ROMPERE CON IL VECCHIO E PENSARE IL NUOVO

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Non mi piace mettermi a fare il noioso maestrino, sia pure senza “penna rossa”. Vi sono costretto da tanta confusione che sento in giro: da tempo immemorabile, ma certo con un frastuono crescente in questo periodo di emeriti asini che si erigono a studiosi – entusiasti o critici, poco importa – di Marx, quando di tale autore non comprendono un piffero.
Secondo il “buon” Marx il profitto è plusvalore, cioè in definitiva pluslavoro. Nella società capitalistica, quelli che vengono denominati imprenditori (Marx li indicava quali capitalisti proprietari dei mezzi produttivi) ottengono il loro guadagno in forma differente, ma nella stessa modalità sostanziale che ha sempre caratterizzato i proventi delle classi dominanti in ogni epoca della storia. Poiché il capitalismo è comunque nato e cresciuto nell’Europa feudale, prima di espandersi mondialmente, possiamo dire che il profitto ha sostituito – per quanto riguarda la parte decisiva del pluslavoro – i vari emolumenti pretesi dai feudatari e dalla Chiesa. Con una differenza certo decisiva: questi ultimi erano di fatto imposti dal potere politico e ideologico di coloro che li godevano, mentre il profitto sembra nascere dall’attività specifica di chi organizza la produzione dei beni; ma è in grado di organizzarla perché lunghi processi storici hanno condotto – prima formalmente con riguardo al sistema giuridico della proprietà (garantito comunque dal potere dello Stato controllato dai proprietari), e poi realmente mediante quel percorso conclusosi con la “rivoluzione industriale”, uno degli eventi maggiori, e certo socialmente devastanti, della storia umana – alla progressiva, e poi definitiva, perdita dei saperi produttivi da parte della maggioranza dei lavoratori.
Questi hanno però, nel medesimo processo, conquistato la libertà personale – rispetto ai vincoli di dipendenza dei servi della gleba e dei garzoni nelle botteghe artigiane medievali – assieme ai diritti inerenti alla proprietà delle merci, che vengono scambiate tra “soggetti eguali” in base al contratto. La stragrande maggioranza della popolazione – non proprietaria di mezzi produttivi e cospicue somme di denaro – ha la “libertà” di vendere al prezzo migliore possibile (cioè al migliore offerente) la merce posseduta: la propria capacità lavorativa. In realtà, i processi storici sono stati più lunghi e dolorosi: la piena (o quasi) libertà di vendere al meglio la merce forza lavoro non è stata conquistata precisamente in un batter d’occhio. La grandezza di Marx è stata però proprio quella di non aver fatto del profitto capitalistico un’altra forma di imposizione dispotica da parte di soggetti esercitanti la loro indiscussa potestà sugli individui ad essi subordinati; o che magari acquistavano la forza lavoro in forma apparente di merce, ma con una serie di ostacoli e obblighi per il venditore che ne facevano un uomo non ancora completamente libero.
Marx non si è fermato alla situazione empirica, concreta, del suo tempo, che vedeva certamente i venditori di forza lavoro in condizioni di soggezione assai pesante; ha capito la tendenza di fondo di quello che poi è stato chiamato “mercato del lavoro”, e ha immaginato due contraenti di pari forza sul piano dello scambio mercantile. L’acquirente, mediamente e tenuto conto delle oscillazioni dei prezzi, sborsava una certa somma di denaro in quanto segno di valore equivalente al valore di ciò che in contraccambio gli offriva il venditore, la sua capacità lavorativa (di vario genere, e più o meno semplice o complessa; questo non è il problema cruciale). Tanto questo era vero – non subito, ma alla fine del processo di “liberazione” del lavoratore da ogni vincolo e limitazione precedenti – che con quella somma di denaro (detta salario) il lavoratore aveva di che vivere e riprodurre la sua esistenza (mettendo su famiglia e generando figli) e, con essa, la capacità lavorativa della sua “specie”: il lavoro salariato.
Marx non pensa ad alcun imbroglio, ad alcuna pura e semplice imposizione; eppure, alla sua epoca, i lavoratori non avevano nemmeno un decimo della forza e delle garanzie del presente (nei paesi a capitalismo sviluppato!). Non importa, egli prevedeva uno scambio mediamente equivalente: con alti e bassi, in certi momenti a favore dell’acquirente (il capitalista o imprenditore che dir si voglia) e in altri favorevole al venditore (il salariato). Ciononostante – essendo il lavoro umano capace, a causa del progresso tecnico e del miglioramento delle conoscenze e abilità produttive, ecc., di produrre sempre di più rispetto alla quantità di beni necessari alla propria esistenza e riproduzio-
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ne – il lavoratore, una volta impiegato nell’organismo produttivo (impresa) di proprietà dell’acquirente, eroga una quantità di lavoro superiore a quella “idealmente” contenuta nella somma di denaro ricevuta: una “idealità” poi realizzata concretamente nell’acquisto, da vari altri capitalisti, delle merci necessarie a vivere (a livelli via via più alti, se considerati quale trend di lungo periodo), che sono costate una data quantità di lavoro (il loro valore). Questa quantità superiore (il pluslavoro), concretizzatasi in una certa quantità di merci vendute dal capitalista (ad altri capitalisti e ai lavoratori), è appunto il plusvalore, la cui parte decisiva, e che qui ci interessa, è il profitto.
Marx non dimenticò nemmeno di far notare che, in tutta la prima parte dello sviluppo capitalistico, l’acquirente di forza lavoro (quale merce liberamente venduta tramite contratto), cioè il capitalista proprietario (dei mezzi produttivi impiegati nell’impresa), era anche organizzatore della produzione e quindi “contribuiva a creare ciò che poi prelevava come plusvalore”. La teoria marxiana, che pochi (e meno che meno quelli che la denigrano) ormai conoscono, era del tutto geniale. Marx spiegava che gli uomini accrescono continuamente la loro forza produttiva e dunque pongono in essere una quantità di beni superiore alle necessità (anch’esse storico-socialmente in crescita) della loro vita; e di questa quantità superiore sono vissute le classi dominanti in ogni epoca, non essendo però affatto superflue e puramente parassitarie (chi pensa questo non ha capito nulla della storia e della crescita materiale e culturale dell’umanità). Solo che, nel capitalismo, il pluslavoro non esige più la subordinazione personale degli individui, non esige l’impiego aperto di un potere dispotico, salvo che per proteggere, qualora sia in pericolo, l’ordine riproduttivo dei rapporti nella loro forma specifica caratterizzante la struttura capitalistica.
Marx mise anche in luce come proprio questo tipo di società, che pur mistificava l’eguaglianza degli individui rendendola solo formale, raggiungesse il massimo di capacità nello sviluppo della forza produttiva umana – e dunque nell’aumento del “di più” rispetto alle pur crescenti esigenze della vita in società – creando così la possibilità di una diversa società, che non potrebbe mai essere una sorta di “comunismo da caserma”, un complesso alchemico (e ingegneristico) quali le piccole comunità pensate da Fourier, Owen e simili. Fra l’altro, la teoria di Marx chiarisce, oltre ogni dubbio, che il pluslavoro – in aumento tendenziale nel tempo – è stato, e sarà, condizione fondamentale di ogni progresso umano. Tanto è vero che, nella prevista transizione – per dinamiche interne alla società capitalistica – verso il comunismo tramite lo stadio socialistico, e nella stessa fase finale del comunismo pienamente realizzatosi, Marx immagina un pluslavoro ancora maggiore che nel capitalismo; e manifesta la sua convinzione circa la possibilità di un suo controllo collettivo, e di una sua distribuzione fra vari usi sociali (distribuzione che, fra l’altro, esige un organo di amministrazione e gestione degli affari generali della società; quell’organo che però non è più uno Stato, come pensano certi pseudomarxisti anche oggi, quelli che accusano di utopismo Marx perché affermava la progressiva estinzione dello Stato in una società compiutamente comunistica).
Non sto qui a ripetere argomentazioni – che chi mi ha almeno un po’ letto dovrebbe conoscere – in merito alle previsioni marxiane rivelatesi errate per quanto concerne le dinamiche effettive del capitalismo dalla sua epoca ai giorni nostri. Tutto ciò non toglie nulla alla grandezza di Marx; soprattutto perché egli spiegò lo “sfruttamento” – che gli ignoranti continuano a pensare nella figura del “negriero” che “frusta” i suoi “servi” – in termini del tutto asettici e scientifici, rivelando il pluslavoro mascherato dal profitto che sembra nascere, dopo un libero scambio di merce (forza-lavoro), dalla semplice capacità organizzativa e innovativa dell’imprenditore. Marx unifica la storia umana, ne fa una storia che ha sempre bisogno del pluslavoro, anche quando fosse divenuto possibile – secondo le sue inesatte previsioni – il controllo collettivo dello stesso da parte dei produttori associati (dal massimo dirigente all’ultimo lavoratore esecutivo).
Nessuna condanna morale dello “sfruttamento”, nessuna attribuzione di colpa (da scontare, di cui pentirsi spargendosi il capo di cenere) al capitalista che insegue il suo profitto; e con “naturale” ingordigia, per cui ne ricerca sempre di più, facendosi così, oggettivamente, promotore dello sviluppo produttivo che avrebbe posto le basi di un comunismo ricco, non da miserabili solo in grado poi di accapigliarsi per la distribuzione del prodotto. Marx non presuppone affatto un “uomo nuovo”,
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migliorato eticamente, pronto a cooperare con gli altri per fini collettivi superiori. Si sarebbe trattato invece di un fatto naturale, di un portato dell’oggettivo sviluppo sociale. Quando Marx sosteneva che il comunismo avrebbe realizzato sostanzialmente quel dispiegarsi dell’individualità, che il liberalismo proclama solo nella forma, egli non immaginava un’ideale società composta di altruisti, tutti dediti al bene comune. Come il macellaio di Adam Smith forniva agli acquirenti la buona carne non per benevolenza ma per tornaconto egoistico, così il membro di una società comunista avrebbe agito in senso cooperativo per il suo personale vantaggio. Marx ha sbagliato nell’indicazione delle reali dinamiche capitalistiche – come ho mostrato molte volte ormai – ma certamente non era uno sciocco e falso “buonista” del genere di certi suoi commentatori attuali, che sciorinano ai quattro venti i loro “afflati morali”.
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Il marxismo, e il comunismo nella versione che questo previde, divennero l’orientamento di fondo di forze rivoluzionarie del tipo di quelle dirette dai bolscevichi in Russia e più tardi di quelle guidate dai comunisti cinesi. In entrambi i casi, emersero due veri geni rivoluzionari quali Lenin (soprattutto) e Mao. In mano a gruppi dirigenti di tale valore, comunismo e marxismo dettero vita a grandiosi eventi di trasformazione, vissuti per quasi un secolo secondo l’ideologia della costruzione del socialismo e della transizione al comunismo. Oggi, appare evidente che si è trattato di qualcosa di assolutamente diverso, non ancora ben compreso per l’essenziale; tuttavia, quelle rivoluzioni – e soprattutto quella del 1917 – restano eventi di primaria grandezza che hanno veramente cambiato il mondo e che manifesteranno probabilmente i loro effetti anche nell’epoca in cui stiamo entrando. Ritengo quindi molto positivo che in Russia si sia cominciato a rivalutare Stalin (cioè un certo gruppo dirigente e una certa direzione presa dalla trasformazione del paese), dopo le stolte critiche, del tutto miserabili e povere di vero contenuto riformatore, di Krusciov e seguenti. Tuttavia, molto giustamente, l’odierna riconsiderazione del gruppo dirigente staliniano non avviene in conformità a false credenze sul comunismo (o costruzione del socialismo), ma semplicemente per l’affermarsi di una grande potenza, poi impantanatasi e crollata proprio a causa di quella ideologia falsificatrice, e oggi in fase di rinascita una volta liberatasi dei miti del passato.
In occidente (e non solo), il comunismo ha incrociato ideologie religiose che l’hanno progressivamente trasformato in religione esso stesso. E quanto più si è fatto evidente il fallimento della Rivoluzione d’Ottobre – se creduta quale innesco della transizione rivoluzionaria ad una società di tipo comunistico – tanto più gli sbiaditi residui pseudocomunisti hanno accentuato il carattere religioso delle loro aberranti convinzioni ideologiche. A questo punto, il profitto capitalistico – una forma storicamente specifica di quel pluslavoro umano che sempre esisterà e che finora è stato utilizzato dalle classi dominanti delle varie formazioni sociali (schiavista, feudale, capitalistica, ecc. ecc.) – è divenuto un peccato; il capitalista è peccatore e dunque l’operaio è il redentore. Poiché quest’ultimo si è via via dimostrato refrattario ad assumersi un simile compito sovrumano (solo il “figlio di Dio” lo può realizzare), i falsi comunisti hanno perso la testa e hanno cercato una serie di vie traverse e di altri fantasiosi soggetti “rivoluzionari”: i giovani, le donne, i gay, i rom e gli immigrati in genere, ecc.
Tutta la polemica contro i profitti delle multinazionali – che rovinano l’ambiente e attentano alla nostra salute, al naturale codice genetico, e via dicendo – è esattamente la “scomunica” che colpisce i peccatori fino a quando non si pentano e convertano; se non lo fanno, saranno puniti dai “meravigliosi” movimenti (o Movimento dei movimenti) che assumono i compiti dei vecchi missionari con la croce in pugno (anche chi usa ancora falce e martello, li riduce ad analogo simbolo di redenzione). Se poi ci spostiamo nei paesi di religione cattolica, dove l’ipocrisia è regina, il peccato è semplicemente il profitto degli altri, mentre il proprio ha sempre l’aureola della santità. Quindi i profitti di Greenpeace (una vera multinazionale), delle coltivazioni macrobiotiche, dei commerci equosolidali, delle banche etiche e del no profit, e chi più ne ha più ne metta, sono il Bene che vuol sconfig-
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gere i profitti dei capitalisti “non convertiti”. Così abbiamo visto grandi “pescecani” come Soros, Bill Gates, addirittura la Goldman Sachs (oggi per fortuna arrivata ad un passo dal fallimento, salvata ma ridimensionata) cominciare a flirtare con l’ambientalismo, le energie alternative, i cibi “più sani” (autentiche schifezze costosissime); tutto per “redimersi” e rendere “santo” il proprio “peccaminoso” profitto, che la crisi ha messo….in crisi prima della completa purificatio.
Non ci sono parole per definire la stupidità di questi finti comunisti, i cui capi (anche quelli dei centri sociali e movimenti “alternativi”, spesso guidati da ingrigiti sessantottardi e settantasettini, o da loro seguaci) sono marpioni che hanno trovato il modo di farsi conoscere, e talvolta pure intascare bei soldini – dopo la stagione di “fervida contestazione” – coinvolgendo masse di giovanotti assai confusi e ignoranti, ma forse, almeno in parte, sani e pieni di buone idee. Queste non dureranno a lungo: la corruzione è dietro l’angolo quando si insiste con il moralismo che condanna il guadagno (degli altri) come “sterco del Diavolo”, mentre il proprio è ormai stato benedetto da chi del comunismo ha fatto una religione “minore”. Se si è in buona fede, si esca subito da questi torbidi rimasugli di ideologie un tempo vitali, oggi marcite in parodia della vera religione (che ha ben altra funzione e motivazioni).
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Divenuto obbrobrioso il comunismo attuale, ridotto del resto ad indigeste frattaglie, non ha alcun senso ritornare a quello originario di Marx. A mio avviso, è ancor oggi vantaggioso ripristinare lo spirito scientifico di quest’ultimo per quanto concerne una possibile nuova teoria della società (del capitalismo o dei capitalismi; problema tutto da risolvere). Una simile teoria non può però essere la mera ripresa di quella tradizionale marxista, per di più nella interpretazione abbondantemente scorretta datane da Kautsky e che ha caratterizzato – anche nelle versioni critiche dello stesso – l’intero XX secolo. Pur se si tornasse dalla “classe operaia”, in quanto insieme di semplici “tute blu”, al lavoratore collettivo cooperativo della più vera concezione marxiana, è del tutto evidente che uno dei cardini centrali della teoria – la dinamica capitalistica comportante la formazione di una classe di rentier parassiti, ad un polo, e di tale lavoratore collettivo, all’altro – viene a cadere, e con esso la previsione della formazione di un soggetto (i produttori associati) che avrebbe costituito non semplicemente un complesso di individui dotati di volontà comunistica, ma proprio la base sociale oggettiva del comunismo, una precisa struttura di relazioni necessariamente cooperative tra i vari individui nell’ambito dei processi (ri)produttivi della loro esistenza in società.
Questa base oggettiva non sussiste, non è in formazione perché il movimento di quella che chiamiamo società capitalistica non la forma. E’ quindi del tutto logico che il comunismo sia divenuto una sorta di parodia delle “comunità di primi cristiani” (almeno come ce le raccontano). Una simile utopia è in grado di interessare infime minoranze di spostati e disadattati, che esistono sempre negli anfratti di società in sviluppo e cambiamento come sono quelle capitalistiche. Anche quando sopravviene la crisi – che è un periodo di accentuata competizione e trasformazione – quell’ideologia pauperista non è in grado di conquistare alcuna maggioranza; al massimo potrebbe fornire mano d’opera violenta e ottusa per operazioni autoritarie manovrate dai settori dominanti più arretrati e parassitari, quei settori che la crisi mette in sofferenza e che sono il primo obiettivo della distruzione creatrice.
Chi ha veramente a cuore le sorti di coloro che denominiamo ancora dominati (linguaggio un po’ arcaico per quanto concerne i paesi ad alto sviluppo capitalistico) deve cambiare completamente registro. L’ipotesi di fondo è l’esplodere di contraddizioni molteplici che troveranno però il loro fulcro – la causa di maggior vigore e impulso – nel conflitto tra un certo numero di formazioni particolari progressivamente assurte al ruolo di potenze. Nell’ambito di tale conflitto, e se non si vuol essere totalmente tagliati fuori e messi ai margini (salvo divenire la mano d’opera di cui appena detto), è senza senso proporre il comunismo ai dominati delle più avanzate formazioni particolari, anche di quelle che non saranno vere potenze come ad esempio l’Italia. Sostituire l’anticapitalismo al
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comunismo è operazione assai poco utile, dato che anti (esattamente come post) è prefisso che indica l’assenza dell’idea dell’oggetto in esame, cioè della società odierna nella sua prossima epoca di trasformazione. Si resta alla vecchia concezione del capitalismo come caratterizzato fondamentalmente dal conflitto capitale/lavoro: non sussistente, nella forma pensata dalle cariatidi della “sinistra” che si pretende “antagonista”, nemmeno in termini banalmente distributivi e di minimi ritocchi alla struttura sociale odierna.
Molto meglio lavorare – per quanto si può e ognuno con le forze e le idee che è capace di esprimere – all’approfondimento del conflitto tra formazioni particolari (paesi, “nazioni”) per accelerare l’avvento di un’epoca policentrica. Poiché tuttavia la forza di tali formazioni dipende anche dalla coesione interna della sua popolazione – ed esclusa l’idea di lavorare ad un puramente ideologico nazionalismo di marca esasperata, che unisca in modo fittizio quest’ultima sotto il giogo di un dato gruppo dominante – si deve contestualmente indicare quale blocco sociale sarebbe indispensabile si coagulasse ai fini di una partecipazione positiva, anche per i dominati (o gran parte di essi), al conflitto policentrico.
Ho già posto il problema nello scritto Epoca nuova: necessità di cambiare. E’ necessario indirizzarsi ad uno scontro esplicito atto a promuovere la già menzionata distruzione creatrice. In Italia, in particolare, deve essere illuminato a giorno il reazionarismo e sostanziale parassitismo dei vecchi settori dell’industria e dei servizi con i loro “alleati” finanziari, del tutto infidi e in forte difficoltà per la crisi di cui essi appaiono gli artefici con le loro manovre fuori di ogni controllo. Vi è però la forte necessità di controbattere il divide et impera che tali settori attuano, creando frizioni tra lavoro dipendente (salariato) e autonomo, tra lavoro dei settori “privati” e “pubblici”; una politica di continui sospetti e contrasti tra dominati, sfruttata anche, per vergognosi fini di piccolo potere (e di voti), dai sindacati e dalla “sinistra” (soprattutto da quella che si autoproclama “estrema” o “radicale”). Si tratta di organismi che attualmente svolgono un’attività politica reazionaria. Tuttavia, va precisato che essi sono strutturati sotto la direzione di gruppi dirigenti, ancora minimamente organizzati, la cui funzione è fortemente negativa per le sorti del paese. Ciò non esclude che in tali organismi siano inquadrati nuclei di attivisti “di base” potenzialmente capaci di volgersi ad altri obiettivi, ove si liberassero dei condizionamenti di vertici sclerotici e dediti a maneggi vari al servizio dei dominanti peggiori e privi di ogni autonomia nazionale.
In una fase storica come questa, è necessario favorire i settori industriali dell’ultima ondata innovativa e con alta valenza strategica per lo sviluppo del paese, ponendo in subordine quelli di passate stagioni; che non vanno certo distrutti, sia chiaro, solo impediti nelle loro pretese di frenare la ristrutturazione del sistema economico, che è in realtà una ristrutturazione sociale e anche politica, con particolare riferimento al mutamento dei rapporti di forza che imbrigliano l’orientamento generale dell’intera formazione particolare. E’ anche necessario che il settore industriale riprenda la funzione di guida rispetto a quello finanziario; deve essere però la politica a indirizzare il mutamento del rapporto tra i due settori, mettendo la finanza al servizio dell’industria, con particolare riferimento alle sue branche d’avanguardia.
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Chi ha paura che, così facendo, ci si metta alle dipendenze dei dominanti, continuerà solo a ripetere vecchie lotte e vecchi schemi politici, che schierano i diversi raggruppamenti dei “dominati” (o comunque non dominanti o non decisori) gli uni contro gli altri. Certo, alcuni ormai antiquati gruppetti politico-sindacali ringhiano contro il grande capitale, fanno la voce grossa, riuniscono ancora un certo numero di persone per manifestare, fare chiasso, creare disordine. Senza però più alcun progetto politico, senza un orientamento credibile in un’epoca che segna la fine di tutte le credenze e i miti del secolo scorso. Fra l’altro, la “Classe” di riferimento – in realtà, semplicemente, il raggruppamento sociale degli “operai”, cioè dei lavoratori salariati dell’industria a più basso livello nei processi di lavoro – sta abbandonando la sinistra e i vecchi organismi politici cui aderiva; si dimo-
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stra così che in effetti tale raggruppamento sociale ha ancora una funzione da svolgere perché formato da individui dotati di buon senso. La potrà tuttavia svolgere se non si farà attirare da nuovi inganni (ad esempio, in Italia, la Lega) e capirà che deve coalizzarsi con settori dei lavoratori autonomi, in gran parte anch’essi non decisori. La coalizione esige che nasca una nuova organizzazione politica capace di individuare i punti di contatto tra i due grandi raggruppamenti, attuando quindi una politica all’uopo necessaria.
E’ indubbio che lavoratori salariati (nelle loro varie frazioni) e autonomi (idem come sopra) non possono né debbono essere riuniti nel loro insieme. E’ indispensabile distinguere, in entrambi i raggruppamenti, gli strati “medio-bassi” da quelli “alti”. Non per una sorta di cedimento all’ideologia (“cristiana”) della distinzione tra ricchi e poveri (o appena benestanti). Il problema di fondo è certamente di numero, ma ancor più di convinzione nel seguire una politica che salvaguardi – soprattutto in un’epoca di crisi e trasformazione come quella in cui ci addentriamo – livelli di vita decenti. E’ ovvio che una parte della popolazione, sia nel lavoro dipendente (ad esempio i manager e i dirigenti dello Stato fino ad un certo livello di gerarchia e di reddito, ecc.) che in quello autonomo (ad esempio, alcuni strati di professionisti, di cosiddetti artigiani, di commercianti, ecc.), ha elevati (e crescenti) livelli di vita, e redditi per sostenerli, per cui resta fondamentalmente alleata di coloro che difendono lo status quo, quelli che favoriscono in Italia la GFeID, la parte più arretrata del capitale e anche la più prona ai voleri dello “straniero” (la potenza predominante). Il cambiamento potrebbe più facilmente essere appoggiato da coloro che “stanno in basso”; sempre che da tale cambiamento essi intravedano reali miglioramenti. Ed è anche solo in base a tali prospettive che costoro – sotto la direzione di specifiche (e nuove) forze politiche – potrebbero trovare la via per l’unione (mettendo in sordina conflitti pur sempre latenti), venendo così a costituire una “base di massa” non puramente e semplicemente subordinata ai voleri incondizionati dei dominanti, nemmeno di quelli collocati nei settori innovativi, di punta.
Una simile politica non si inventa in “due balletti”; soprattutto tenendo conto dello sfascio a cui il nostro paese (e in parte l’intera Europa) è stato condotto dagli organismi politici attuali. L’Italia è in condizioni particolarmente penose dopo aver subito una sorta di “colpo di Stato” giudiziario nei primi anni ’90. Da allora, ha un ceto politico semianalfabeta, incapace di vere contrapposizioni politico-ideologiche. Si continua ancora adesso ad usare una sedicente magistratura – in realtà un gruppo di procuratori “d’assalto” – in modo del tutto improprio, con una degenerazione crescente ed uno scardinamento del normale ordinamento “borghese” delle istituzioni. E’ chiaro che uno dei compiti di una certa rilevanza, al fine di promuovere una politica di “nuovo blocco sociale”, è la sconfitta di questa “magistratura” deviata che va ricondotta, con tutta la decisione e brutalità necessarie, entro l’alveo di un’azione consentita. Una nuova forza politica dovrebbe attuare una specie di “controcolpo di Stato”; il che implica pure l’annientamento e dispersione di quelle forze – nettamente minoritarie ma torbide e sediziose – che soffiano sul giustizialismo e sulla “questione morale”.
Una volta che fosse risolto questo problema, per cui occorre molta forza e un pizzico di ferocia, sarebbe indispensabile escogitare le mosse politiche utili alla costituzione del “blocco sociale” sopra indicato: lavoratori autonomi e salariati degli strati medio-bassi. Affinché quest’ultimo si formi, vanno allora sconfitti e disgregati gli organismi politici e sindacali attuali di entrambi questi raggruppamenti sociali, le cui “fortune” sopravvivono grazie ad una politica di continua frizione fra gli stessi. Il nuovo blocco sociale non può nemmeno iniziare a “coagularsi” – né tanto meno, poi, si consoliderebbe – se la nuova organizzazione politica non abbandonasse la finta contrapposizione destra/sinistra e non si schierasse, per l’immediato nostro futuro (la nuova epoca che si sta avviando al policentrismo), in direzione del rafforzamento della “nazione” (non di un nazionalismo fuori luogo), cioè della formazione particolare italiana, nell’ambito di alleanze con forze che perseguano scopi analoghi in altri paesi europei.
E’ chiaro che ogni formazione particolare deve curare le sue specificità; il nostro paese, ad esempio, dovrà espandere e rafforzare i rapporti nel bacino del Mediterraneo e verso paesi dell’est e sud-est. Per far questo, occorre battere la politica finora seguita fondata sull’ideologia della “com-
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petitività in ambito globale” (in altro scritto tornerò su questo perverso inganno perpetrato dai subordinati agli interessi statunitensi). Il rafforzamento del “sistema-paese” (espressione piuttosto impropria, ma di possibile uso in tale contesto) passa per il convinto appoggio alla struttura grande-imprenditoriale di tipo innovativo, mentre vanno sconfitti quegli industriali e finanzieri che hanno finora comandato nel paese grazie al “colpo di Stato” di mani pulite. La GFeID (il cosiddetto piccolo establishment) è già indebolita e non più tanto unita e solidale; la crisi imminente la sgretolerà ancor di più e rappresenterà quindi una “occasione storica”.
Bisognerebbe però battere definitivamente gli attuali schieramenti politici (e sindacali), rompere “gli specchi” del gioco fra destra e sinistra. Bisognerebbe smetterla con l’ormai antistorico “anticomunismo” di certa destra – via maestra per la dipendenza dagli Usa – e con la lotta delle “classi lavoratrici” (solo quelle salariate) e il conflitto capitale/lavoro (solita solfa) di certa sinistra; questa “mostra d’antiquariato” avvantaggia in realtà i settori più arretrati del grande capitale e le sussistenti organizzazioni partitico-sindacali sclerotizzate, corrotte, incapaci anche solo di pensare una politica nuova, oltre ad essere piegate ad interessi “stranieri”.
Chiunque insista con le vecchie mitologie politiche del ‘900 (già usurate ben prima che finisse il secolo) deve essere combattuto senza sosta. Non ci sono altre vie di salvezza. Questo è il nuovo punto di partenza; purtroppo, per il momento, solo affidato ad una nuova riflessione teorica e politica, ma non ancora ad una fattiva organizzazione. Si è in forte ritardo; se ne accumulerà ancora se intanto non si rompe con coloro che insistono nel vecchio. Non parlo nemmeno di quelli che ripropongono addirittura utopismi (e umanesimi) decrepiti. Ignoriamo questi “reperti dell’era paleolitica”, rompiamo “gli specchi” del gioco tra “destra” e “sinistra” e apriamo il dialogo con quelli che qualcuno ha in questi giorni chiamato “apolidi”; che non siano però malinconici nostalgici e inerti disillusi, bensì individui liberatisi dei vecchi fantasmi e aperti con energia a nuove esperienze. E che siano probabilmente pochi, non deve suscitare scoramento. Non s’iniziano nuovi percorsi seguiti da masse plaudenti. Tutto ciò che è cadente e in disfacimento è caratterizzato da grande vischiosità: “le mort saisit le vif”.
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