RISTABILIAMO UN MINIMO D’ORDINE INTERPRETATIVO di G. La Grassa

   1. Prenderò le mosse da un fatto concreto che è di questi giorni. Forte indignazione provoca un preciso e non inconsapevole attentato agli interessi dello Stato italiano, di cui si è già detto ripetutamente nel blog: un atto passibile di essere considerato quale “alto tradimento nazionale”, compiuto da magistrati ordinari che dovrebbero essere giudicati da una ben più Alta Magistratura, quella che si attenesse infine alla difesa della nostra indipendenza. Si tratta dell’aggressione giudiziaria ad uno dei pochi gioielli della nostra industria di punta, dei limitati settori di interesse strategico che abbiamo. Il fatto che questi ultimi siano “pubblici” e non “privati” non conta proprio nulla se non per incapaci di comprendere il fallimento del sedicente “socialismo”, in realtà divenuto un inefficiente e pachidermico statalismo solo parassitario, privo di ogni spinta propulsiva.
   Intanto la Finmeccanica, come pure l’Eni e l’Enel, non è più pubblica se non parzialmente. In ogni caso, per comprendere il ruolo giocato da ogni grande impresa è sempre decisiva la strategia politica nel cui ambito vengono effettuate le scelte di vertici manageriali (che siano anche proprietari privati oppure no ha ben minore rilevanza, interessa per questioni in buona parte di dettaglio) più o meno efficienti nella gestione imprenditoriale, ma che certamente non sono i primi responsabili dell’efficacia di decisioni prettamente politiche, prese in base a considerazioni di potenza. L’economi(ci)sta guarda alle “quote di mercato”, ma il principale ambito della lotta sono le sfere (o zone) d’influenza, di pertinenza della politica.
   In questa sede non è certamente della differenza ideologica pubblico/privato che intendo occuparmi, né semplicemente della vergogna di cui si ricoprono falsi moralisti alla ricerca di “tangenti” o altro, compiendo azioni “ad orologeria”, fatte apposta per indebolire certi settori economici a favore di altri, conniventi con un paese (gli Usa) che ci detta le azioni da compiere. In questo momento, tale “orologeria” continua a funzionare secondo le diposizioni prese nel ’92 sul Britannia, e sempre tramite la magistratura al fine di celare il nostro mercenariato politico, svolto ai fini della sudditanza agli Usa con l’intermediazione della nostra finanza e industria dei parassiti (i “confederati”).
 
   2. La vergogna, che è sia dei “liberali” (fra cui annovero anche i blandi statalisti della spesa o domanda “pubblica”, magari paludati da keynesiani) sia dei “marxisti” (cioè di quegli ottusi che di Marx capiscono quanto io di astrologia), è di scandalizzarsi perché si alterano le “regole del gioco”. Per i liberali sono quelle “benefiche del libero mercato”; per i critici del capitalismo si ha invece la dimostrazione che quest’ultimo è il male del mondo, è il Maligno in opera. Entrambi sono o superficiali o imbroglioni. Dei semplici anticapitalisti, in specie pseudomarxisti, ci si libera subito, perché non hanno ancora preso atto che il mondo da essi voluto non si è mai instaurato: si era installato, come sopra detto, un parassitario statalismo, incapace oltre certi limiti – superati solo da una forte volontà politica, quella manifestatasi negli anni di Stalin, e rinvigorita da una guerra – di qualsiasi trasformazione innovativa dell’industria, di qualsiasi iniziativa che attuata nel suo ambito decisivo, la politica, fosse poi possibile calare con successo nella sfera economica, permeandola tutta e dandole effettivo slancio.
   Inconsistenti sono però nel medesimo tempo coloro che inneggiano al capitalismo, all’impresa e al mercato; oggi, cioè, sia la “destra” che la “sinistra” al completo (salvo quelle poche schegge anticapitalistiche, di cui già detto). Lasciamo pure il caso particolare della Finmeccanica per considerazioni assai più generali. Se si agisce in un mercato, se ci si affida al gioco competitivo di quegli organismi produttivi che sono le imprese (e sono queste a caratterizzare attualmente la sfera economica nelle formazioni sociali più avanzate), fanno ridere le accuse di alterazioni dell’etico comportamento delle stesse. La concorrenza comporta il tentativo, anzi la necessità, di ogni impresa di battere le altre per assorbirle o espellerle dal mercato. Se ci sono alleanze – e non possono non esserci come in qualsiasi lotta – si tratta di sistemi di cooperazione al fine di meglio combattere e vincere gli avversari. L’“unione fa la forza” non rappresenta, se non in rare eccezioni, l’unità d’azione per difendersi dalla natura o per soggiogarla ai nostri scopi. Salvo che per le “anime belle”, ci si unisce ad alcuni per combattere e vincere contro altri. Questo principio vige sia nella lotta tra gruppi di dominanti (aspetto decisivo che caratterizza con continuità la storia dell’umanità dai suoi primordi) sia nelle ribellioni o rivoluzioni dei subalterni contro coloro che sono ritenuti ormai dei puri oppressori; fenomeno più saltuario ma rilevante proprio ai fini delle grandi trasformazioni sociali “epocali”.
   Qui però non si parla di rivoluzione, si sta trattando della concorrenza tra imprese, cui è assegnato, nell’epoca moderna, il compito dell’attività produttiva (e di tutto ciò che la contorna, ivi compresa l’attività finanziaria dato che la produzione moderna è produzione generale di merci). Nella concorrenza non si fanno “carezze” all’avversario; essa non è un duello medievale tra cavalieri in cui vige il senso dell’onore. E del resto, onore o non onore, anche quel duello era teso ad eliminare l’avversario, a dimostrare la propria supremazia in quel dato campo. Quando un’impresa introduce innovazioni tecnologiche (di processo), lo fa per abbassare i costi e battere sul prezzo l’avversario oppure, se ci si accorda in qualche modo sui prezzi, per aumentare i profitti e quindi le proprie potenzialità che verranno giocate in futuro nel tentativo di espandere la quota di mercato. Quando s’introducono innovazioni nei prodotti e le si difendono con brevetti o con la pubblicità e consolidamento di dati marchi, lo scopo è il medesimo. Gli avversari, che cercano di aggirare con piccole modifiche tali brevetti e marchi, non attuano una semplice difesa ma preparano contrattacchi.
   Perfino in casi banali come questi è comico sentir parlare di “economia sociale di mercato” dove prevarrebbe la cooperazione e il collettivo sentirsi cittadini di un’unica comunità (quale di grazia? La società mondiale intera o invece quella nazionale o di una certa area socio-culturale o che cosa? Certi personaggi pieni di ideologie trite e ritrite, talvolta anche di futile buonismo, dovrebbero pensare di più quando parlano)
[1]. La concorrenza è sempre o difesa o attacco, dove l’una prepara l’altro e viceversa. Le all
eanze – la cooperazione tra “giocatori” che si guardano sempre con sospetto, pronti a cambiarle ove ciò si dimostrasse conveniente – sono null’altro che strumenti per meglio affermarsi contro altre alleanze. L’unica società, in cui fosse possibile pensare ad una gestione collettiva dei mezzi produttivi (e quindi alla programmazione generale della produzione), era quella comunista. Questa era tuttavia teorizzata quale società strutturata da rapporti specifici, preparati proprio dalle dinamiche intrinseche alla formazione sociale capitalistica. Ho spiegato più volte che tali dinamiche – indicate da Marx con indubbio realismo, se riferite a ciò che aveva sotto gli occhi nella sola analisi del capitalismo inglese, l’unico veramente compiuto e predominante all’epoca de Il Capitale – non si sono realizzate, non potevano in realtà realizzarsi prendendo in considerazione la società mondiale con le varie formazioni particolari entrate in lotta per la supremazia, una volta declinata la preminenza centrale inglese.
 
   3. Nella società del capitale, cioè del mercato e dell’impresa, la sfera economica deve restare divisa apparentemente da quella politica per divenire il luogo della competizione produttiva, in cui possa svilupparsi in modo esponenziale l’efficienza e la produttività del lavoro assistito dalla scienza e dalla tecnologia in cui questa ricade. Il monopolio della forza viene assegnato al campo di un conflitto di altro tipo rispetto all’economico, conflitto che si sedimenta in apparati detti Stato, di cui è necessario assicurare un buon grado di coesione, pena la disgregazione dell’organo avente precisamente la funzione di impedire sfilacciature e strappi nella rete dei rapporti sociali in una data formazione particolare.
   E’ dunque evidente che lo Stato impone alla sfera economica determinate regole nel tentativo di impedire alle varie parti di quest’ultima (imprese e gruppi di imprese, ecc.) di competere usando la forza: intendendola in senso lato e quindi comprensiva dell’inganno, raggiro, menzogna, spionaggio, corruzione, ecc. Le regole emesse dallo Stato, in una visione puramente ideale, servono a costringere le unità “produttive” a competere fra loro sulla base dell’efficienza e dell’innovazione, che si vorrebbe garantissero il conseguimento della maggiore potenzialità di quel dato sistema economico e produttivo. E’ abbastanza logico pensare che la totale commistione tra la sfera dello Stato – con gli specifici conflitti che l’attraversano e che non devono scardinarlo e disgregarlo in quanto garante di quella data rete di rapporti sociali (ancor oggi fondamentalmente nazionale malgrado le varie chiacchiere in merito alla fine degli Stati nazionali) – e quella economica comporti l’ottundimento della specifica competizione (concorrenza) in quest’ultima, con progressiva perdita delle sue caratteristiche di efficienza e di spinta innovativa e propulsiva.
   E’ più o meno quanto accadde nel socialismo detto “reale”, dove la conflittualità economica fu totalmente sostituita da quella interna agli apparati di uno Stato fusosi con il partito di fatto unico (anche laddove esistevano finti partiti, che erano in realtà sue appendici esterne). Si è giunti infine, dopo i vari fallimenti, al cosiddetto “socialismo di mercato”, dizione del tutto impropria che copre una realtà tutt’altro che stabilizzata, in cui si cerca di coniugare due esigenze diverse, ma che si tenta di rendere complementari.
   Da una parte, si è riconosciuta l’effettiva tendenza della sfera produttiva a non andare affatto nella direzione di una cooperazione e di una effettiva generale programmazione (pianificazione) da parte dei “produttori associati”. Si è dunque riconosciuto il lato ineliminabile del conflitto, che coadiuva l’efficiente conseguimento di dati livelli di sviluppo ove lo si affidi a corpi particolari di “produttori” (imprese), al cui interno funzionino vertici direttivi dotati di potere gestionale (che tali vertici siano di tipo soltanto manageriale o anche proprietari è questione non inessenziale, ma secondaria). In definitiva, si tratta di quella strutturazione fondata su unità imprenditoriali che producono merci in concorrenza e che dunque conducono alla creazione concomitante della sfera finanziaria, con tutto ciò che essa comporta nella sua relativa (ma effettiva) autonomia dalla produzione, causa di disquilibri di notevole portata (con crisi) su cui non mi soffermo in questa sede.
   D’altra parte, si è di fatto assegnata alla competizione (concorrenza) economica un campo delimitato dai confini nazionali, riconoscendo appunto che tale divisione in parti della formazione sociale mondiale non è affatto superata malgrado tutte le menzogne raccontate in tema di “globalizzazione”, una ideologia fallace che ha coperto l’effettivo predominio mondiale statunitense dopo il crollo del “socialismo reale”; un predominio durato però, fortunatamente, assai poco (in termini storici), molto meno di quello inglese. Oggi, come solitamente si dice (sbagliando), “sono tornati” gli Stati nazionali. Nella competizione “globale” sono a confronto due “modelli” relativi alle varie formazioni particolari (nazionali): a) dei funzionari del capitale (americano), in cui i centri strategici politici – facenti capo a quel campo conflittuale, eppur unitario nei suoi diversi apparati, che è lo Stato – cercano, non sempre con successo, di indicare (e possibilmente imporre) alla propria formazione particolare le linee guida del conflitto contro le altre, lasciando tuttavia ampio margine di manovra alle varie unità (imprese) del sistema economico; b) del sedicente “socialismo di mercato” (veramente così lo indicano talvolta i cinesi, non invece i russi, meno ideologici in proposito), in cui il campo conflittuale detto Stato ha ben più cogenti poteri di indirizzo in sede internazionale e, di conseguenza, anche in quella nazionale, lasciando però alle imprese larghi margini per la competizione reciproca (mai scevra da alleanze o fusioni per meglio lottare) sul piano interno, e anche in ambito internazionale ove esse devono però sottostare ad una stretta sorveglianza affinché rispettino gli indirizzi fissati centralmente. 
 
   4. La strutturazione del sistema economico nelle varie parti del mondo (almeno in quelle che più contano nell’ambito della lotta reciproca a livello globale) è denominata ormai per lunga consuetudine capitalistica. Non esiste però la possibilità di fissare – se non sul piano di una prima estrema generalizzazione da cui non trarre alcuna semplicistica indicazione in merito alle dinamiche sociali – le connotazioni storico-specifiche della società contemporanea con riferimento pressoché esclusivo alla sfera economica (produttrice di merci); non è quindi più riproponibile il marxiano concetto di modo di produzione capitalistico i cui rapporti – pur se Marx (a differenza di molti “marxisti”) li considerò nella loro veste sociale – restano però confinati nella produzione in quanto base economica della società, di cui le altre istanze e apparati sarebbero sovrastrutture. Per quanto la sfera economica, nel capitalismo, abbia raggiunto una sua precisa autonomia e una configurazione particolare (totalmente diversa da quella di ogni altra epoca
storica), è errato considerarla in se stessa, quasi funzionante in base a date sue leggi (quelle dell’efficienza, cioè del minimo mezzo o massimo risultato), senza tenere conto che essa è invece, anche se assai più sottilmente che in ogni altra epoca, intrecciata e anche, in ultima analisi, sovradeterminata dalla politica, dalle strategie (di potenza) di cui quest’ultima è intessuta.
   Non ha più molto senso restare, come fece l’althusserismo, al concetto di modo di produzione, sia pure facendone una struttura comprensiva di sottosfere quali l’economica e la politico-ideologica, giocando poi sulle loro reciproche dominanze: della prima nel capitalismo concorrenziale, e della seconda nel capitalismo monopolistico e imperialismo, per di più con una generica “determinazione d’ultima istanza” da parte dell’economico. Si è trattato di un primo, rilevante ma timido e deficitario, processo di affrancamento dalla tradizione, che era arrivata ormai alle aberrazioni dell’economicismo o dell’egemonismo culturale, entrambi schematismi totalmente privi di efficacia interpretativa e di “guida” all’azione. Ci si arrestava comunque alla soglia del vero problema: il conflitto tra varie società ancora nazionali, che è divenuto sempre più evidente una volta esauritosi il movimento operaio (sempre stato interno comunque alla riproduzione capitalistica) e la lotta di liberazione nazionale di paesi sottoposti a dominazione coloniale e neocoloniale (confusa con quella imperialistica), dove le masse contadine realizzarono un’autentica rivoluzione, portando tuttavia al potere determinati gruppi dominanti, che si sono inseriti appunto nell’appena considerata dialettica conflittuale mondiale tra società nazionali.
   Meglio dunque rifarsi, almeno provvisoriamente, alla categoria di formazione sociale, distinguendo quella mondiale dalle sue parti componenti nazionali (o di date aree socio-culturali e politiche), che indicherò con il termine generale (e generico) di formazioni particolari. Nell’ambito di ognuna di queste funziona, piaccia o non piaccia, quel campo di conflitto avente caratteristiche specifiche, tali da non incrinarne la coesione, detto Stato. A questo punto è lecito trattare in linea generale la struttura (pensata teoricamente) dell’economia, formata da imprese e mercato, dove si lascia corso alla competizione tra le unità produttive in base a regole, che dovrebbero consentire l’esplicarsi dell’efficienza (principio del minimax) quale mezzo per procurarsi la maggior quantità possibile di risorse atte ad accrescere la potenzialità delle parti in lotta.
   Questa struttura economica, pensata in generale, è però sotto-ordinata rispetto ad una struttura di rapporti più alta, quella della politica, permeata dalle strategie di un conflitto che si serve della disponibilità di mezzi creata dall’economia, ma non rispetta il principio dell’efficienza (e quindi del calcolo a questa indirizzato), bensì quello dell’efficacia, del raggiungimento di un traguardo di supremazia, dove non basta il calcolo economico, ma sono necessarie altre considerazioni decisamente più elastiche, flessibili, singolari; nel cui ambito si compiono indubbiamente delle generalizzazioni al fine di trasmettere certi saperi strategici, consci però del fatto che il primo insegnamento è quello secondo cui ogni “battaglia” (in senso lato) ha momenti del tutto inediti e “sorprendenti”. E’ indispensabile un certo grado di intuizione delle “imprevedibilità”, non limitandosi alla rigida razionalità, che va usata semmai ex post per valutare gli effetti delle mosse “a sorpresa” – anche in base alle reazioni degli avversari – e per effettuare eventuali correzioni di rotta, durante le quali saranno indispensabili altre mosse dello stesso genere e….. così via.
   La struttura (sempre una costruzione teorica) della politica è sovra-ordinata rispetto a quella dell’economia, ma ha un ambito spaziale più ristretto, nel senso che è suddivisa nelle diverse formazioni particolari (quasi sempre ancora nazionali). Ed è suddivisa in queste partizioni specifiche proprio perché essa esprime al suo massimo grado la potenza del conflitto per la supremazia. Contrariamente a quanto pensano tutte le ideologie formulate in epoca capitalistica – dal liberalismo al marxismo, ecc., tutte affascinate dalla nuova dinamica esponenziale assunta dallo sviluppo economico rispetto alle altre epoche storiche – il livello più alto della società è ancora, come in tutta la storia conosciuta, quello della politica, quello del conflitto di strategie per assumere la preminenza. Certamente, quest’ultimo si serve, come non mai prima, della sfera economica quale sua fornitrice di mezzi; l’economia è però strumento della politica, non viceversa come nell’aspetto superficiale può apparire.
   Non vi è dubbio che il complesso problema che qui si apre deve essere sottoposto a nuove ampie analisi (teoriche e storiche insieme). Tuttavia, per semplicità mi attengo qui al fatto che – per sfruttare adeguatamente l’economia quale fonte di crescente potenziamento, tramite alimentazione in mezzi, delle parti in lotta – si andarono creando gli Stati nazionali, in quanto campi di un conflitto particolare tra gruppi dominanti, campi da mantenere coesi, ricorrendo se necessario all’uso della forza esercitato dai ben noti “distaccamenti speciali di uomini in armi”. Grosso modo, la nascita di Stati, che si riconoscono reciprocamente in quanto tali, si ha alla fine della guerra dei trent’anni (pace di Westfalia del 1648); processo molto precedente alla definitiva e stabile affermazione del capitalismo che si ha con la “Rivoluzione industriale”. Questi brevissimi cenni storici sono certo molto carenti, ma mi interessava giungere ad alcune conclusioni, dando per scontato che ormai da anni sono “tornati” (in realtà, mai sono spariti) gli Stati nazionali, questi campi del conflitto tenuti coesi mediante il monopolio della forza loro riconosciuto.
 
   5. Si ipotizza dunque teoricamente che la struttura economica della formazione mondiale sia fondamentalmente quella detta capitalistica, costituita da una rete di conflitti tra unità produttive (imprese), dove la rete in questione è il luogo denominato mercato (poiché la produzione capitalistica è appunto produzioni di merci, scambiate tramite uso dello strumento monetario). La formazione mondiale è suddivisa in tante particolari, ancora per l’essenziale nazionali, in cui la struttura politica (quella dal marxismo considerata sovrastruttura) è sovra-ordinata alla economica, con cui ha più o meno stretti intrecci e dunque interazioni. La struttura economica è un campo di conflitti in cui si assegna largo spazio a scelte fondate sul calcolo del minimo mezzo o massimo risultato (l’efficienza, detta non a caso economicità). Nella struttura politica il campo del conflitto è caratterizzato – come si vede con massima chiarezza nel suo “prolungamento” bellico – dalle contrapposte strategie in cui si persegue l’efficacia delle “mosse a sorpresa” per scompaginate il campo avversario e conseguire infine una supremazia, più o meno duratura e stabile o invece momentanea e oscillante.
 
  Le ideologie dei dominanti nella società capitalistica (purtroppo seguite in questo da quelle critiche anticapitalistiche), attenendosi alla superficie dei fenomeni, hanno assegnato la preminenza alla struttura economica e al conflitto fondato (apparentemente) sul calcolo efficientistico del minimax, utile comunque per l’esponenziale crescita – sia pure a onde cicliche per motivi oggettivi che qui tralascio (in gran parte legati al dualismo tra produzione di merci e “produzione” di moneta che si autonomizza rispetto alla precedente) – dei mezzi a disposizione delle varie manovre conflittuali nei loro campi specifici, economico e politico. L’abbondanza di mezzi è ovviamente importante, ma non può supplire all’eventuale carenza strategica, ove questa si faccia grave, anche perché indotta spesso dall’avversario con opportuni mezzi di “paralisi” delle capacità di reazione.
  L’intreccio tra struttura politica (spazialmente delimitata nelle differenti formazioni particolari) e struttura economica (all’apparenza più generalizzabile in senso spaziale fino alle ciance circa la “globalizzazione” mercantile) è più o meno stretto e cogente. In ogni caso, è l’aspetto strategico politico a prevalere su quello del calcolo “razionale” economico. Si hanno però diverse intensità di intreccio, in specie per quanto concerne la preminenza del politico (e dei suoi centri strategici in lotta) sull’economico (con le sue varie imprese in concorrenza); oggi, ad esempio, da una parte sta il “modello” Usa e dall’altra quelli russo e cinese (pur con varianti fra loro). Come in ogni intreccio, che implica interazione reciproca, si hanno flussi “ascendenti” dalla struttura economica a quella politica e “discendenti” in senso contrario. I due tipi di conflitto (strategie e concorrenza mercantile) si compenetrano dunque, spesso si confondono, e tale confusione facilita la presa dell’ideologia dei dominanti (e dei critici anticapitalistici vecchio stampo) tesa a celare il fulcro del problema conflittuale e le determinanti essenziali situate “sotto” (metaforicamente parlando) il suo manifestarsi “in superficie”.
   Le imprese – quanto maggiore è la loro dimensione, e soprattutto il loro raggio d’azione, grossolanamente rappresentato in termini solo quantitativi dalla cosiddetta quota di mercato – tendono a coinvolgere la struttura politica, e lo Stato che la rappresenta al suo massimo livello, nella loro competizione. Anche per le imprese, quindi, il riferimento all’attività affidata esclusivamente al management di gestione (i vertici direttivi che funzionano soprattutto in base al minimax) è ingannevole. Rilevante è nelle “grandi imprese” il management strategico che s’intreccia con la struttura politica (e dunque lo Stato). In quella competizione tipica della struttura economica detta concorrenza non può quindi non insinuarsi sempre, in dosi più o meno massicce, il conflitto caratteristico della struttura politica che è quello delle strategie, e che usa la forza con il suo corteggio di inganno, raggiro, corruzione, menzogna, ecc. Naturalmente, uno dei risultati dell’intreccio tra le due strutture è proprio quello che riassumo in questo succinto esempio: una impresa o alleanza di imprese, nella sua corrente ascendente verso la sfera politica, si intreccia con certi poteri di quest’ultima (mettiamo dati partiti con pezzi di magistratura al seguito) e fa si che da questi prenda avvio la corrente discendente persecutrice, a suon di “regole” e impedimenti vari, di un’altra impresa o alleanza di imprese (mettiamo, appunto, la Finmeccanica o l’Eni, ecc.).
   Abbiamo detto che sia nel “modello” Usa che in quello russo o cinese è, tendenzialmente e in ultima analisi, la corrente discendente dalla struttura politica, con al suo vertice il campo del conflitto detto Stato (e i suoi apparati, ecc.), a prevalere su quella ascendente che sale dai vertici del management strategico-imprenditoriale. Tale prevalenza è senza dubbio maggiore nel “modello orientale” che in quello “occidentale”. Non sembra affatto trattarsi di una questione semplicemente quantitativa, di diversa intensità delle due correnti, ma proprio di una qualitativa differenza dell’intreccio tra struttura economica e politica nei due “modelli”. Su questo c’è però ancora moltissimo da fare e non posso qui nemmeno accennare ad un simile immane lavoro di analisi (ripeto: teorica e storica).
 
   6. Sembra soltanto possibile schematizzare quanto segue in riferimento al rapporto tra le due strutture. Se si guarda solo a quella economica, si cade in tutte le banalità – alcune raccontate, io credo, in perfetta malafede e anche da critici “ultrarivoluzionari” del capitalismo, in specie sedicenti “comunisti”, ormai i peggiori in circolazione, i più venduti e adusi ai più bassi servizi perché strabattuti, “fuori della storia”, rottami umani e quindi pericolosi – circa la globalizzazione, la fine degli Stati nazionali, l’imperversare delle “malefiche” multinazionali; magari soprattutto quelle che “rovinano l’ambiente”. Se si pone invece come preminente la struttura politica, se si considera al suo vertice lo Stato – e lo si pensa quale campo di conflitto condensatosi in apparati, tra i quali ci si sforza di mantenere la coesione al fine di non indebolire il suo uso monopolistico della forza – il quadro cambia completamente.
   Non esiste un unico, mondiale, campo del conflitto puramente economico; soprattutto virtuoso perché affidato ad una competizione in cui ogni impresa cerca di vincere nel campo dell’efficienza (il minimax) con grande vantaggio per tutti i “consumatori”. Questo concetto di “consumatore” è il più grande inganno forgiato dall’ideologia dominante. Non a caso, tutti gli “ultrarivoluzionari” critici del capitalismo, come tutti i “pacifici” e “buoni” suoi riformatori, hanno infestato il campo con questo “consumo”. Abbiamo avuto la “riappropriazione proletaria” (il semplice furto nei supermercati), ci sono ancora le varie associazioni dei consumatori (tutte da sciogliere per impedire ad una masnada di “magnoni ad ufo” di continuare a mentire e mettere in agitazione “il popolo”), c’è il consumismo messo sotto accusa sullo stesso piano del “disagio della civiltà”; e tutte le altre sciocchezze legate alla necessità di ritrovare stili di vita più antichi, tradizionali, frugali, morigerati e quant’altre futilità di ideologi di dubbio valore.
   Per fortuna, ci si può aspettare la fine di queste ideologie e degli intellettuali degenerati degli ultimi decenni nel giro di una ventina d’anni, perché sta tornando in pieno vigore la politica delle potenze dove contano i rapporti di forza. E conteranno nella lotta, oggi non solo prevalente ma purtroppo pressoché esclusiva, tra dominanti; e – un domani, almeno si spera – in quella tra questi e i raggruppamenti sociali subalterni che hanno per il momento ben poca voce in capitolo. E’ necessario seguire con attenzione la lotta tra i dominanti, che non rappresenteranno mai un blocco unico, neppure in sede nazionale; tanto meno però su quello internazionale, e sempre meno man mano che avanzerà l’epo
ca multipolare. Il conflitto tra le varie formazioni particolari caratterizzerà l’epoca futura, malgrado gli ideologi e il personale politico politicante faranno il possibile per far credere che il problema si gioca nel mercato globale, con l’introduzione di correttivi “sociali” nei vari ambiti nazionali. Ci saranno molte riunioni dei vari G (in particolare diverrà assai probabilmente preminente quello dei 20) per fingere una cooperazione a livello di mercato mondiale e di politiche economiche “comuni”.
   Data la specifica dinamica della struttura economica – che riguarda più direttamente il tenore di vita delle popolazioni – questa verrà sempre sbattuta sul palcoscenico, con il pieno accordo dei falsi critici del capitalismo, che assolveranno in pieno la loro funzione reazionaria di nascondimento dei reali luoghi del potere dei dominanti
[2]. Anche il vecchio conflitto capitale/lavoro verrà sfruttato dai sindacati – in quanto apparati del campo di conflitto detto Stato – per giocare la loro disperata partita di sopravvivenza in combutta (mai certo priva di frizioni a volte anche aspre, tipiche della “lotta tra gang”) con i gruppi dominanti più arretrati e parassitari della struttura economica. Dobbiamo stare molto attenti a questi “trucchi” perché vi si scontreranno due esigenze contraddittorie: la giusta lotta di vasti strati sociali (a volte si tratta di lotta di retroguardia ma da non trascurare) per difendere le loro condizioni di vita e di lavoro (che non è solo quello salariato, dipendente); e lo sfruttamento di tali lotte da parte di apparati del campo conflittuale dello Stato, che spesso appoggeranno appunto i più parassiti tra i gruppi dominanti nella struttura economica.
 
   7. Il problema decisivo – per gli effettivi critici della situazione che si sta venendo a formare nell’attuale fase tendente al multipolarismo – è quello di mettere in evidenza gli effettivi luoghi della lotta per la supremazia tra i vari gruppi dominanti, soprattutto in questa fase in cui si combatterà tra le potenze una “guerra” sotterranea e ambigua, piena di trappole e compromessi, dove apparenza e realtà saranno costantemente disgiunte e spesso contrapposte. Bisogna battere in breccia le tesi ideologiche che mettono in primo piano la struttura economico-produttiva. Questa ovviamente, data la produzione di merci, si duplica in quella finanziaria, assai più elastica, flessibile, dotata di un sempre notevole grado di autonomia rispetto all’altra.   I fenomeni di crisi, da sempre, si sviluppano a partire dalla sfera finanziaria; per cui quasi tutti, compresi quelli che si dicono anticapitalisti, si buttano a pesce sui problemi finanziari, in un’orgia di deviazioni dalla retta comprensione di che cosa si stia giocando da parte dei reali attori: i centri strategici dei dominanti che agiscono sia nella lotta interna (nazionale) sia in quella a livello mondiale.
   Dal più bieco economicismo si passa, con facilità estrema, al vacuo sociologismo o al puro utopismo del tutto ineffettuale nella sua banale critica del consumismo, della rovina della natura, ecc.; la soluzione proposta non è mai seguire e capire la lotta tra dominanti, ma battersi per una nuova “morale” di frugalità, di salvaguardia della “nostra specie” (aggredita pure dalle nostre scoperte biologiche “diaboliche”), ecc. ecc. Tra qualche decennio, o magari assai meno, ci si troverà in nuovi conflitti duri (non credo del tipo delle guerre novecentesche, ma non certo più piacevoli di queste) e avremo ancora i comici intellettuali “da Medioevo” che predicheranno l’arresto della scienza, della tecnologia, senza accorgersi che i dominanti si servono di loro per sottomettere meglio quelli che non decidono nulla, ma che si dedicheranno con maggior vigore al tentativo di “salvare” la natura, che ululeranno contro i consumi e, naturalmente, contro la TV e i media, perché anche la “società dello spettacolo” è un’altra delle varie ideologie che hanno di fatto precluso la strada alle serie indagini e riflessioni sulle mene realmente compiute dai dominanti nella loro reciproca lotta, oggi in sviluppo soprattutto nella forma del conflitto multipolare tra potenze.
   Non si dia più alcun credito a ideologi e ideologie “salvifiche”. Si prendano invece in attenta considerazione i rapporti di forza che si stanno configurando nella nuova fase storica. La centralità va attribuita alla struttura politica, e quindi alle strategie di conflitto, per come influiscono e modificano quella economica, piegandola alle esigenze della battaglia a favore di questo o quel gruppo di dominanti. Tale struttura economica (e finanziaria in specie) non è ovviamente una “macchina” che si guidi docilmente dove si vuole. Non è però docile soprattutto perché i “guidatori” sono in buon numero, pur dotati di poteri differenti; e ognuno, sotto le esigenze (reali) di una certa collaborazione, tende in ultima analisi a conseguire i suoi scopi o di supremazia o almeno di salvaguardia del massimo possibile delle sue posizioni nel campo dei rapporti di forza. Tale problematica è quella cui dedicare le nostre analisi.   I tempi sono ormai in deciso mutamento e i “fatti” dimostreranno il completo fallimento del ceto intellettuale “occidentale” di questi ultimi 30-40 anni con il suo chiacchiericcio e le sue reiterate e invereconde svendite ai dominanti più reazionari.
   Come abbiamo sopra rilevato, la struttura politica, suddivisa in vari ambiti spaziali definiti dalle formazioni particolari, tende a prevalere nell’ambito del suo indubbio intreccio, comunque interattivo, con quella economica, di cui è relativamente agevole predicare una configurazione generale in base alla forma del mercato come luogo della competizione (concorrenza) tra imprese e gruppi di imprese. La predominanza dell’elemento strategico sul calcolo efficientistico (economico) è la prevalenza dei centri politici in conflitto per la supremazia rispetto alla concorrenza basata sul migliore uso delle risorse per ottenere il massimo possibile di profitti. I profitti sono, in ultima analisi, piegati alla battaglia per primeggiare.
   Nelle aree – talvolta l’intero globo; spesso invece determinati spazi socio-economici più o meno vasti – in cui sussiste un insieme di gruppi dominanti nazionali che funzionano, pur tra “guerricciole” intestine minori, da centro coordinatore di quel dato spazio (la “zona di influenza” di quell’insieme nazionale di gruppi dominanti), il predominio della politica, e della strategia, si cela facilmente sotto l’apparente lotta economica nel “libero mercato”, dove si pretende funzionino le semplici leggi dell’efficienza calcolistica. Quando lo spazio “globalizzato” comincia ad apparire concretamente suddiviso in ambiti più ristretti (al limite, le nazioni o i paesi) – ognuno dei quali entra in conflitto con gli altri per affermare la propria supremazia in determinate parti del mondo (al limite nel mondo intero), e questa è appunto la situazione multipolare o policentrica – sempre più viene in evidenza il peso decisivo dell’elemento strategico della politica rispetto al mero calcolo economico della competizion
e interimprenditoriale nel mercato, che serve di fatto quale strumento di raccolta di risorse per l’altro tipo di lotta
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   Poiché la preminente struttura politica è suddivisa spazialmente (le formazioni particolari o alleanze fra queste per il conflitto), e non si presta ad essere trattata esclusivamente in generale, è logico che anche la “sottostante” struttura economica, subordinata alle strategie della prima, va analizzata più puntualmente, di fase storica in fase storica, secondo i rapporti che le differenti parti d’essa intrattengono con quella politica afferente alle diverse formazioni particolari. Ci si può dimenticare di una simile analisi, divisa secondo le compartimentazioni spaziali della struttura economica, soltanto in un’epoca monocentrica dove esiste una formazione sociale (un paese) che gioca il ruolo di regolatore “generale” del contesto globale.  Non appena si ripresenta il multipolarismo o policentrismo, la dimenticanza delle suddivisioni spaziali conduce a quelle ideologie che tentano ancora di supportare la vecchia predominanza centrale (tipo la ricardiana “teoria dei costi comparati” funzionale al monocentrismo inglese). Chi si oppone a questo monocentrismo o monopolarismo ha l’obbligo di battere in breccia simili ideologie e di formulare nuove mappe orientative, che tengano conto della preminenza della struttura politica nel conflitto interdominanti per la supremazia.
In ogni area in cui predomina una certa formazione particolare o nazionale – ad es. gli Usa che ancora sono il centro preminente nell’area Stati Uniti-Europa – si deve tenere conto che la formazione centrale impiega la forza politica (con le sue strategie) per dirigere la struttura economica dell’intera area egemonizzata. Essa tenta di imporre – come già l’Inghilterra nella prima metà dell’800 – una struttura economica, trattata ideologicamente nelle sue forme generali (impresa e mercato), ma in realtà spazializzata secondo le seguenti connotazioni: al centro, le industrie strategiche e di punta, la ricerca avanzata scientifica e le sue applicazioni alla tecnologia; nei vari cerchi “concentrici” della struttura economica relativa all’area complessiva, le industrie di passate epoche dello sviluppo capitalistico. Anche la sfera finanziaria deve allora essere intrecciata, in modo subalterno, agli apparati del centro.
   Evidentemente, nelle formazioni particolari subordinate ad una centrale viene continuamente ostacolato e anche impedito (possibilmente con metodi “democratici”, oppure altrimenti) ogni anelito di maggiore indipendenza, che non può che essere innanzitutto politica. E’ dunque necessario che la struttura politica, in tali formazioni nazionali, sia subordinata ai centri strategici del paese predominante. Poiché non è più all’ordine del giorno la vecchia colonizzazione, è necessario predisporre precisi centri dominanti (o meglio subdominanti) al servizio della struttura politica dei predominanti. Se il controllo deve restare mascherato rispetto alle “popolazioni”, è indispensabile agire in due direzioni: controllo segreto e sotterraneo degli apparati di forza nelle formazioni dei subdominanti, e preminenza della struttura economica su quella politica in queste ultime. Fondamentale è impedire che in esse si formino centri politico-strategici in grado di condurre una politica di maggiore indipendenza e autonomia.
   Quando si entra nel multipolarismo, si sviluppa l’azione di ogni polo in direzione delle diverse formazioni particolari (nazionali), l’eventuale predominio sulle quali costituirebbe un allargamento della propria zona d’influenza o quanto meno un contrasto all’allargamento di quelle dei poli avversari. Il tutto comporta un bailamme di azioni e reazioni, di alleanze più o meno durature o provvisorie e di cambiamento delle stesse, ecc. Certi paesi possono però restare ai margini di tali zone, lottando quindi per mantenersi aperte diverse prospettive nel multilaterale gioco delle potenze.  Per conseguire tale fine è tuttavia indispensabile la formazione di organizzazioni politiche in grado di costituire autonomi (in senso nazionale) centri emananti efficaci strategie tese al raggiungimento dell’obiettivo mirato.
 
   8. Le note prevalentemente (solo in apparenza) teoriche, che precedono, sono in realtà dettate dall’esigenza di comprendere l’attuale fase storica e quanto può accadere in particolare nel nostro paese; anzi quanto già accade se si tiene presente il punto da cui siamo partiti, l’attacco di una magistratura assolutamente non neutrale alla Finmeccanica, e tutte le altre mene condotte contro l’Eni per i suoi rapporti con la Gazprom, corollario delle quali è l’incessante polemica di certi ambienti politici e giornalistici – che, leggendo la lista dei partecipanti italiani a quella cosca filoamericana che è il Bilderberg, si afferra con facilità a quali gruppi dominanti finanziari e industriali facciano riferimento – contro i rapporti tra Berlusconi e Putin. L’Italia è una tipica formazione particolare facente parte dell’area a predominio Usa; essa rappresenta un anello particolarmente debole e sensibile per chiudere a tenaglia, assieme all’Inghilterra (già sostanzialmente vassallo degli Stati Uniti), la UE onde impedirle di slittare verso altre potenze oggi in crescita nel mondo in tendenziale multipolarismo.
   Se teniamo conto di Israele – altra formazione legata agli Usa per continue provocazioni nella zona in cui creano problemi alla predominanza statunitense l’Iran e, oggi sempre più, la Turchia – abbiamo un’ulteriore conferma dell’importanza assunta dall’Italia per il paese centrale dell’area “atlantica” e “occidentale” (diciamo genericamente così, tanto ci si capisce). La formazione particolare (nazione) italiana è un esempio preclaro delle note teoriche esposte sopra e che richiederanno ulteriori notevoli approfondimenti.
   Uno dei punti nodali – per cui assai rilevanti appaiono al momento le difficoltà di una nostra politica tesa ad una decisa autonomia – è la presenza di apparati dello Stato, con particolare riferimento a quelli di gestione della forza, molto probabilmente poco “fedeli” alla nazione e sensibili invece al paese “atlantico” predominante. Questo punto resta costantemente nascosto alla vista. Tutto viene presentato nella chiave del nostro sistema economico che, a seconda di punti di vista opposti ma egualmente miopi e meschini, viene esaltato o, al contrario, ritenuto troppo poco competitivo. L’attuale crisi sembra inoltre venuta a fagiolo per occultare ancor di più il punto focale in questione. Si pensa alle manovre per rientrare dal debito e dal deficit, si pensa alle indicazioni della UE; poi ci sono quelli di “sinistra” che criticano le manovre governative, restando comunque prigionieri della stessa ottica di politica meramente economica o comunque di dettaglio (qualche “albero”, ignorando del tutt
o la “foresta”). Al massimo, qualcuno avanza “temi sociali” di un’epoca tramontata da decenni. Ovviamente, in una situazione del genere le cosiddette lobbies finanziarie (legatissime agli Usa come quelle della malfamata Repubblica di Weimar) e industriali – al cui vertice sono situati soltanto i rappresentanti di passate stagioni dell’industrializzazione, mentre i settori di punta sono sottoposti a continuo attacco – assumono una netta preminenza rispetto alla sfera politica, dove quindi è impedita la formazione di nevralgici centri strategico-decisionali in grado di condurre all’indipendenza.
   La questione principe, che si pone perciò nel nostro paese, è lo smascheramento del gioco (in altra occasione detto “degli specchi”) in cui un ignobile ceto politico – coadiuvato da infami intellettuali e “tecnici” (si pensi agli economisti e politologi in primo luogo), che hanno il predominio in quei centri di cultura da subalterni che sono le Università, nell’editoria, nei giornali e TV, ecc. – si pone al servizio dei disgustosi ambienti (da me detti “confederati”, per motivi spiegati più volte nel blog) della finanza e dell’industria (dei settori parassiti e non di punta, non strategici) a loro volta mero tramite della preminenza statunitense. Questi politici e intellettuali assumono posizioni differenziate, ridicolmente etichettate come “destra” o “sinistra”, ma sono una gran massa di opportunisti e venduti ad una potenza “straniera”.
   Per batterli occorre mettere al centro dell’attenzione la creazione di una nuova forza politica e culturale (fuori dalle istituzioni e apparati finanziati dai suddetti ambienti servili verso gli Stati Uniti), che dichiari guerra aperta a “destra” e “sinistra”, appoggiando esclusivamente chiunque accenni a disporre le pedine in vista di una ristrutturazione dei “corpi speciali” gestori della forza (e della sedicente “giustizia”); una ristrutturazione tesa innanzitutto ad impedire che vengano distrutte anche le minime basi (tipo Eni e Finmeccanica) della nostra indipendenza. Dobbiamo lanciare la nostra politica verso est e verso sud, scontrandoci se necessario con Usa e Israele e rifiutando la prospettiva di essere, con l’Inghilterra, una delle ganasce della tenaglia con cui gli Usa vogliono tenere subordinata l’Europa, in particolare i suoi paesi più importanti e “pesanti” (economicamente e politicamente).
   Come blog e come gruppo culturale dobbiamo imparare a collegarci con tutti coloro che perseguono, per il futuro, tali finalità, senza più basarci sulle contrapposizioni su cui artatamente puntano e “destra” e “sinistra” per impedire che si arrivi ad una simile organizzazione capace di svolgere una politica autonoma, di difesa del nostro paese in collegamento con tutte le forze che si muovono nella direzione del multipolarismo. Chiunque, qualsiasi etichetta si metta, lavori per tenerci di fatto sotto gli Usa, chiunque appoggi azioni contro i nostri settori di punta e strategici, chiunque voglia danneggiare i nostri rapporti verso est (Russia e Cina in primo luogo) e verso sud (Iran, Turchia e forze arabe che non siano semplici Quisling degli Usa), è chiaramente da combattere.
   Questo il compito politico e culturale. Tuttavia, da simili necessità di fase deve nascere anche una nuova più approfondita (e più ampia) teoria, di cui in questo piccolo saggio ho semplicemente indicato alcune sommarie linee guida.
 
[Finito il 10 giugno 2010 (settantennale dell’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale)]
 
   P.S. Pur se esula dalla problematica trattata in questo scritto, voglio ricordare la risoluzione adottata ieri dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU circa le sanzioni all’Iran. Interessante che abbiano votato contro Brasile e Turchia. Russia e Cina hanno invece votato a favore; successivamente vi è però stata una dichiarazione quanto mai ambigua e non proprio “determinata” dell’ambasciatore russo in quella sede. E’ facile ricordare l’ineffettuale risoluzione della Società delle Nazioni sulle sanzioni contro l’Italia per la sua impresa in Etiopia. Risoluzione voluta dalle potenze coloniali per contrastare la pretesa italiana di avere le sue; così come oggi gli Stati dotati di ordigni nucleari vogliono impedire all’Iran di accedervi nel mentre nulla dicono dell’armamento atomico di Israele.
   L’ONU è ormai avviata alla stessa fine della Società delle Nazioni. I tempi saranno un po’ più lunghi solo perché gli Usa dispongono tuttora di una relativa preminenza rispetto alle altre potenze in crescita (Russia e Cina in testa). Tuttavia, i gruppi dominanti di tali potenze, nell’odierna fase di avvio sempre più deciso verso il multipolarismo, mostrano con speciale evidenza la loro “lingua biforcuta”, i loro reciproci inganni e raggiri. La fase è chiaramente caratterizzata dalla maturazione, in tempi storici, di quei contrasti sempre più acuti e infine insanabili tra dominanti, che rappresentano nel contempo l’accumularsi delle reali possibilità di “rivolta” delle classi subalterne con autentici salti d’epoca della formazione sociale nel suo complesso: sia mondiale che nelle sue varie particolarità nazionali (i paesi).
   Ci si deve porre all’altezza di questi tempi. Calci in “quel posto” a coloro che si attardano sulle caratteristiche di una fase storica ormai tramontata. In questo “occidente”, ceto politico e ceto intellettuale si sono ormai coperti di ridicolo e di pattume d’antan. Li si combatta a viso aperto, senza più farsi ingannare dalle false dicotomie: destra e sinistra, fascismo e antifascismo, liberismo e statalismo, conservazione e progressismo, ecc. Questa è ormai cialtronaggine pura, servilismo di opportunisti venduti alla potenza predominante dell’area “atlantica”, “occidentale”. Si dovrebbe arrivare a metterli sotto processo per “alto tradimento”; altrimenti saremo condannati ad una perpetua servitù e ad essere usati quali basi logistiche e “carne da macello” per gli interessi statunitensi, che prima o poi si scontreranno veementemente con le altre potenze oggi in crescita.     

 
           

 



[1] Mi sono dovuto sorbire oggi (31 maggio) un penoso articolo di Veneziani, uomo pur intelligente, che sembra quasi “veltroneggiare”. Questa destra è succube culturalmente di certa sinistra, in genere di quella peggiore,
quella utopica. Basti ricordare come certuni avevano tentato di impadronirsi di Gramsci, “buffoneggiando” sul concetto di egemonia, che nel nostro grande sardo era leninisticamente corazzata di coercizione. Questi ex fascisti non si sa bene che cosa tentino di farsi perdonare. Rinuncino soltanto al nazionalismo acceso, all’eccessivo attaccamento alla Tradizione (piuttosto superficiale ormai), all’aggressività imperialistica e “colonizzatrice”. Non invece alla realistica considerazione dei rapporti di forza e al riconoscimento, quando se ne dà inconfutabilmente il caso, dello “Stato di eccezione”. Essendo stato comunista, resto orgoglioso della Rivoluzione d’ottobre (reinterpretandola adeguatamente) e del leninismo in quanto appunto considerazione dei rapporti di forza e lotta per i propri ideali mai disgiunta dalla lucida valutazione delle condizioni oggettive relative ad una specifica congiuntura.

[2] Ci si abitui a vedere fior di manutengoli (dei dominanti) di sedicente formazione (pseudo)marxista tra i vari “tecnici” che blaterano in TV, sui giornali, tra i cooptati in uffici studi delle banche, di certe industrie, ecc. Si tratta di fenomeni già vissuti, ma che assumeranno nei prossimi tempi – dato il completo fallimento storico del “marxismo” (non quello di Marx, praticamente mai esistito “nella prassi”) e del socialismo (solo uno statalismo più o meno totale o attenuato “riformisticamente”) – un rilievo notevole. Avremo a che fare con episodi di reazionarismo particolarmente disgustoso e retrò. Ormai questi pur ristretti settori di un’intellettualità buffonesca e cialtrona giocano le loro ultime carte a favore dei gruppi dominanti (e delle potenze) che rappresentano la conservazione più bieca, il servilismo più puro nei confronti dello “straniero” (il loro vecchio retaggio dell’internazionalismo proletario serve mirabilmente al tradimento totale degli interessi nazionali). Sono fra i nostri peggiori nemici mentre altri potranno essere alleati almeno “tattici” (e per un periodo di tempo abbastanza lungo). I “comunisti” e i “marxisti” sono da evitare come la peste. 

[3] Sia chiaro che tale evidenza è di sistema, appare agli occhi di chi guarda al complesso della situazione. E’ ovvio che nessun gruppo imprenditoriale si sente strumento, pensa invece di essere quello che, vincendo nella concorrenza, conquista la posta in gioco: cioè il profitto e l’accumulazione di capitale. Il grande imprenditore (industriale o finanziario, quello che è in ogni caso uno stratega sia pure nella concorrenza in ambito mercantile) è però spesso consapevole dell’importanza dell’appoggio conquistato nella sfera in cui si muovono i decisivi centri strategico-politici di carattere nazionale, che guardano all’insieme del conflitto mondiale.