiacente di non poterle fare entrambe essendo uno solo, a lungo mi fermai una di esse finché potevo scrutando
là dove in mezzo agli arbusti svoltava.
Poi, presi l’altra, che era buona ugualmente e aveva forse i titoli migliori
perché era erbosa e poco segnata, sembrava; benché, in fondo, il passare della gente
le avesse davvero segnate più o meno lo stesso,
perché nessuna in quella mattina mostrava sui fili d’erba l’impronta nera d’un passo. Oh, quell’altra lasciavo a un altro giorno! Pure, sapendo bene che strada porta a strada, dubitavo se mai sarei tornato.
Questa storia racconterò con un sospiro chissà dove tra molto tempo:
divergevano due strade in un bosco, e io….. io presi la meno battuta,
e di qui tutta la differenza è venuta.
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