RITAGLI DI GIORNALE – 05.05.2015 di Malachia di Armagh
Si continua a discutere di democrazia in Italia e intanto ieri è stata approvata la nuova legge elettorale, il cosiddetto Italicum. Ma come si può intuire, tra l’altro, anche dai miei ultimi post una definizione condivisa dell’idea di democrazia, delle forme democratiche nell’epoca contemporanea, mi pare sia difficilmente rintracciabile. In Italia ci si rifaceva a Bobbio e a Sartori principalmente ma se guardiamo la faccenda da una prospettiva globale le posizioni si moltiplicano sino a un livello di reciproca incomprensione. L’ultimo Hayek trovava nell’illimitato potere attribuito agli organi rappresentativi investiti della funzione legislativa la manchevolezza principale del regime democratico. I legislatori, custodi delle regole fondamentali del diritto, delle regole di condotta imprescindibili per una società liberale – concernenti quasi esclusivamente quelle partizioni dell’ordinamento giuridico attinenti al diritto privato e a quello penale – dovrebbero limitarsi a costituire, elaborare e garantire il nomos , quell’insieme di norme generali che sono indispensabili per il funzionamento corretto dell’ordine spontaneo catallàttico o ordine esteso di mercato insomma del modello idealtipico di società liberale concettualizzato dalla scuola austriaca e in fondo anche dagli ordoliberali alla Eucken (vedi in proposito gli interessanti rapporti intercorsi tra i due capiscuola (1)). Le norme necessarie per il governo della società da parte degli apparati statali nelle situazioni normali, ovverosia nella quasi totalità delle incombenze – compresa la stesura e l’approvazione del bilancio e le linee generali della politica economica – dovrebbero spettare ad un organismo governativo-esecutivo con piena, anche se definita e limitata, attribuzione di funzioni legislative. Insomma all’ordine spontaneo metagiuridico deve corrispondere in maniera complementare un ordine organizzato dall’alto in vista di un fine determinato, al quale l’individuo è sottomesso. Detto in altri termini, la contrapposizione è quella fra istituzione e organizzazione, o – per usare i termini della filosofia del diritto – fra “norme di condotta” e “norme di organizzazione”. L’ordine organizzato e esogeno (taxis) è semplice, cioè caratterizzato da un moderato grado di complessità, imputabile – secondo i principi dell’individualismo metodologico – alla scarsità e frammentarietà delle conoscenze di chi lo ha deliberatamente creato; inoltre esso ha natura teleologica, nel senso che è diretto alla realizzazione di scopi specifici; infine, è concreto, cioè rilevabile attraverso l’osservazione. E qui chiudo questa “pallosa” premessa tesa solo a far notare che la nozione di democrazia non può assolutamente essere rinchiusa in una qualunque versione paradigmatica “ortodossa” protetta da padri nobili carismatici del tipo di Bobbio, Rawls, Habermas e chi più ne ha più ne metta. Ritornando alla congiuntura italiana torniamo per l’ennesima volta agli editorialisti dell’ establishment dominante. Il solito Panebianco scrive sul Corriere (19.04.2015):
<<Poiché, come è noto, la storia non insegna mai niente a nessuno, sembra che oggi molti si apprestino a commettere, di fronte a Renzi, gli stessi errori che altri commisero durante la cosiddetta Prima Repubblica, quando giudicavano le performance dei governi della Democrazia cristiana. Allora, tanti commentatori, e tanti agitatori politici, si specializzarono nella critica del (vero o presunto) «malgoverno democristiano». Senza rendersi però conto del fatto che quel malgoverno dipendeva da una circostanza: la Dc non poteva perdere le elezioni, era inamovibile, e proprio per questo poteva dedicarsi in tutta tranquillità a ciò che i suoi critici chiamavano malgoverno. La ragione della sua inamovibilità aveva un nome preciso: quello del Partito comunista. Poiché il Pci era al tempo stesso il più forte partito di opposizione e un’opposizione non credibile, incapace di vincere le elezioni, la Dc restava per l’appunto inamovibile, impunibile e impunita. Chi ce l’aveva con la Dc, in realtà, avrebbe dovuto prendere di petto il Partito comunista, avrebbe dovuto augurarsi che quel partito cessasse di essere il principale partito d’opposizione. Solo così, un giorno, si sarebbe potuto sconfiggere elettoralmente la Dc. E solo così i democristiani, temendo di perdere il potere, si sarebbero sforzati di migliorare la propria capacità di governo.
Oggi si fanno troppe chiacchiere su presunti sviluppi autoritari alle porte. Non è affatto quello il rischio che corre la democrazia italiana. Il rischio è quello di un governo Renzi senza rivali plausibili, spinto a mal governare (poiché mal governare è sempre molto più facile che governare bene) dall’assenza di serie sfide elettorali>>.
L’articolo recente di La Grassa che analizza il bipolarismo Usa-Urss e le caratteristiche dell’ordine mondiale su di esso fondato esclude, mi pare, che si possa interpretare la fase attuale nella medesima maniera; la situazione della Dc fino alla fine degli anni ottanta non è paragonabile a quella del Pd renziano attuale e francamente ci pare ridicolo parlare del Pci in questa maniera. Il Pci ha cessato di essere “il principale partito d’opposizione”nel momento in cui è iniziato il crollo del sistema delle relazione internazionali uscito dalla Seconda Guerra Mondiale anche se la sua trasformazione nel “principale” gruppo politico filo atlantico deputato a gestire la semicolonia italiana era stato preparato da tempo (come ha ripetutamente spiegato La Grassa). Un po’ più convincenti paiono le considerazioni di Luca Ricolfi sul Sole 24 Ore del 19.04.2015:
<<L’altra sera ho guardato Servizio Pubblico, il programma televisivo di Santoro. C’era Bersani, ospite unico, e unico vero leader anti-Renzi dentro il Pd. Ad intervistarlo, oltre a Travaglio e Santoro, altri tre big dell’informazione: Lucia Annunziata (Huffington Post), Enrico Mentana (La 7), Mario Giordano (Tg 4). Devo dire che è stato molto istruttivo, almeno per me. Intanto, perché non ho assistito a una rissa, ma a un dialogo civile, con molto spazio per le domande e le risposte: a ben pochi leader politici, e in rarissime circostanze, è concesso avere tanto spazio e tanta rispettosa benevolenza in Tv. E poi perché credo di aver capito meglio perché Renzi resta, per ora, saldamente al comando della politica italiana. Bersani ha passato quasi tutto il tempo a parlare di riforma elettorale e riforma costituzionale, evocando “rischi per la democrazia” nel caso passino le riforme di Renzi, e deplorando il disinteresse dei mezzi di informazione per il tema del cambiamento delle regole. Pochissime parole, invece, sono uscite dalla sua bocca sui grandi temi di politica economica, come crescita, conti pubblici, occupazione.[…] Con questo non voglio dire che le riserve di Bersani, di Scalfari e di tanti altri su legge elettorale e riforma della Costituzione siano infondate. Tutt’altro. Quel che trovo sorprendente è che l’opposizione a Renzi, sia dentro il Pd sia fuori di esso, sia così fuori bersaglio. La minoranza Pd, dopo aver perso (e malamente combattuto) la battaglia sul Jobs Act, si concentra sulla legge elettorale, un tema che lascia indifferente la maggior parte delle persone normali, mentre è enormemente sopravvalutato dagli addetti ai lavori, quasi che il disastro italiano fosse il frutto non voluto di cattive regole del gioco, anziché l’ovvia conseguenza di una classe dirigente e di un’opinione pubblica non all’altezza delle sfide del nostro tempo>>.
Ma dopo queste sensate considerazioni Ricolfi loda Renzi perché starebbe affrontando nodi e problemi che “marcivano” da decenni, e perché alcuni cambiamenti introdotti dal suo governo sarebbero un progresso rispetto al passato. Il Jobs Act sarebbe meglio di quel che c’era prima, e la detassazione di salari e profitti andrebbe nella direzione giusta. Quelli che sognano di tornare indietro su queste cose non sono, secondo l’editorialista, un’alternativa credibile a quel che c’è. Alla carota però deve seguire il “bastone” utilizzato in maniera pedagogica per indurre il nuovo “capo” ad impegnarsi di più. Segue quindi una sfilza di critiche e di appunti sulla reale inefficacia delle misure, di politica economica e di finanza pubblica, finora intraprese. “Fra il racconto che Renzi e i suoi riservano a mass media spesso ancora ipnotizzati dalla sua ascesa e la realtà del Paese c’è un fossato notevole” conclude Ricolfi lasciando intendere che il nuovo amerikano non pare essere ancora in grado di eseguire bene gli ordini del padrone d’oltreoceano e dei suoi domestici europei. Una nuova forza d’opposizione potrebbe servire proprio a questo: stimolare Matteo “brain” Renzi a manifestare tutte le sue potenzialità.
(1)<<L’ipotesi della vicinanza fra Hayek e gli ordoliberali ha una sua
ragione storica ben precisa. Innanzitutto, esponenti ordoliberali come
Eucken e Ropke hanno intrattenuto rapporti personali con Hayek a
partire dalla fine degli anni ’20 condividendone alcune prospettive
ideologiche di fondo. In particolare, i tedeschi e gli austriaci (Hayek, in
particolare) condividevano due idee: opporsi allo storicismo dominante
in Germania e riproporre una riflessione sulle condizioni politico istituzionali
di un ordinamento economico di libero mercato. Una
ulteriore ragione della stretta connessione sussistente fra
l’ordoliberalismo tedesco e il liberalismo austriaco attiene alle vicende
che hanno riguardato l’evoluzione della cattedra friburghese di
Wirtschaftspolitik originariamente occupata da Eucken. L’attribuzione nel
1962 della cattedra friburghese ad Hayek ha determinato il
congiungimento delle due scuole di pensiero, per lo meno sul piano
accademico. A questo evento e seguito l’innesto sul ceppo ordoliberale
di prospettive analitiche e metodologiche tipicamente austriache, fatto
che ha rappresentato in certa misura un punto di svolta per la ricerca
ordoliberale>>. (Da un saggio di Raffaele Mele trovato in internet)