Santa torinese chiesa automobilistica Fiat
Santa torinese chiesa automobilistica Fiat, icona sbiadita dello scorso millennio che ha scoperto l’America con secoli di ritardo, infatuandosene perdutamente, ha annunciato di essere sovradimensionata rispetto al mercato europeo, pertanto sarà costretta a dismettere qualche Basilica di culto bullonico, forse chissà proprio in Basilicata.
Dire che lo avevamo detto è antipatico, ma effettivamente lo avevamo detto. Nonostante Melfi sia lo stabilimento più moderno ed efficiente del gruppo piemontese, ormai ai piedi di cristo oltreché a quelli di Obama, rischia di perdere la sfida con Mirafiori che rappresenta la Storia stessa della fabbrica fondata da Giovanni Agnelli nel 1899.
Gli illusi della mano invisibile autoregolatrice degli scambi e della concorrenza che non guarda in faccia a nessuno, ubbidendo soltanto alla legge economica del minimax (minimo sforzo, massimo risultato), vengono nuovamente smentiti.
Ragioni strategiche ed opportunità politiche, rispetto alla mera convenienza economica, determinano una decisione industriale per i 2/3 tanto che la sede del Nord sarà probabilmente preferita all’impianto lucano. E poco conta che in tutti questi anni la Fiat abbia usufruito di una cascata di sovvenzionamenti pubblici a fondo perduto, cioè denaro della collettività, per i suoi investimenti privati, soprattutto nel Sud Italia. Per questo abbiamo in odio la retorica paternalistica dei vertici aziendali e dei funzionari del capitale che quando s’attaccano alla mammella dello Stato ciucciano sempre per il bene del popolo al quale offrono opportunità di lavoro e prosperità, ma non appena la vacca istituzionale smette di erogare gratis si ricordano di essere innanzitutto capitalisti che devono anteporre le prerogative di una popolazione molto più ristretta, quella degli azionisti, all’armonia sociale.
Adesso che non conviene più offrire occupazione agli straccioni meridionali, visto che è lo stesso Stato ad abbandonarli al loro destino, si smobilita ogni cosa e si trasferiscono i macchinari altrove. Giusto? Giusto un corno perché Marchionne, come manager che pensa ai profitti ha tutto il diritto di scegliere dove produrre, cosa produrre e come farlo ma i cittadini, primi azionisti morali di questa neomultinazionale senza patria (anche questa è bella, perché non si era mai sentita prima), hanno il diritto di sapere con immediatezza le intenzioni del Gruppo, in maniera da affidare gli spazi ad altri imprenditori volenterosi o di cercare soluzioni per la riconversione della produzione. Innanzitutto, se davvero Marchionne può davvero fare a meno della mano pubblica italiana è unicamente perché ha ricevuto l’intero braccio statunitense.
Non esiste società multinazionale che possa affrontare solitariamente le insidie delle piazze estere; il rischio di vedere compromessi i propri crediti ed investimenti, soprattutto in aree instabili del globo, sarebbe altissimo e se non intervenisse lo Stato d’origine a proteggere i suoi interessi commerciali che passano dalle sue imprese pubbliche e private nessuno si avventurerebbe lungo le vie del mercato globale. L’Amministrazione Americana tutto ciò lo sa bene e quando qualche Ceo o consiglio d’amministrazione ubriacato dai suoi stessi convincimenti ideologici globalisti lo dimentica, mette immediatamente da parte le buone maniere, ricordando ai suoi strateghi industriali come stanno realmente le cose. Ecco cosa scriveva uno dei principali commentatori di affari internazionali del New York Times, Thomas Friedman, nonché consigliere legato ad ambienti politici Usa, qualche tempo fa:
“La mano invisibile del mercato globale non opera mai senza il pugno invisibile. E il pugno invisibile che mantiene sicuro il mondo per il fiorire delle tecnologie della Silicon Valley si chiama Esercito degli Stati Uniti, Marina degli Stati Uniti, Aviazione degli Stati Uniti, corpo dei Marines degli Stati Uniti (con l’aiuto, incidentalmente, delle istituzioni globali come le Nazioni Unite e il fondo monetario internazionale… per questo quando sento un manager che dice ‘non siamo una compagnia statunitense, siamo IBM-USA, o IBM-Canada, o IBM-Australia, o IBM-Cina’, gli dico ‘ah si? bene, allora la prossima volta che avete un problema in Cina chiamate Li Peng perché vi aiuti. E la prossima volta che il Congresso liquida una base militare in Asia – e voi dite che non vi riguarda, perché non vi interessa quello che fa Washington – chiamate la marina di Microsoft perché assicuri le rotte marittime dell’Asia. E la prossima volta che un congressista repubblicano principiante chiede di chiudere più ambasciate statunitensi, chiami America-On-Line quando perde il passaporto’ “.
Chiaro sig. Marchionne, che ci tratti tutti da minchioni provinciali? In secondo luogo, i muri della Sata sono stati eretti col denaro dei contribuenti ed è corretto che, nell’eventualità di dismissione o trasloco da parte del Lingotto, questi ritornino ai legittimi “muratori” pubblici i quali dovranno ingegnarsi per evitare un altro disastro sociale, ricadente in una grave fase di crisi sistemica globale. Se applicassimo questo principio di ripristino del capitale pubblico a tutte le 4 sedi della Fiat, al fantomatico management multinazionalista di Marchionne resterebbe in mano solo qualche chiave inglese e forse un pugno di fili elettrici.
In trent’anni, con l’elargizione di sussidi per 7,6 miliardi di euro (una parte di questi erogata durante l’era Marchionne), lo Stato italiano avrebbe potuto comprare la Fiat tre volte mettendosi in tasca qualche spicciolo come resto. Ad ogni modo, ora non avremmo a che fare con nessunissimo Cavaliere canadese del lavoro altrui (grazie ancora al nonno della patria Giorgio Napolitano che distribuisce onorificenze come caramelle), il quale viene pure a farci la morale economica e finanziaria. Non siamo esagitati “Fiomisti”, anzi i borbottatori sindacali ci stanno ampiamente sulle ruote di scorta, ma nemmeno ci lasciamo accecare dalle fumisterie di un Dirigente cosmopolita chiacchierone che quanto a parole di scappamento e rodomontate di sbiellamento supera di gran lunga l’ingrippamento dei vari leaders della Fiom. Perché, ad esempio, non si parla più del piano di rilancio della produzione Fabbrica-Italia? E dove sono i nuovi modelli promessi dall’Ad italo-canadese? Non ci sono perché questi progetti erano nuvole di fumo atte a coprire le manovre di Fiat intenta a trasferirsi definitivamente a Detroit, mantenendo in Italia gli Uffici “Promesse Smarrite” e quelli “Lamentale verso le Maestranze” che non si piegano abbastanza ai ritmi, ai bassi salari e ai regimi polizieschi normalmente in uso negli impianti del Gruppo. La letteratura è così vasta sul tema che quasi non fa più notizia, nonostante continuino a piovere pronunciamenti della magistratura sfavorevoli alla Società sui metodi vessatori e discriminatori in uso nei suoi complessi.
Dovrebbe ormai essere intelligibile, al colto e all’inclita, che la Fiat non ha assorbito Chrysler ma viceversa. Se la prima resta in Italia, quantunque minacci a giorni alterni di voler lasciare lo Stivale, è per ragioni strategiche e geopolitiche. Non andrà da nessuna parte perché gli statunitensi la vogliono tenere qui da noi, essendo detta azienda non un semplice centro di produzione industriale ma, principalmente, un intreccio di rapporti finanziari e politici sbilanciati verso Washington che se ne serve per costringerci a restare in settori di precedenti ondate tecnologiche (quindi non competitivi), oppure per creare scompiglio nelle relazioni industriali nostrane, producendo caos e scollamento sociale all’occorrenza. Ne tengano conto i sindacati e i decisori istituzionali quando si piegano ai ricatti di Marchionne; così facendo costoro alimentano il cavallo di Troia che ci tiene sotto scacco. Nessun compromesso soddisferà Marchionne il quale tenterà di spostare, con la minaccia dei posti di lavoro che si perdono, il limite del tollerabile fino all’inverosimile. Delle due l’una: o si sarà complici stupidi di questo piano antitaliano oppure traditori consapevoli.