RITORNO AL PASSATO
Barack ha vinto, lunga vita a Barack. E’ finita una delle elezioni più “commediose” degli ultimi decenni americani. Uno degli aspetti più interessanti è stato osservare il circo mediatico che ha preceduto queste elezioni. Una stupidaggine dopo l’altra, tutte partorite dalle narici dei mass media i quali hanno dimenticato la vera vocazione professionale del giornalismo fatta di integrità e onestà, diventando così uno strumento di propaganda, sia da una parte che dall’altra. In particolare la morbosa ossessione dei media verso la figura dell’ultimo Nerone Obama che si è affacciato dalle stanze della Casa Bianca, decantando le lodi stonate della propria minuscola grandezza, mentre il fuoco dell’economia declinante brucia le terre e le città a stelle e strisce, dall’Atlantico al Pacifico, dalle Montagne Rocciose ai deserti; ora con il suo fagotto di speranza e cambiamento mai realizzati, si avvia sul viale del secondo mandato, verso un futuro incerto per se stesso e per la nazione, con responsabilità non consone alle sue capacità e qualità.
L’ America ha voluto continuare a sperimentare con un imperatore nudo al quale, fino a ora, ha chiesto molto ma ottenuto poco. Solo i media disonesti e ignoranti e la gente accecata dalle ideologie politiche non vedono quello che le persone oneste e con spirito analitico critico avevano già percepito: la strada di Obama sarà tortuosa, impervia e fallimentare; finirà in lacrime.
Le ideologie non hanno mai reso vincente un presidente. I presidenti americani non hanno mai eccelso perché paladini pro o contro l’aborto, pro o contro la guerra, pro o contro i matrimoni gay, pro o contro le amnistie agli immigrati illegali; queste sono argomentazioni che servono solo a perpetrare la leggenda che i due partiti sono fondamentalmente diversi. Specchi per le allodole; servono solo come briciole per accontentare gli ideologizzati. Le problematiche sopra elencate si risolvono nelle corti di giustizia americane e nei parlamenti statali locali, non nella Casa Bianca; è una battaglia a colpi di avvocati e giudici (soprattutto giudici) che si ergono a ultimo baluardo interpretativo della Costituzione Americana, imponendo le loro decisioni ai cittadini comuni. L a realtà è che mai nessun presidente fino ad ora, nella storia dell’America, era stato rieletto con un dato di disoccupazione superiore al 7,9 %; Obama è diventato l’eccezione. Quello che alla fine conta, in termini di popolarità, è lo stato in cui versa l’economia americana. E’ su questo stato economico disastroso in cui si trova l’America che Obama dovra` confrontarsi, niente altro.
Non è in California, dove vivo io, popolata da democratici, che si percepisce il reale malcontento della gente; basta solo entrare nel cuore dell’America, il Midwest, per capire il disgusto verso le politiche dell’amministrazione Obama. Ma a sentire i telegiornalai e gli opinionisti dei mie stivali, la corsa alla Casa Bianca è stata una apoteosi per Nerone Obama. Sembra di vedere un film di Michael Moore nel quale neanche lui, come regista, riesce a prendersi troppo seriamente. La differenza tra Obama e Romney, nel voto popolare, supera appena i tre milioni di voti. Obama non ha mandato pieno, forte e schiacciante; tutt’altro. Dal cuore dell’America, dal Wyoming, al Texas, dal Montana alla Georgia, molti degli Stati nel Nord, Centro e Sud, hanno rigettato Obama con forza, mentre gli Stati East Coast and West Coast, insieme agli Stati dei grandi laghi hanno abbracciato la causa progressista. Si va da uno stato come il Vermont con il 67% di voti appannaggio di Obama, al Wyoming con 69% di voti andati a Romney. Due stati, non gli unici, che rappresentano la divisione profonda nell’America di Obama. Zone dell’unione estremamente polarizzate , con culture, politica ed economie profondamente diverse e divise. C’erano già stati timidi tentativi, soprattutto negli ultimi tre anni, da parte di stati del Midwest di liberarsi del fardello di un governo federale (leggere il mio recente articolo “Crepe nell’Impero”) diventato troppo centralizzato e opprimente. Già ieri, in un noto programma radio, il secondo per numeri di ascolto, ho sentito una chiamata forte alla secessione degli stati rossi (repubblicani). Ormai non sono solo più i pochi e isolati ideologisti che chiedono la secessione.
Dati alla mano, piu` di 120 milioni di cittadini hanno votato nelle elezioni appena concluse. Nelle presidenziali del 2008 avevano votato piu di 129 milioni di cittadini. Il confronto con le presidenziali del 2008 è chiaro; mancano all’appello più di 8 milioni di elettori, solo il 49% degli aventi diritto a votare si è presentato. Obama ha perso, rispetto alle presidenziali del 2008, piu o meno 7 milioni di voti: 69,456,897 paragonati ai 62,088,847 (dati non ancora definitivi)del 2012. Mancano all’appello anche i repubblicani. Romney ha perso per strada un milione di elettori 58,783,137 contro I 59,934,814 di McCain nel 2008 e addirittura 3 milioni, paragonati ai 62,040,610, presi da Bush nel 2004. Numeri che testimoniano la freddezza dell’elettorato repubblicano, verso un candidato, Romney, che non è riuscito a riscaldare il cuore e l’anima dell’America conservatrice. Obama ha vinto e Romney ha perso, ma alla fine hanno perso tutti e due. Perché entrambi hanno lasciato per strada molti pezzi del giocattolo.
Come si dice; “morto un Re se ne fa un altro” , in questo caso si rifà lo stesso re; cosi dopo 8 anni di Bush e quattro di Obama, gli Stati Uniti continuano sul corso intrapreso, lasciando spente le luci dei neoconservatori; l’America, con Barack, si avvia ad altri quattro anni incerti, tutti da decifrare, ma che quasi sicuramente non porteranno cambiamenti significativi, salvo eventi epocali forzati dal destino. La nazione dovrà cominciare a considerare misure di austerità per tappare il debito crescente, ma ad imporre misure di austerità agli americani è come chiedere ai bambini di mangiare un piatto di broccoli; saranno dolori…
Mentre Nerone Obama si troverà ad affrontere problematiche non indifferenti, la resa dei conti nel partito repubblicano porterà quasi sicuramente ad un cambiamento di rotta all’interno del partito stesso. I repubblicani hanno perso per la loro incapacità di connettersi con le sempre più grandi minoranze del paese, sopprattutto quelle latine. Il partito anti-schiavista di Lincoln, il partito di Martin Luther King Sr., il partito della prima amnistia agli immigrati illegali di Ronald Reagan, trova difficile articolare la propria dialettica; per questo sta pagando un dazio pesante.
McCain prima e Romney dopo sono stati candidati imposti dai poteri amministrativi del partito (Karl Rove per esempio) ai costituenti, i quali, controvoglia, hanno accettato le decisioni prese dall’ establishment. McCain and Romney fanno parte della schiera dei cosidetti RINO (Repubblicani solo di nome), molto distante ideologicamnte dalla base del partito stesso. Candidati forzati dai vertici repubblicani perche considerati piu` presentabili, quindi in parole povere, dei finti conservatori, ma di fatto centristi/liberali.
Molti dei mass-media, hanno accusato Romney di essere un ultra-conservatore, descrivendolo in mala fede come un intransigente. Al contrario invece, Romney ha dimostrato, in molte circostanze, tendenze sociopolitiche opposte a quelle conservatrici tradizionali; come Governatore del Massachusetts Romney, nel 2006, ha introdotto l’assistenza sanitaria. Un esempio studiato e copiato dall’amministrazione Obama nel disegnare la legge sanitaria nazionale . Romney ci è arrivato prima di Obama; uno dei tanti motivi per cui Romney ha fallito nello smuovere le masse conservatrici.
Tre milioni di elettori repubblicani registrati sono rimasti a casa in queste elezioni e si sono astenuti. Il regolamento di conti che verrà sicuramente in casa repubblicana, se non gestito bene, porterà a una frattura all’interno del partito, risultando fatale al partito stesso. I tempi sono maturi per un terzo partito che potrebbe nascere dal frazionamento dei repubblicani. Una mossa del genere sarebbe solo appannaggio dei democratici i quali potrebbero governare indisturbati per i prossimi 20-30 anni, controllando totalmente la scena politica americana.
Un altra ragione del fallimento di Romney è stato il presentarsi come un attore nuovo, ma con registi vecchi e screditati. Per cominciare, l’ex vice presidente Dick Cheney ha ricoperto un ruolo essenziale come consigliere di Romney. Mitt considera Cheney un esempio cui inspirarsi. Dei 24 consiglieri sulla politica estera, dei quali ha fatto uso Romney nella campagna presidenziale, 17 hanno servito come consiglieri nella Amministrazione Bush. Nomi come Cofer Black, Michael Hayden, Dan Senor,John Lehman e soprattutto John Bolton il quale ha servito sotto George W. Bush come ambasciatore alle Nazioni Unite, sono già noti. Quindi non si poteva che dedurre l’assoluta somiglianza tra la futura amministrazione Romney e l’amministrazione Bush, almeno per quanto riguarda la politica estera. Un ritorno al passato insomma…tanto è bastato agli strateghi democratici per propagandare un ritorno di una amministrazione Bush, sotto vesti nuove, spaventando un elettorato già frastornato dalla propaganda. D’altronde la strategia democratica è stata di addossare a Bush i grossi problemi che hanno afflitto l’amministrazione Obama. L’economia? Colpa di Bush. Le guerre? Colpa di Bush. Ti muore il gatto? Colpa di Bush. Un tattica questa che andava bene per il primo o al massimo il secondo anno di amministrazione Obama; ma dopo 4 anni non si può continuare ad accusare Bush delle decisioni prese e rese da Obama.
Comunque solo il tempo ci dirà quanto l’influenza dei neoconservatori ha pesato sulle decisioni di politica estera e interna americana nella campagna di Romney. Se fosse stato eletto, Romney avrebbe seguito la linea di Bush? Forse prevedendo un inasprimento delle relazioni con Mosca, una più dura presa di posizione contro il regime di Assad e contro l’Iran. Nei rapporti con la Cina Romney ha più volte accusato i cinesi di essere dei manipolatori di valuta, una accusa tra l’altro non infondata che lasciava intravedere una guerra a base di dazi sui prodotti importati dalla Cina.
L’amministrazione Obama ci ha regalato l’inverno arabo, i droni assassini e le guerre surrogate; Bush ci lasciò in eredità la guerra in Iraq e Afghanistan. Tra i due non saprei scegliere chi sia peggio. Una cosa è certa; non si scorge ancora all’orizzonte americano un reazionario con idee originali, l’unico eventualmente in grado di cambiare la direzione di questa nazione, ridarle nuova linfa traendo ovviamente da par suo e a modo suo ispirazione e modelli dai padri fondatori.