RIPRENDO UN VECCHIO TESTO (di GLG)
Questo scritto risale al 2006. In un primo tempo, ho pensato di risistemarlo, cioè di fatto aggiornarlo a quanto penso ora dopo altri dodici anni trascorsi in un’epoca che è chiaramente di “transizione”; non a caso l’ho ripetutamente accostata (tenendo conto che mai gli eventi si ripetono pari pari) a quella di fine ‘800. Anche allora eravamo in una fase di passaggio verso una situazione internazionale multipolare, che poi sarebbe sfociata in policentrismo conflittuale acuto nel secolo successivo, quando si avranno in particolare i decenni “di fuoco” tra il 1914 e 1945. Nell’epoca di passaggio, di cui sto parlando, era iniziato il declino dell’Inghilterra, paese a lungo predominante durante quel secolo dopo il Congresso di Vienna (1814-15, quello detto della “Restaurazione” rispetto alla rivoluzione francese del 1789) e in cui si era compiuta la “prima rivoluzione industriale” (1760-70 / 1830-40). La guerra civile (o di secessione) americana del 1861-65 diede avvio alla lunga e infine vittoriosa marcia della potenza Usa. E la Prussia batté la Francia nel 1870-71 (anno di nascita della Germania) e pure essa si presentò in quella fine secolo come una delle potenze del multipolarismo in crescita (subito dopo arriverà il Giappone). Nel 1873-96 si ebbe il lungo periodo di stagnazione (che non significò assenza di qualche periodo di crescita di quello che oggi viene detto PIL) e si sviluppò la “seconda rivoluzione industriale”. E poi, appunto, si entrò nel XX secolo con tutto quanto si verificherà e che credo ben noto.
Tutto sommato, ho infine preferito ripresentare il testo così come lo avevo allora redatto. Credo che si noterà come non sia in fondo troppo “invecchiato”. Oggi, ovviamente, apporterei qualche correzione, ma soprattutto alcune aggiunte legate al passaggio di questi anni abbastanza tumultuosi. Nell’insieme, tuttavia, mi sembra sia uno scritto sufficientemente moderno. L’unica cosa da aggiungere è che, nel frattempo, ho pubblicato un bel po’ di altri libri oltre a quelli citati nel saggio del 2006. Ne ricordo alcuni, che ritengo – e non credo di essere presuntuoso – abbastanza importanti, anche se poco conosciuti, dato che non godo il favore dei media e di case editrici “famose”. Ho scritto: “Due passi in Marx”, “L’altra strada”, “Tutto torna ma diverso”, “Oltre l’orizzonte”, “Navigazione a vista”, “Tarzan versus Robinson”, “L’illusione perduta”, “In cammino (verso una nuova epoca)”.
E adesso lascio alla lettura chi ha interessi un po’ più ampi di quelli delle misere contingenze attuali; pure queste da seguire, certamente, ma sapendo ampliare i propri orizzonti sia storici che teorici.
UNA “MARX RENAISSANCE”?
1. Questioni preliminari
Ho letto che in Germania, attualmente, Il Manifesto del partito comunista (1848) è venduto tanto quanto la Bibbia. Sento anche di storici che ricominciano ad affermare l’importanza di Marx per la loro disciplina. Insomma, da più parti si sostiene che sarebbe in atto una sorta di Marx renaissance. Potrei esserne soddisfatto, data la mia impostazione teorica di base, ma ammetto di avere molti dubbi in proposito. Anche perché, almeno in campo economico, mi sembra che si rivolgano fin troppi complimenti al pensatore di Treviri in quanto avrebbe anticipato, previsto, la cosiddetta globalizzazione odierna. A parte che non penso ad un qualsiasi studioso, per quanto interessato alla trasformazione sociale così come lo fu il suddetto, in grado di fare il profeta, credo che la globalizzazione di cui tanto si parla sia semplicemente l’estendersi sempre più generalizzato della produzione di merci, l’intensificarsi e l’infittirsi della rete degli scambi mercantili a livello mondiale, una volta dissoltosi, dopo il 1989, quel tipo di società tradizionalmente definita “socialismo reale”.
In realtà, Marx non fu semplicemente il teorico di una società, detta capitalistica, fondata sul generalizzarsi della produzione per il mercato. Da questo punto di vista, fu ampiamente anticipato dall’economia classica, anzi prima ancora dai mercantilisti. Marx non studia in senso proprio il capitalismo, in quanto società costituita da un complesso di rapporti di diversi tipi fra loro variamente articolati. Egli formula soprattutto il concetto di modo di produzione capitalistico, inteso quale forma storicamente specifica di rapporti sociali che influenza e dà coloritura particolare a tutto l’insieme societario nell’epoca moderna; e che sostiene, regge, orienta e imprime impulso allo sviluppo delle forze produttive nell’ambito di detto insieme, estremamente dinamico da questo punto di vista.
La teoria del valore (lavoro incorporato) che Marx riprende dai classici (Smith e Ricardo), trasformandola radicalmente onde mettere in evidenza tutta la tematica del plusvalore (pluslavoro) in quanto profitto capitalistico – tema su cui non mi diffondo, non essendo mia intenzione tenere una sorta di lezione di economia politica – era per lui strumento teorico atto a cogliere la continua riproduzione del rapporto “essenziale” del modo di produzione capitalistico, decisivo dunque per comprendere il movimento peculiare dell’intera società capitalistica. Tale rapporto era, per Marx, quello tra proprietà dei mezzi di produzione e lavoro salariato, cioè forza (capacità) lavorativa venduta come merce da chi altro non possedeva se non il suo cervello e/o il suo braccio. La teorica del valore e plusvalore spiegava come, ad ogni ciclo della produzione capitalistica, veniva riprodotto tale rapporto con il costante accrescimento del lato proprietario (grazie al profitto/plusvalore), mentre il lavoro salariato poteva vedere certo aumentare il suo tenore di vita (salario reale) ma sempre nell’ambito di una non proprietà, dunque un non controllo, dei mezzi necessari all’attività produttiva.
Da qui nacque il cosiddetto socialismo scientifico, cioè la convinzione che la dinamica intrinseca al modo di produzione capitalistico, indagata appunto con metodo scientifico, conducesse l’intera società (formazione sociale) capitalistica alla sua trasformazione (transizione) ad una nuova forma di rapporti di tipo comunistico. Ed è su questo punto che il pensiero di Marx si saldò con la prassi comunista; lo scienziato, cioè, non avrebbe potuto che porsi nella prospettiva della trasformazione rivoluzionaria del capitalismo, essendo questa – secondo quanto si presumeva ormai accertato in sede di teoria – del tutto necessitata in base alla direzione assunta dalla riproduzione del rapporto fondamentale del modo di produzione capitalistico (non dell’intero capitalismo, in quanto insieme sociale variamente strutturato). Ed è su questo punto che invece – secondo la mia opinione, anch’essa fondata su una pretesa scientifica, cioè su ipotesi formulate seguendo certe regole di analisi e argomentazione – il marxismo è stato nella sostanza invalidato. L’invalidazione, perfino restando ai semplici precetti popperiani, decreta la scientificità del marxismo; ma dichiarare troppo affrettatamente una Marx renaissance mi sembra assai problematico. Comunque a tutto questo ho dedicato molti anni di studio che si sono, momentaneamente, conclusi con il mio ultimo libro: Gli strateghi del capitale, Manifestolibri 2006; cui va aggiunto, quale corollario, un opuscolo: La teoria come pratica (politica), Società editrice apuana 2006.
2. Uno schizzo della teoria marxista originaria
Quanto appena sostenuto implica intanto una breve considerazione: Marx non ha affermato una semplice estensione – a livello sempre più globale – della produzione capitalistica di merci. Egli pensava, più precisamente e con ben altro spirito di previsione, che il rapporto “essenziale” del modo di produzione capitalistico – tra capitale (proprietà dei mezzi produttivi) e forza lavoro (salariata) venduta come merce – si sarebbe esteso, dal primo paese in cui tale modo di produzione aveva raggiunto la sua “classicità” (Inghilterra), al resto del mondo. La globalizzazione, di cui parlava Marx, non riguardava il mero mercato, bensì la riproduzione di un rapporto di forma storicamente determinata, il cui movimento endogeno preparava le condizioni sociali di una trasformazione rivoluzionaria del capitalismo in comunismo. Il primo passo da compiere è allora comprendere, pur del tutto schematicamente, la dinamica del suddetto rapporto.
Data la tirannia dello spazio, sarò estremamente sommario e apodittico. Come già rilevato, in Marx, e nel marxismo “classico”, il comunismo non ha pressoché nulla di semplicemente utopico. Nel fondatore della teoria tuttavia, al contrario dell’uso invalso successivamente, in particolare negli ultimi decenni di prosperità del marxismo (dopo la seconda guerra mondiale), l’idea della necessità, più ancora che mera possibilità, del comunismo non dipendeva dall’utilizzazione della teoria del valore (lavoro) e del plusvalore (pluslavoro). Il fatto che le classi lavoratrici salariate (il soggetto pensato come rivoluzionario in direzione del suddetto comunismo, passando per un primo stadio socialistico) siano sfruttate – si estragga cioè da loro, pur nel rispetto formale dell’equivalenza realizzata in media nello scambio mercantile, il pluslavoro/plusvalore che costituisce la sostanza dei redditi dei gruppi proprietari dominanti – non attribuisce, di per se stesso, a tali classi un carattere rivoluzionario. Ed infatti Marx era ben conscio che tutte le classi sfruttate nelle società precapitalistiche non avevano mai posseduto la capacità di trasformarle l’una nell’altra (ad es., dallo schiavismo al feudalesimo, o da questo al capitalismo, ecc.).
L’in sé rivoluzionario della classe dei lavoratori salariati era considerato certo – l’ho già detto, ma è bene ribadirlo – in base al concetto di modo di produzione capitalistico, inteso quale intreccio di rapporti di produzione e forze produttive. Nell’ambito dei primi, si supponeva – anzi, Marx la dava per scontata, per necessaria – questa dinamica: in un primo tempo la proprietà dell’artigiano e del piccolo conduttore contadino veniva, mediante i processi dell’accumulazione originaria del capitale (vedi il mirabile, e ultrachiaro, settimo e ultimo paragrafo del cap. XXIV del I libro de Il Capitale), trasformata in proprietà (privata) capitalistica, con i capitalisti (anche organizzatori della produzione), da una parte, e i lavoratori salariati (espropriati dei mezzi di produzione), dall’altra. In un secondo tempo, iniziava pure la crescente espropriazione fra capitalisti a causa della reciproca concorrenza con fallimento dei molti e il successo dei pochi. Si verificava cioè la centralizzazione (monopolistica) dei capitali che, a questo punto, portava ad un numero sempre più ristretto di capitalisti proprietari di azioni (rentier, proprietari finanziari) avulsi dai processi produttivi, da una parte, e alla gran massa dei lavoratori (salariati) del braccio e della mente (“il manovale” e “l’ingegnere”), dall’altra.
Tra questi ultimi esistevano contraddizioni secondarie, mentre quella principale correva tra loro e i proprietari ormai “assenteisti”, una nuova classe sostanzialmente signorile, pur se avrebbe goduto principalmente di rendite finanziarie, legate alla proprietà azionaria e alle speculazioni borsistiche; meno importanti, pur se cospicue, sarebbero invece state quelle da proprietà immobiliare (fra cui quella terriera), che comunque non avrebbero avuto più nulla a che vedere con quelle di tipo feudale. La rivoluzione sarebbe divenuta a questo punto incombente, e il soggetto della rivoluzione sarebbe esistito appunto nella figura di queste classi del lavoro salariato, sia intellettuale (le potenze mentali della produzione) che manuale, classi che non avrebbero agognato solo utopicamente il comunismo, poiché i loro stessi interessi le avrebbero spinte in tale direzione, alla realizzazione di una effettiva cooperazione tra tutti i lavoratori (produttori), mentre lo sfruttamento sarebbe apparso senza più veli, una autentica spoliazione di chi produceva con il suo lavoro da parte di superflue sanguisughe.
Naturalmente, le classi proprietarie non sarebbero state immediatamente e facilmente espropriate dai produttori cooperanti, poiché esse, per la vischiosità tipica dei processi storici, avrebbero mantenuto ancora per un certo tempo una superiorità (egemonia) culturale, ma soprattutto politica, controllando lo Stato in quanto strumento di dominio; a questo punto esercitato sempre più in modo violento, repressivo e coercitivo. Nessuna concessione, in Marx, a tesi di democratico affermarsi delle masse salariate in semplici elezioni, al loro pacifico movimento che avrebbe imposto, con la sola forza del numero (e della “giusta” rivendicazione di non essere più spogliati dei frutti del proprio lavoro), la loro prevalenza, ormai armoniosa, fondata sulla solidarietà e sulla programmazione coordinata delle loro attività senza più la competizione legata al mercato, ecc. No, sarebbe stato invece necessario passare per un periodo di acuta rivoluzione onde abbattere il potere dei capitalisti finanziari, distruggere la “macchina statale” al loro servizio e costruire, provvisoriamente e per un periodo di semplice transizione, uno Stato di “dittatura proletaria” (cioè al servizio dell’insieme dei lavoratori); uno Stato “in via di deperimento”, man mano che sarebbe prevalso lo spirito solidale e cooperativo dei produttori contro quello di pura rapina e sfruttamento dei redditieri e finanzieri.
E veniamo all’altro lato del modo di produzione, alle forze produttive. Con la centralizzazione monopolistica dei capitali si sarebbe attenuata la competizione tra capitalisti (oggi diremmo tra imprese) con affievolimento della spinta allo sviluppo. Ancora una volta, però, il marxismo (di Marx) non si rifaceva semplicemente a questo aspetto solo economico, legato alla monopolizzazione del capitale, ma ancor più a quello socialerelativo appunto al formarsi del ristretto gruppo di capitalisti finanziari, proprietari di azioni e disinteressati al vero e proprio processo produttivo. Sarebbe stata l’estraneità alla produzione, il loro essere dediti ad operazioni finanziarie, al gioco speculativo di Borsa, al lancio come al fallimento delle società per azioni a seconda delle loro convenienze in mero guadagno di denaro, a rendere questi rentier del tutto esiziali per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive.
La loro reciproca competizione sarebbe stata soltanto tesa a depredarsi l’un l’altro; ma, alternativamente e quando ciò fosse stato loro necessario, essi si sarebbero uniti in una lotta contro l’insieme dei lavoratori per costringerli a produrre di più, onde potersi così appropriare di quote maggiori di pluslavoro/plusvalore. Sarebbe così divenuto sempre più chiaro al popolo che la ragnatela costituita dall’intricato intreccio dei loro rapporti proprietari – mantenuta e difesa dal potere del loro Stato, dall’esercizio sempre più frequente di violenza, sia contro i lavoratori che fra loro, con il corteggio delle continue guerre, rivolte, conseguenti massacri, ecc. – avrebbe dovuto essere strappata e distrutta, abbattendo intanto il potere che essi avevano nello Stato e negli apparati culturali (nelle “sovrastrutture” politico-ideologiche); e sarebbero perciò scoppiate sempre più spesso, e con estensione sempre maggiore, rivoluzioni contro di essi.
Abbattuta, stracciata, questa ragnatela, instauratisi nuovi rapporti di proprietà e di potere (della collettività dei produttori), le forze produttive avrebbero ricominciato a svilupparsi e ci si sarebbe avviati allora verso quell’obiettivo del comunismo sintetizzato dall’espressione: “da ognuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Senza più, o con sempre meno, competizione e violenza sopraffattrice, e rafforzandosi invece lo spirito di cooperazione e di armonico (equilibrato) coordinamento della produzione secondo le decisioni prese di comune accordo, i bisogni della popolazione sarebbero cresciuti – con esaltazione soprattutto del loro aspetto ideale e culturale rispetto a quello esclusivamente materiale – in misura correlata al programmato sviluppo delle forze produttive, senza le forzature, capitalistiche, del consumismo odierno.
Come il lettore si renderà conto, in tutto quanto ho finora scritto non vi è nulla o quasi di “bel sogno”, di facile utopia. I comunisti e marxisti sono infatti sempre stati persone eminentemente pratiche, concrete, contrarie ai semplici buoni sentimenti; hanno sempre tenuto conto che gli uomini non sono necessariamente generosi, altruisti, pronti a sacrificarsi per gli altri, ecc. Hanno pensato che la società, la formazione sociale, arrivata alla sua epoca capitalistica, si sarebbe sviluppata secondo modalità tali da creare i presupposti di una organizzazione cooperativa di tipo, nella sua fase finale, comunistico.
3. Il contrasto crescente tra la teoria e la realtà storica
Senza grande consapevolezza dei rivoluzionari, dei comunisti, il modello marxista di pensiero (scientifico, non utopico) cominciò a incrinarsi proprio durante il periodo della crescente centralizzazione monopolistica del capitale: tra fine ottocento e primi novecento. La formazione di grandi imprese (produttive e finanziarie) non portava affatto alla sostanziale unificazione, o almeno sempre più stretta cooperazione, di tutti i lavoratori, sia di carattere direttivo che esecutivo; e fra gli uni e gli altri andò crescendo una vasta gamma intermedia con stratificazioni gerarchiche e di saperi piuttosto notevoli. Così pure, nell’apparato dirigente – soprattutto a causa del moltiplicarsi delle branche e settori produttivi, conseguente all’importanza assunta dalle innovazioni di prodotto (e poi di fonti di energia), poco considerate dal marxismo tradizionale, tutto concentrato su quelle di processo (tecnologiche) rilevanti ai fini dell’accrescimento del plusvalore (relativo) – non si andava verso una sostanziale sintesi dei saperi produttivi, e della scienza applicata alla tecnica, con l’emergere del (previsto da Marx) general intellect; si espanse al contrario un cospicuo strato manageriale, di vari livelli, e si costituì una comunità scientifica sempre più frammentata al suo interno a causa di un crescente e sempre più sminuzzato specialismo.
Il complesso dei lavoratori, pensato quale soggetto oggettivamente interessato alla rivoluzione, si ridusse di fatto alla sola classe operaia in senso stretto, alle “tute blu”, agli operai di fabbrica, i quali indubbiamente, per una intera epoca storica, crebbero di numero e di forza (in specie sindacale). Questa classe divenne, per il marxismo in quanto ideologia elaborata soprattutto da Kautsky, il “soggetto rivoluzionario” per eccellenza; gli altri lavoratori, in particolare quelli in possesso della scienza e della tecnica, delle “potenze mentali della produzione”, furono considerati specialisti borghesi; fondamentali per la produzione anche dopo una eventuale rivoluzione mirante al comunismo, ma che dovevano in tal caso – secondo quanto sostenne con grande spirito pratico Lenin – essere strettamente controllati e agire sotto “la guardia” degli “operai armati” e del loro Stato. Ovviamente, questo mutamento (inavvertito) di soggetto rivoluzionario, rispetto alle origini, comportava gravi problemi con riguardo a quella egemonia, anche culturale e ideologica oltre che politica, che ogni precedente classe rivoluzionaria – nei passaggi da una formazione sociale all’altra; ad es. la borghesia nella transizione dal feudalesimo al capitalismo – ha sempre conquistato ed ampiamente esercitato, e che non può certo essere trattata quale condizione di scarsa importanza ai fini del successo o meno della trasformazione sociale.
Da questa difficoltà è in fondo nata tutta la teoria dell’avanguardia in quanto fusione, meglio ancora sintesi, imbricazione, stretto intreccio, tra gli “intellettuali borghesi giunti alla comprensione del movimento della società nel suo insieme” (Manifesto comunista del 1848) e gli strati più coscienti, ma sempre poco numerosi, della classe operaia in senso stretto. Non mi dilungo in proposito perché si dovrebbero scrivere parecchi volumi, ma è ben nota la fine fatta dalle rivoluzioni guidate da simili avanguardie; e con questa brutta fine è andato perso anche il nocciolo razionale della teoria in oggetto: senza direzione e organizzazione, senza conoscenza del campo del conflitto e degli obiettivi che la lunga opera di trasformazione dovrebbe raggiungere per affermarsi stabilmente e irreversibilmente, ecc., non c’è movimento di massa che tenga e ogni mutamento radicale resta effettivamente un “bel sogno”.
La verità è che la storia del novecento ha bisogno di essere riscritta in gran parte con una metodologia che si ispiri, almeno parzialmente, alla considerazione delle strutture sociali che fu tipica del marxismo. Secondo la mia opinione, è stato perso – ma da tutti, non dai soli marxisti – un fondamentale passaggio di forma storica dei rapporti sociali, avvenuto nell’epoca detta dell’imperialismo, in cui furono poste le premesse per una trasformazione del capitalismo. Mancano attualmente i concetti per afferrare questo passaggio che indicherò allora, pur con imprecisione teorica (cioè approssimativamente), come transizione dalla società dominata dalla vecchia borghesia proprietaria (dei mezzi produttivi e dei capitali finanziari) a quella, di tipo americano, dei funzionari del capitale, che poi, nel corso del mezzo secolo susseguente alla seconda guerra mondiale, ha sconfitto il “socialismo reale” e si è rimondializzata sotto il predominio degli USA.
Ed è precisamente a questo punto che i marxisti e comunisti non hanno capito più niente. Per loro, la fine della borghesia proprietaria (e finanziaria) avrebbe dovuto significare l’affermarsi della rivoluzione proletaria (e della classe operaia) contro un capitalismo ormai morente, stagnante, incapace sia di sviluppo che di democrazia, pur solo formale. Strano destino: i paesi capitalistici occidentali si sono sviluppati impetuosamente, anche attraverso crisi (minori, dette non a caso recessioni), mentre il “socialismo” – affermatosi sempre in paesi arretrati, con grandi masse contadine e pressoché privi del “soggetto rivoluzionario” per eccellenza, la classe operaia – è entrato in fase di ristagno, di putrefazione ed è infine crollato in modo inverecondo senza nemmeno un piccolo sussulto di resistenza; anzi, dove si è risvegliato, lo ha fatto con strutture di nuovo capitalismo selvaggio, estremamente duro e autoritario, che indubbiamente va ponendo le basi per un affrontamento generale nei confronti del paese al momento predominante (USA), ma non certo sulla base di una lotta per il comunismo, non certo fondandosi sul potere dei proletari, che invece sono eminentemente “schiavizzati” (assai più che nei capitalismi del Welfare) e non hanno alcuna difesa; debbono solo lavorare, e ancora lavorare, per le “magnifiche sorti e progressive” delle loro classi capitalistiche dominanti (spesso lo stesso establishment che si autoproclamava comunista), dotate di un potere accentratore di particolare forza, durezza e ferocia.
4. Un ripensamento globale
Arrivati a questo punto, il vecchio marxismo e comunismo non servono assolutamente più a nulla. In effetti, è ormai urgente ripensare tutto; si può anche ripartire, secondo me, da Marx, ma allora rivoltandolo in lungo e in largo. Non una semplice renaissance, bensì una radicale ristrutturazione dell’intera intelaiatura teorica. Perché il problema è proprio capire come mai l’indubbia fine di una certa forma di società – il capitalismo borghese, analizzato da Marx sul modello inglese, è tramontato – non ha portato in primo piano il supposto soggetto rivoluzionario, la classe operaia (o proletariato, espressione sempre usata come fosse sinonimo della precedente). Se non si pone al centro della comprensione scientifica, e della conseguente attività pratica (politica), il problema in oggetto, che ha visto il totale disorientamento e dissolvimento delle capacità analitiche e pratico-teoriche del marxismo, ci si dovrà allora risolvere a trattare Marx quale personaggio di notevolissima statura, consegnandolo però alla pura storia del pensiero.
Non posso ovviamente ripetere in questa sede tutta l’analisi, condotta nei miei lavori sopra citati, mirante a formulare ipotesi intorno al tipo di società oggi esistente, dopo il tramonto del capitalismo borghese; tramonto che, a mio avviso, un Lukàcs comprese piuttosto bene nella sua, prima osannata e poi vituperata, Distruzione della ragione. La sua comprensione fu però assai poco strutturale e molto ideologico-culturale, per cui anch’egli pensò, come tutti i marxisti (me compreso per tanti anni!), che al declino della borghesia facesse seguito l’imputridimento della società, la stagnazione delle forze produttive, con ascesa della classe operaia che avrebbe iniziato l’opera di trasformazione (transizione) in una società di tipo socialistico e comunistico. Invece, dopo una lunga fase di trapasso, caratterizzata dall’epoca dell’imperialismo e dalla lotta tra le grandi potenze successiva alla fine della supremazia mondiale inglese, ascesero a paese centrale gli Stati Uniti, portatori di quella forma sociale che, in assenza di concetti più precisi, ho definito società dei funzionari del capitale e che ha una struttura sempre fondata sul mercato e l’impresa (e la competizione interimprenditoriale), ma che comunque presenta caratteri ben diversi da quelli supposti da Marx quando si convinse che la classe lavoratrice salariata (“dall’ingegnere all’ultimo manovale”, “dal primo dirigente all’ultimo giornaliero”, come scritto nel cap. XXVII del libro III de “Il Capitale”) si sarebbe sostanzialmente unificata – e in tutto il mondo (il tanto vagheggiato e mai realizzatosi internazionalismo proletario; che non poteva realizzarsi proprio per ragioni strutturali) – diventando il soggetto della trasformazione comunistica.
Quella che si è chiamata per oltre un secolo lotta di classe diventa quindi molto più complessa e variegata, poiché la società (dei funzionari del capitale) non si divide in due con gli antagonisti Capitale e Lavoro in singolar tenzone. Proprio per questo, ritengo sempre valida – pur non parlando più di avanguardie – la necessità dell’organizzazione, fortemente strutturata, che deve saper formulare le strategie più appropriate per la lotta contro i gruppi dominanti in questa società, analizzata in una visione globale, che richiede non la semplice utilizzazione del concetto di modo di produzione – in grado soltanto di cogliere la dinamica dei rapporti sociali di produzione in direzione della divisione tra proprietà dei mezzi produttivi e forza lavoro venduta come merce (con tutte le altre conclusioni che ne conseguono) – ma il necessario complemento di strumentazioni teoriche di tipo geopolitico (nel cui ambito va situata la geoeconomia), tenendo conto della stratificazione sociale a livello mondiale, dei meccanismi economici come di quelli politici e culturali, della rilevanza di motivazioni d’ordine nazionale, etnico, religioso, e via dicendo.
La teorizzazione marxista tradizionale è in genere affetta da economicismo; d’altra parte è facile slittare verso quelle soltanto politicistiche e/o culturalistiche. Le teorie fanno parte della pratica; sono comunque apparati che hanno validità ove, almeno potenzialmente, consentano di indirizzare certe strategie d’azione in modo utile a possibili interventi nel “mondo” (in questo caso, quello della società nella nostra epoca storica). In certi casi, la fedeltà ai “principi”, cioè magari a formulazioni concettuali di un tempo che fu, possono facilmente trasformarsi in spessa coltre ideologica, in mera ripetizione di uno schema ossificato, ineffettuale.
Di pochi “principi” resto convinto; e, primo fra tutti, quella che per me resta una più che sensata intuizione di Lenin e di Mao: l’attività trasformatrice consegue i suoi successi soprattutto laddove si sono fortemente indeboliti, per esplosive contraddizioni interne, i gruppi sociali dominanti. Le principali rivoluzioni del novecento, quelle che hanno comunque prodotto effetti di radicale mutamento, pur se non certo in direzione del socialismo e comunismo, si sono verificate durante i grandi scontri mondiali interdominanti o come conseguenza del forte indebolimento del sistema capitalistico nella fase in cui si è andata affermando la nuova centralità egemonica statunitense. La lotta tra agenti capitalistici, tra i “loro” Stati, i “loro” sistemi culturali: questo provoca stabilizzazione o invece mutevolezza dei rapporti di forza tra di essi, che vanno analizzati nell’insieme delle sfere sociali: economiche (produttive e finanziarie), politiche, ideologico-culturali. Chi presuppone che quelle economiche siano sempre le preminenti, che gli apparati finanziari – decisivi ai fini delle strategie di lotta per la supremazia tra i vari gruppi dei suddetti agenti – siano ormai sempre puri parassiti succhiatori di mero plusvalore “operaio”, ecc. è ormai piuttosto incapace di comprendere i movimenti della formazione mondiale da ormai oltre un secolo; per non parlare della fase odierna. Non si lavora sui microchips con falce e martello; e non si lavora sulle contraddizioni della società capitalistica degli ultimi cent’anni con il marxismo tradizionale.
E’ comunque necessario un punto di partenza; e per chi si propone una radicale e inesausta critica di questa società, quest’ultimo non può che essere la contraddizione da ritenersi principale, cioè quella che oggi rende instabile e abbastanza disgregata la formazione sociale mondiale senza però che si verifichino ancora reali sconvolgimenti dei rapporti di forza; e che è tuttavia anche quella che potrebbe provocare tali sconvolgimenti, ove si verificassero perfino piccoli spostamenti degli equilibri attuali, soprattutto se arrivassero a sommarsi nella stessa direzione. Oggi esiste un chiaro predominio centrale USA, ancor più forte di quello inglese nella prima metà dell’ottocento. C’è chi ha paura che, lavorando nella direzione dell’erosione di simile predominio, si potrebbero favorire gli altri capitalismi. Sento ancora qualcuno convinto addirittura che il vero sommovimento rivoluzionario possa infine realizzarsi proprio nel capitalismo più avanzato, appunto quello statunitense predominante. Questo è il triste effetto di un marxismo scolastico, ridotto alla teoria del plusvalore e dello sfruttamento, capace di utilizzare solo il concetto – ormai decrepito e veramente intralciante il corretto pensare – di modo di produzione. Quest’ultimo è del tutto insufficiente, proprio perché non è la contraddizione capitale/lavoro che smuoverà gli attuali equilibri mondiali, che incrinerà la preminenza ancora schiacciante degli USA.
Occorrono pensatori e politici nuovi, non scolastici e dottrinari, che mettano in primo piano il problema di questa preminenza centrale, e promuovano, in primo luogo, l’attività di resistenza (e possibile contrattacco) ad essa, che lavorino a sgretolarla. Non si tratta affatto di appoggiare, rendendosene “servitori”, altri capitalismi; che, in tutto il mondo, sono comunque ormai formazioni sociali di funzionari del capitale, anche se con modulazioni economiche, politico-istituzionali, culturali, assai differenti, che vanno studiate con serietà e non con schemi ideologici preconcetti, vecchi di un secolo e mezzo.
Occorre aria fresca e una nuova mentalità. E’ difficile creare al momento una nuova sintesi quale fu, centocinquant’anni fa, il pensiero di Marx. Cominciamo intanto a prendere pezzi di marxismo, di geopolitica e strategia, di storia, e naturalmente di filosofia; e iniziamo a costruire qualcosa, partendo da una precisa “stella polare”: occorre intaccare la predominanza centrale statunitense, partendo dall’Italia e dall’Europa, poiché è qui che “pestiamo la terra”. Il resto non segue automaticamente; ma non ci sarà nessun seguito continuando a puntare sullo “sfruttamento” (estorsione di plusvalore), sulla “classe operaia” in quanto “classe universale” che “liberando se stessa libera l’intera umanità”, e altre vecchie formulazioni consimili. E se crediamo di cavarcela con i movimenti, con il gandhismo, con l’ambientalismo, con “l’altra metà del cielo”, ho la nettissima sensazione che si otterranno soltanto risultati assai effimeri e di semplice superficie.
5. Alcuni punti fermi
In definitiva, concludendo, penso sia possibile affermare che lo sviluppo del capitalismo non è andato affatto nella direzione prevista da Marx e mai ridiscussa, nei suoi principi teorici di fondo, da alcun marxista. Inoltre, sospetto che vi sia stato quel passaggio storico, cui ho accennato, dal capitalismo borghese a quello dei funzionari del capitale, che non è stato colto; e la cui non comprensione pone gravi limiti all’azione tesa a trasformare il nostro mondo attuale. Il marxismo può ancora essere utile nella sua metodologia improntata ad una analisi di tipo strutturale; nella sua formulazione originaria è però stato, a mio avviso, ampiamente invalidato, e non ha dunque senso per me un qualsiasi “ritorno a Marx”. Quanto al comunismo, ho la nettissima impressione che sia assimilabile, nella sua probabilità, alla generazione della vita secondo le ipotesi di Jacques Monod (ne Il caso e la necessità); ma si tratta di una mia impressione, non più che questo. Sono comunque fermamente contrario a quei credenti, per fortuna ormai pochissimi, che vorrebbero imporre agli altri la loro fede, sostenendo che è suffragata dalla scienza e dalle presunte leggi del materialismo storico.
Sono tuttavia convinto che secondo Marx e il migliore marxismo – non certo quello, ad es., dei “sessantottini”; né quello sindacale, ecc. – il comunismo volesse e dovesse esaltare l’individualità, non avvilirla né soffocarla. Non si predicava un egualitarismo grigio, conformistico, piatto, buono per portare in primo piano i mediocri, privi di ogni idea propria, annientando invece le qualità di spicco, come purtroppo accadde nel “socialismo reale” (e in molti partiti comunisti). “A ciascuno secondo il suo lavoro” non significava, per Marx, fare soltanto riferimento alla quantità, al tempo di lavoro, ma anche alla sua creatività e originalità. Altrimenti non nasce mai il nuovo, tutto continua in una routine mortificante che, alla fine, provocherà la rivolta contro “l’uomo medio”, quello di cui vorrei ci si ricordasse sempre la definizione datane da Pasolini, tramite il personaggio del regista interpretato da Orson Welles, nel suo forse più bel gioiello cinematografico: La ricotta da Rogopag.
Nemmeno però si può accettare il tipo di competitività che regna nella nostra società, nel capitalismo borghese e ancor più in quello dei funzionari del capitale: una lotta fondata sulla sopraffazione, la coercizione, l’inganno, la menzogna, l’ipocrisia, il raggiro, e chi più ne ha più ne metta; e molto spesso, ovviamente, sull’uccisione (di massa), le guerre e distruzioni immani, le torture, ecc. Ribadisco quanto detto con riferimento alla società dei funzionari del capitale: il carattere decisivo dei ruoli dominanti (capitalistici) non è la proprietà (privata) dei mezzi produttivi, che è semmai scudo protettivo nella conduzione delle strategie di lotta per la supremazia (nelle varie sfere sociali) tra le diverse frazioni di questi ruoli. Tuttavia, non è facile scindere la proprietà in questione dall’esercizio delle funzioni del conflitto strategico comportanti gli effetti deleteri appena considerati. E nemmeno è facile scindere la produzione di merci dall’autonomizzazione di una sfera finanziaria e del controllo del denaro; con tutto quello che ne consegue in termini di direzioni di impiego dei mezzi finanziari ai fini della lotta per il dominio (o, se piace di più, l’egemonia).
D’altra parte, non possiamo adeguarci supinamente alle selvagge abitudini contratte dall’umanità in millenni di storia soltanto per salvaguardare la pura e semplice libertà individuale. Comunque, tronchiamo qui; tanto da discutere ce ne sarà sempre. Però, per favore, non facciamo in questa particolare fase storica fughe in avanti; non discutiamo ossessivamente della libertà – e soprattutto di quest’ultima in quanto legata alla proprietà e alla produzione di merci – o magari della “costruzione del socialismo” secondo nuove modalità (escogitate solo a tavolino, data la situazione delle forze che desidererebbero una trasformazione realmente radicale); tutto questo nel mentre continua il predominio (o egemonia) mondiale degli USA, e la contestazione d’esso è ostacolata da mille compromessi, da indecisioni e debolezze.
marzo 2006