“RUSSIA UNITA” SI RICOMPATTA, MA LA RUSSIA NON ANCORA

La notizia irrompe sullo scenario internazionale. Vladimir Putin raggiunge l’accordo con Dimitrij Medvedev e si ricandida per le prossime elezioni presidenziali, mantenendo l’unità del partito Russia Unita ed avviando un progetto di lungo raggio fondato su un’alternanza al potere tra le due cariche più importanti della Federazione – Presidente e Primo Ministro – che, secondo l’analista Vyacheslav Nikonov, potrebbe addirittura garantire la stabilità dell’attuale leadership per i prossimi venticinque anni, cioè sino al 2036. Tutto questo è chiaramente azzardato, e la previsione che Putin possa ritrovarsi ancora presidente alla veneranda età di 72 anni è assolutamente remota. Resta la capitale priorità di questo patto che mette a tacere tutte le indiscrezioni degli ultimi mesi in merito alle frizioni interne al partito di governo, che pure, sotterraneamente, potrebbero rimanere e non soltanto tra Putin e Medvedev, ma anche tra diverse componenti militari e industriali dell’apparato di potere.

Non è facile capire se questa decisione possa ripristinare gli equilibri dopo i dissidi sin qui osservati, o se nasca soltanto come reazione al timore, sempre più concreto, che diversi settori del partito social-democratico Russia Giusta possano stabilire un patto (e dunque una sorta di assimilazione elettorale) con il Partito Comunista della Federazione Russa. Un sondaggio condotto dal centro studi Levada lo scorso febbraio, aveva infatti registrato un calo nettissimo di Russia Unita, data addirittura al 35% dei consensi (contro il 45% delle precedenti elezioni regionali di Ottobre 2010, nel corso delle quali si era registrato a sua volta un altro calo), ed un aumento dei favori del Partito Comunista, risalito ad oltre il 20%, coi liberaldemocratici di Zhirinovskij al 9% e Russia Giusta al 6%.

La crisi sociale interna – soprattutto nel settore agricolo e nel settore industriale – e i progetti di progressiva liberalizzazione dei principali servizi sociali (sanità, istruzione e previdenza) presentati da Medvedev hanno, negli ultimi mesi, intimorito una popolazione che vive ancora con l’incubo dell’era Eltsin. Tutt’ora irrisolti, i mille problemi legati ai tragici anni Novanta, ad iniziare dall’infinita questione degli oligarchi, coinvolgono senz’altro anche la dimensione internazionale, tendenzialmente tra i primi interessi della società russa, che – sia per una “deformazione ideologica” derivante dal passato sia per la consapevolezza del proprio status di potenza mondiale – continua ad interessarsi notevolmente ai principali affari internazionali, anche quando questi non coinvolgono direttamente il Paese. Del resto, pure in questo ambito politico, i pericolosi dialoghi tra il Cremlino e la Nato, le ultime visite di Barack Obama in Polonia e in Repubblica Ceca, e la debolezza mostrata dal Ministro degli Esteri Sergeij Lavrov dinnanzi alla crisi libica – cominciata con le pesantissime accuse di Putin in merito alla “crociata medievaleggiante occidentale contro Gheddafi” e finita col riconoscimento del CNT dei ribelli – hanno intimorito l’opinione pubblica nazionale, e dato forza al Partito Comunista, immediatamente sceso in piazza, sin dal marzo scorso, a supporto del Colonnello Gheddafi nel segno di un vero e proprio asse di amicizia e solidarietà tra Russia, Serbia e Libia. A gettare benzina sul fuoco, è poi stato l’incontro tra Medvedev e il primo ministro britannico David Cameron, che ha registrato la disponibilità del presidente russo a stabilire un pacchetto di sanzioni “purché equilibrate”, contro la Siria di Assad (principale partner della Russia in Medio Oriente).

L’allarme lanciato da Zyuganov proprio all’inizio del mese è serio e va ascoltato: la crisi libica e la crisi siriana insegnano che la Nato è ormai entrata in una nuova fase storica, che da un lato mutua dal passato vecchie e criminali forme di aggressione sulla base di un rinnovato “colonialismo di spartizione”, e dall’altro impone una nuova ondata di destabilizzazione internazionale sul modello “arancione” ucraino, per il controllo delle risorse e dei mercati, secondo una strategia generale addirittura in grado di minacciare la stessa Russia. Zyuganov ha messo in guardia la popolazione e il governo, invitandolo ad evitare ogni compromissione con gli aggressori e ribadendo l’assoluta criminalità dei Paesi del Patto Atlantico.

La forza propulsiva che il PCFR sembra aver ritrovato ha contribuito, appena un anno fa, alla conquista elettorale di Irkutsk e di altre importanti aree regionali della Siberia, dove l’attività politica procede in maniera spedita. Per volontà del Comitato Centrale, nel luglio scorso, il PCFR ha poi lanciato dalla città di Nizhny Novgorod, il Corpo dei Volontari del Popolo, una formazione militante di chiara matrice patriottica, che, sin dal nome, richiama esplicitamente la guerra di liberazione contro l’invasione polacca, guidata dai due eroi nazionali Kusma Minin e Dimitrij Pozharskij nel XVII secolo, e che – a quanto risulta dalle cifre fornite dal Partito – può contare sull’appoggio di circa 1200 organizzazioni pubbliche e di quasi 3 milioni e mezzo di militanti. Zyuganov – per altro non nuovo a questo genere di parallelismi storici, come già accaduto nel caso dei paragoni tra l’invasione teutonica e l’invasione hitleriana, tra i Torbidi dell’era dei Godunov e dei “falsi Dimitrij” e gli oligarchi dell’era Eltsin, o anche tra la “raccolta delle terre” del 1654 e la riannessione dell’Ucraina e della Bielorussia occidentali nel 1939 – ha dunque così risposto alla costituzione del Fronte Popolare di tutta la Russia, creato da Putin tempo addietro per costruire un consenso in vista delle prossime elezioni.

Anche nel campo della militanza giovanile, la sfida va avanti da diversi anni, e vede accendersi il confronto tra la formazione dei Nashi, un movimento di ispirazione “popolare, antifascista e democratica” fortemente voluto dallo stesso Putin, e lo storico Komsomol, che Zyuganov ha riportato in vita dal passato sovietico sino a coinvolgere migliaia di bambini e adolescenti in tutto il Paese attraverso lodevoli iniziative sociali, viaggi di istruzione e visite guidate.

Le proposte del PCFR per questa campagna elettorale sono impegnative e riassunte in un programma sintetizzabile in due parole: “nazionalizzazione” e “modernizzazione socialista”, anzitutto per quanto riguarda il settore delle materie prime e gli altri settori strategici, le ferrovie, la rete elettrica, gli oleodotti, le comunicazioni e il complesso militar-industriale. In una recente intervista, Zyuganov ribadisce che tutti questi settori costituiscono il comparto strategico nel quale lo Stato deve tornare a ripristinare la sua supremazia, ribadendo però al contempo come la completa statalizzazione di tutta la vita economica del Paese abbia rappresentato uno dei più decisivi errori commessi durante il periodo sovietico, riconoscendo l’importanza di un complementare settore “privato” vincolato a “criteri nazionali”, in tutte le sfere della produzione, sulla scia della Teoria delle Tre Rappresentanze fissata durante l’era Jiang Zemin dal Partito Comunista Cinese.

La candidatura di Putin praticamente parte oggi, ed è dunque presto per capire quale sarà nel dettaglio il suo programma, al di là delle frasi di circostanza pronunciate sin’ora, dove si rintracciano vaghi riferimenti alla necessità della crescita, del riarmo e della promozione del “business russo” per attirare gli investimenti esteri nel Paese: riferimenti che lasciano intendere la possibilità sempre più concreta di un prossimo ingresso di Mosca nel WTO ed un più deciso inserimento nei mercati internazionali, a probabile discapito della stabilità sociale interna.

In ogni caso, quello che si delinea in modo piuttosto netto rispetto al pur recente passato, è un quadro politico interno abbastanza coeso, molto meno disunito di quanto risulti all’esterno, e dove l’altalena Putin-Medvedev potrebbe presumibilmente rispondere a criteri di bilanciamento del potere, nel tentativo di intercettare consensi sia negli ambienti nazional-conservatori che in quelli liberali.

È indubbio che in Russia questa linea, sul piano geopolitico, sia destinata allo stallo nel breve-medio termine e al fallimento nel lungo termine, poiché, da un punto vista propriamente geostrategico, si traduce nel tentativo di conciliare una vocazione “neo-pietrista” ed europeista, quando non esplicitamente “occidentalista” – che de facto riduce la Russia in una più ristretta dimensione nazionale, indebolendone conseguentemente qualunque “proiezione di potenza” – con una vocazione essenzialmente “neo-ivanista” ed eurasiatica, ben più in grado di rispondere alla natura geografica ed etnografica del Paese e alla matrice “continentale” della sua sfera di pertinenza – allargata, cioè, quanto meno all’Ucraina, alla Bielorussia, alla Georgia e al Kazakistan.

Questa fase di stallo – come osservato anche dal filosofo Aleksandr Dugin in una recente intervista – ha lasciato le cose a metà, nel mezzo di un percorso incompiuto. Starà al popolo russo e ai suoi futuri governanti decidere se andare avanti o ritornare drammaticamente sui propri passi.