SCIENZA E AMBIENTE di M. Tozzato
a seguire Ghostbusters di Piero Pagliani
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Ormai da diverso tempo gli studiosi distinguono i diritti e le libertà fondamentali in “generazioni”, facendo riferimento al periodo storico in cui si sono affermati e ai documenti che li hanno sanciti. Essi vengono perciò suddivisi in: 1) libertà e diritti di prima generazione, <<che ricomprendono soprattutto libertà a carattere individuale, generalmente suddivise in libertà civili (che tutelano la persona nella sua libertà di agire) e libertà politiche (che consentono la partecipazione al governo e agli uffici pubblici del proprio Paese)>>; 2) libertà e diritti di seconda generazione, <<nella quale sono generalmente ricompresi diritti economici, sociali e culturali>>; 3) diritti e libertà di terza generazione, <<anche noti come diritti di solidarietà perché non hanno come destinatario un singolo individuo ma interi gruppi sociali (o popoli): ecco quindi che si parla di diritto all’autodeterminazione dei popoli, alla pace, allo sviluppo, all’equilibrio ecologico, al controllo delle risorse nazionali, alla difesa dell’ambiente, alla tutela dei minori e delle donne >>; 4) diritti e libertà di quarta generazione, che sono diritti <<ancora in fase di riconoscimento relativi al campo delle manipolazioni genetiche e della bioetica, delle nuove tecnologie della comunicazioni, del mondo degli animali>>. Le problematiche ecologiche ed ambientali vengono ricordate, ad esempio, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (del dicembre 2000):<< 37. Tutela dell’ambiente. – Un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile.>> In maniera più estesa possiamo ritrovare il riferimento alle tematiche ecologiche in un documento elaborato nel marzo 2000 dalla Commissione della Carta della Terra, che era nata nel 1995 all’Aia su iniziativa dell’ONU. Nel documento vengono ricordati quattro principi considerati di importanza cruciale:<<1) Proteggi e ristabilisci l’integrità dei sistemi ecologici della Terra, prestando particolare attenzione alla diversità biologica e ai processi naturali che sostengono la vita; 2) Previeni i danni come migliore metodo di protezione ambientale e, quando le conoscenze siano limitate, adotta un approccio cautelativo; 3) Adotta modelli di produzione, consumo e riproduzione che rispettino le capacità rigenerative della Terra, i diritti umani e il benessere delle comunità; 4) Sviluppa lo studio della sostenibilità ecologica e promuovi il libero scambio e l’applicazione diffusa delle conoscenze così acquisite.>> Come ulteriore specificazione riguardante il terzo principio si prospettano delle misure che potrebbero portare al raggiungimento di quei fini:<<Riducendo l’uso, riutilizzando e riciclando i materiali usati nei processi di produzione e consumo e assicurandosi che i rifiuti residui possano essere assorbiti dai sistemi ecologici; imponendo limitazioni ed efficienza nell’utilizzo dell’energia e affidandosi sempre più spesso alle fonti di energia rinnovabile […]; promuovendo lo sviluppo, l’adozione ed il trasferimento equo delle tecnologie ecologicamente efficaci; includendo per intero nel prezzo di vendita i costi ambientali e sociali dei beni e dei servizi e permettendo ai consumatori di riconoscere i prodotti conformi alle migliori normative sociali ed ambientali>>. Al quarto principio sopra riportato vengono aggiunte tre prescrizioni: 1) promuovere <<la cooperazione scientifica e tecnologica internazionale sulla sostenibilità, con particolare attenzione ai bisogni dei paesi in via di sviluppo>>; 2) riconoscere e preservare <<le conoscenze tradizionali e la saggezza spirituale presenti in ogni cultura che contribuiscono alla tutela dell’ambiente e al benessere umano>>; 3) garantire << che le informazioni di importanza vitale per la salute umana e la tutela dell’ambiente, comprese le informazioni genetiche, restino di pubblico dominio e a disposizione di tutti>>.
Come si vede, quindi, tra i diritti umani fondamentali e universali vengono annoverati anche quelli relativi allo sviluppo, all’equilibrio ecologico e alla difesa dell’ambiente ma in una prima riflessione preliminare su questi temi non si può prescindere dalla considerazione del significato che la stessa categoria di diritti universali dell’uomo (e della donna) rivestono all’interno di un’ analisi e di una politica critica della formazione sociale capitalistica. A questo proposito faremo riferimento all’approccio del giovane Marx nel suo scritto del 1843 intitolato La questione ebraica. Scrive Marx:<< I droits de l’homme, i diritti dell’uomo, vengono in quanto tali distinti dai droits du citoyen, dai diritti del cittadino. Chi è l’homme distinto dal citoyen ? Nient’altro che il membro della società borghese.>> I diritti del cittadino, afferma Marx, <<sono diritti politici, diritti che vengono esercitati solo in comune con gli altri. La partecipazione alla comunità, cioè alla comunità politica, all’essenza dello Stato, costituisce il loro contenuto. Essi appartengono alla categoria della libertà politica, alla categoria dei diritti politici civili>>. E, un poco più avanti, continua riprendendo il riferimento ai “diritti dell’uomo”:<<Innanzi tutto constatiamo il fatto che i cosiddetti diritti dell’uomo, i droits de l’homme in quanto distinti dai droits du citoyen, non sono altro che i diritti del membro della società borghese, ossia dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità>> Il linguaggio filosofico e il riferimento, apparentemente esclusivo, agli individui e non ai gruppi sociali verranno progressivamente superati nelle opere successive, ma già qui noi possiamo tradurre il discorso di Marx abbastanza facilmente. Il riferimento all’egoismo dell’uomo borghese non rimanda tanto alla competizione tra individui atomizzati quanto piuttosto alla complessiva dinamica conflittuale che caratterizza quella che , sulla scorta di Hegel, Marx chiama società civile come sfera del mercato, dei bisogni e della produzione. Ma nel suo rifarsi all’individuo “atomizzato” e separato della “società borghese” si vedono anticipate, anche, le elaborazioni marxiane più tarde in cui viene messo in risalto il prevalere ideologico e culturale, nelle condizioni capitalistiche, dell’aspetto circolatorio, orizzontale delle relazioni sociali. Come possessore, venditore ed acquirente di merci ogni individuo è formalmente eguale ad ogni altro, l’unica differenza è di tipo quantitativo, cioè relativo alla quantità di moneta in possesso di ognuno. Anche come consumatori siamo tutti , in un certo modo allo stesso livello; certo, pure qui dipende sempre da quanti beni siamo in grado di acquistare, ma se i valori d’uso in circolazione sono di qualità scadente, se sono tossici, se vengono prodotti in maniera non conforme alle norme stabilite, il danno, in qualche modo, riguarda tutti i gruppi sociali, dalle fasce più povere sino alle classi dominanti. Ne Il Capitale Marx trova che solo nell’analisi della produzione, del modo di produzione (sia nel suo aspetto storico-sociale che in quello tecnico-organizzativo) viene smascherata la mistificazione a cui è soggetta la coscienza quando si limita a concentrare l’attenzione sulla moneta, lo scambio e il consumo. I diritti universali dell’uomo appartengono a questo livello di interpretazione dell’organizzazione sociale, essi valgono per tutta l’umanità indipendentemente dai ruoli e dalle funzioni economiche , sociali e culturali in cui gli individui e i gruppi risultano inseriti. Se, come nella nostra Costituzione repubblicana, si usa l’espressione “formazione sociale” questa viene intesa come luogo sociale cooperativo solidale ed unitario. I diritti all’interno di queste “formazioni sociali”, sia che si tratti della famiglia, della scuola, dei partiti politici, dei sindacati, delle comunità religiose, delle imprese, degli enti pubblici o altro vengono indistintamente attribuiti a tutti i membri senza considerare i differenziali di sapere e potere che esistono tra questi stessi membri. L’introduzione del concetto di eguaglianza sostanziale da perseguire evitando di creare discriminazioni nei confronti di quei soggetti che hanno bisogno di maggiori tutele – regolando in maniera specifica situazioni obiettivamente differenti – si configura come il classico sistema di tener conto, parzialmente, delle eccezioni per meglio far funzionare la “regola”. Marx, ancora ne La questione ebraica , scrive:<<La libertà è dunque il diritto di fare e di esercitare tutto ciò che non nuoce agli altri. […] ma il diritto dell’uomo alla libertà non si fonda sul legame dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto sull’isolamento dell’uomo. E’ il diritto di questo isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato a se stesso. […] L’égalité, intesa qui nel suo significato apolitico, non è altro che l’eguaglianza della suddetta libertà, ossia: che ogni uomo viene egualmente considerato come una tale monade conchiusa in se stessa.>> Marx conclude questo ragionamento citando l’articolo 3° della Costituzione dell’anno III (1795): <<L’eguaglianza consiste nel fatto che
Appello promosso da Legambiente
Contro ogni fondamentalismo, per una scienza alleata dell’ambiente
Con questo appello ci rivolgiamo alle istituzioni, alle imprese, alla comunità scientifica, al mondo ambientalista, a tutta l’opinione pubblica, perché prendano piena coscienza del nesso inscindibile che lega il progresso della scienza, di una scienza libera e responsabile, all’obiettivo di contrastare il degrado ambientale che minaccia gli equilibri ecologici, colpisce la vita degli uomini di oggi, ipoteca il destino delle future generazioni.
Sebbene i movimenti ecologisti siano stati influenzati anche da posizioni utopistiche, l’ambientalismo è però un pensiero politico a forte impronta scientifica: un pensiero le cui radici affondano nei nuovi paradigmi scientifici sull’interazione tra uomo e ambiente affermati dalla biologia e dall’ecologia nel corso dell’Ottocento e del Novecento, a partire dalla definizione del ruolo dell’ambiente nella teoria darwiniana dell’evoluzione. Analogamente, è dalla scienza che viene, nel corso del Novecento, l’intuizione che il meccanicismo di matrice cartesiana non è sufficiente a descrivere e spiegare la complessità e l’interdipendenza del mondo naturale e in particolare della vita.
Più di recente, sono stati i genetisti molecolari ad avvertire dei possibili pericoli derivanti dall’uso delle tecniche cosiddette del "Dna ricombinante", mentre dall’analisi dei comportamenti dinamici delle reti biologiche e dell’ambiente nel suo complesso sono venute indicazioni fortemente innovative per tutta la scienza, indicazioni che hanno contribuito allo sviluppo di intere discipline come la fisica e la matematica dei processi di dinamica non lineare e allo stesso sviluppo dell’ecologia e della meteorologia.
La continuità tra l’ecologia come riflessione scientifica ed epistemologica e l’ambientalismo come pensiero e movimento politico è del resto testimoniata dalla formazione tecnico-scientifica di moltissimi dei protagonisti antichi e recenti dell’impegno per la difesa dell’ambiente: erano botanici ed agronomi i primi conservazionisti americani dell’inizio del secolo scorso, cui si deve la creazione dei grandi parchi nazionali da Yellowstone a Yosemite; erano biologi gli autori dei libri di denuncia sul rischio di estinzione delle specie animali pubblicati negli anni ’60; erano matematici, demografi ed economisti gli studiosi che all’inizio degli anni ’70 lanciarono l’allarme sul pericolo che la crescita della popolazione e dei consumi esaurisse le risorse naturali e provocasse livelli d’inquinamento insopportabili per gli equilibri ecologici del pianeta; ed erano scienziati – biologi, economisti, fisici – anche i padri dell’ecologia politica, a cominciare da Barry Commoner, che un quarto di secolo fa teorizzarono la necessità di una riforma radicale dei meccanismi dello sviluppo economico e tecnologico come principale antidoto alla crisi ecologica.
D’altra parte, molti dei temi centrali nella denuncia e nell’azione del movimento ambientalista hanno agito da stimolo alla ricerca scientifica. Dall’aumento dell’effetto serra al buco nell’ozono, dal problema energetico fino ai possibili effetti secondari delle applicazioni di ingegneria genetica, i progressi delle conoscenze scientifiche si sono dimostrati un ausilio indispensabile nell’impegno per meglio valutare e per ridurre i rischi ambientali.
Per tutto questo, noi ci ribelliamo ai tentativi di contrapporre le ragioni della scienza a quelle della difesa dell’ambiente.
Ci opponiamo al fondamentalismo di chi, nel mondo ambientalista, esprime posizioni antiscientifiche e vede negli scienziati dei nemici.
Questo atteggiamento, che si manifesta il più delle volte nella tendenza a confondere scienza e tecnologia, fa leva su paure irrazionali ed ancestrali – il timore della "intrusione" nel nostro corpo e nella nostra mente e della perdita d’identità – e sul "mito del ricordo" che identifica il passato con un Eden immaginario. Su di esso, inoltre, influiscono negativamente i mezzi di comunicazione di massa, che utilizzano la paura e l’orrore come uno dei mezzi principali per catturare l’attenzione del pubblico, e anche l’approccio rigidamente rassicurante dei "tecnologi" che inevitabilmente aumenta la diffidenza verso la scienza e le sue applicazioni.
Al tempo stesso ci opponiamo alle campagne strumentali o disinformate di quanti descrivono l’ambientalismo come una cultura nemica della scienza, del progresso, giungendo per questa via a negare l’evidenza scientifica di problemi globali come l’aumento dell’effetto serra e le sue origini antropiche, o di rischi ambientali come la produzione di energia attraverso la fissione nucleare .
Questo opposto fondamentalismo, che negli scienziati e soprattutto nei tecnologi assume talvolta toni emotivi ed irrazionali non molto dissimili da quelli di certo ambientalismo, dà spesso voce ad interessi assai forti e potenti e trova alimento nel senso di frustrazione più che legittimo di molti appartenenti alla comunità scientifica per il ruolo marginale nel quale è tenuta da sempre la ricerca in Italia. Nel nostro Paese la scienza non ha mai goduto del prestigio e dell’attenzione che le sarebbero dovuti, e la domanda di ricerca da cui dipendono i finanziamenti – da parte dei governi ma anche delle imprese e dell’opinione pubblica in genere – é estremamente bassa: per questo scienziati e tecnologi, in lotta perenne per la sopravvivenza, tendono spesso a rifugiarsi dietro baluardi fatti di certezze assolute, dietro una visione assiomatica e determinista della scienza, e però queste reazioni finiscono per rafforzare nell’opinione pubblica quella immagine degli scienziati come apprendisti stregoni che è proprio una delle cause della fragilità del sistema della ricerca scientifica in Italia.
Noi crediamo che sia necessario superare questa contrapposizione, e rilanciare un dialogo forte tra comunità scientifica e mondo ambientalista. Un dialogo che deve fondarsi su alcuni valori e principii condivisi:
1. L’ecosistema terrestre è limitato. La sua capacità di eliminare la mole crescente dei rifiuti prodotti dalle attività umana è già oggi in forte crisi. Le sue riserve di biodiversità, essenziali per mantenere i cicli vitali che assicurano la stabilità della biosfera, sono seriamente minacciate. Mutamenti climatici di origine antropica rischiano di alterarne profondamente le caratteristiche fisiche e biologiche, con conseguenze potenzialmente catastrofiche per la vita stessa degli esseri umani. E’ indispensabile avviare da subito azioni individuali e collettive capaci di contrastare con efficacia queste tendenze. A tale scopo, è necessario che da un lato sia utilizzata al massimo la capacità di inventiva individuale e collettiva della nostra specie e che, dall’altro, siano stabilite regole flessibili e concertate di comportamento in favore di una armoniosa convivenza degli esseri umani tra loro e dell’umanità con il resto della biosfera.
2. I problemi da affrontare vedono un intreccio strettissimo tra fattori socio-economici e tecnico-scientifici, perciò tali regole vanno definite sulla base della conoscenza approfondita dei fenomeni in questione adottando i criteri della concertazione democratica a tutti i livelli, da quello delle comunità locali a quello globale del Pianeta.
3. La ricerca di conoscenza deve essere libera, fatti salvi i vincoli derivanti, in particolare in biologia, da possibili danni all’oggetto della sperimentazione. La valutazione dei possibili danni derivanti dalle applicazioni dei risultati della ricerca e l’analisi del rapporto costi/benefici devono tenere conto di elementi non solo economici ma anche degli effetti dell’innovazione sull’ambiente e sulle società umane dal punto di vista della salute, dei rapporti tra gli individui e tra i popoli, delle tradizioni culturali e delle regole bioetiche. .
4. Il progresso delle conoscenze scientifiche è indispensabile alla salvaguardia del sistema umano-ambientale, per indicare vie di uscita efficaci e percorribili in termini di modificazione dei sistemi economici umani che accrescano la capacità omeostatica della biosfera mantenendone la diversità e plasticità e contrastando bruschi cambiamenti globali non controllati né controllabili, e che al tempo stesso permettano di migliorare la qualità della vita degli uomini sia al livello individuale che sociale.
5. Lo studio delle dinamiche dei sistemi viventi ed ambientali é parte integrante della scienza, ed è necessario, al pari di altre aree di ricerca, per aiutare il progresso dei concetti e delle teorie scientifiche. Le applicazioni di tali ricerche, per le loro delicate implicazioni sanitarie, ambientali, economiche, etiche non possono essere sottoposte al regime tradizionale di brevettabilità.
6. Occorre un forte investimento pubblico e privato nella ricerca e nello sviluppo di tecnologie da essa derivate. Le applicazioni tecnologiche vanno sottoposte al vaglio degli strumenti democratici di controllo, e i criteri di tale controllo devono essere oggetto di una discussione complessiva in cui siano determinanti la valutazione dei livelli di imprevedibilità e dunque di rischio potenziale dei diversi prodotti della tecnologia, anche al fine di concretizzare meglio il significato del principio di precauzione nei diversi campi. A questa discussione devono partecipare scienziati delle diverse tendenze e tecnologi ma anche rappresentanti della società civile, in quanto l’analisi deve estendersi alle questioni etiche e sociali.
7. L’esigenza di un più forte investimento nella ricerca è tanto più forte in Italia, dove la quota del Pil destinata a questi usi è molto più bassa della media dei Paesi industrializzati e dove il governo Berlusconi nell’ultima Legge Finanziaria ha ulteriormente tagliato i fondi per la ricerca. I finanziamenti per la ricerca devono essere stabiliti sulla base di programmi di ricerca definiti periodicamente a livello nazionale, nei quali è auspicabile uno spazio consistente per la ricerca di base e, per la parte applicativa, una maggiore presenza delle tematiche ambientali. Inoltre, deve essere favorita la ricerca pubblico-privata, sulla base di piani precisi e di valutazioni ex-ante ed ex-post dei risultati.
Rita Levi Montalcini, Premio Nobel per
Enrico Alleva, Dirigente di Ricerca Laboratorio di Fisiopatologia di Organo e di Sistema Istituto Superiore di Sanità
Luigi Boitani, Direttore Dipartimento Biologia Animale e dell’Uomo Università di Roma "
Enzo Boschi, Presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia
Marcello Buiatti, Professore di Genetica Università di Firenze
Marcello Cini, Professore emerito di Fisica Università di Roma "
Umberto Galimberti, Professore di Filosofia della Storia Università di Venezia
Giorgio Parisi, Professore di Teorie Quantistiche Università di Roma "
Mauro Tozzato 02.03.2008
Ghostbusters di P. Pagliani
Una volta per l’Europa si aggirava un fantasma. Ora che questo fantasma sembra essere stato esorcizzato o accalappiato, si stanno materializzando i veri incubi.
A mia conoscenza, la teoria marxista e la conseguente "speranza comunista" si basavano su alcuni capisaldi teorici intrecciati o consequenziali tra di loro e sintetizzati nel concetto di "modo di produzione capitalistico":
1) teoria del valore-lavoro, e conseguente teoria dello sfruttamento capitalistico,
2) progressiva estensione del lavoro collettivo cooperativo associato,
3) concentrazione dei capitali e riduzione dei capitalisti a puri rentier,
4) acquisizione da parte dei lavoratori cooperativi associati (dall’ultimo manovale all’ingegnere) di una coscienza di classe, ovverosia della coscienza del proprio posizionamento – e quindi dei propri interessi – nel modo di produzione capitalistico e collegamento di tale posizionamento al proprio ruolo storico, più o meno come era successo alla borghesia nel XIX secolo (cosa che in termini filosofici veniva definita come passaggio da essere classe "in sé" ad essere "classe per sé"),
5) limitazioni del processo di riproduzione allargata del capitale intrinseche allo stesso modo di produzione capitalistico (ad esempio la caduta tendenziale del tasso di profitto), con conseguente ostacolo allo sviluppo delle forze produttive,
6) scontro di classe tra il "proletariato" (o meglio il lavoratore cooperativo associato) e la "borghesia" capitalista proprietaria dei mezzi di produzione ma ridotta a classe di percettori di rendita, come esito sovrapersonale dovuto alle contraddizioni interne al modo di produzione capitalistico,
7) superamento del modo di produzione capitalistico in una società comunista.
Il fatidico numero "7" è del tutto casuale nella mia esposizione sintetica. In realtà bisognerebbe aggiungere diverse cose, relative ad esempio all’internazionalismo, al ruolo dello Stato, a quello della finanza, al termine "società comunista" e alcune cose che appaiono, ma secondo me solo superficialmente, più di carattere "filosofico", come i concetti di "alienazione" e di "lavoro alienato".
Ora è evidente che quasi tutti i sette punti sono stati smentiti negli ultimi 150 anni e non si può che essere grati a chi per primo ha avuto il coraggio di ammetterlo e di spronare per un reale avanzamento dell’opera iniziata da Marx e non ad una sua semplice rivisitazione, reinterpretazione o attualizzazione. A mio parere ciò con cui non si sono fatti ancora tutti i conti è la teoria del valore-lavoro e quella del lavoro alienato. Ma qui la discussione è più che mai aperta.
Di sicuro, il capitalismo, attraverso crisi, guerre mondiali, innovazioni di processo e di prodotto, si è dimostrato diabolicamente capace di superare ogni crisi.
Al contrario la prevista socializzazione del lavoro nel tempo è diventata una frammentazione e l’idea di coscienza rivoluzionaria di classe ha dovuto subire seri emendamenti da parte già dei primi rivoluzionari marxisti (innanzitutto Lenin).
Riconoscere che fin’ora è stato così ma affermare che la cosiddetta globalizzazione confermerebbe, finalmente, le previsioni di Marx è puro rito consolatorio oppure puro gioco intellettuale buono solo a non far capire le cose. E inoltre è un insulto alla stessa intelligenza di Marx. Trattare un Marx scienziato, e quindi con un raggio di previsione del breve o medio termine (perché nel lungo termine "siamo tutti morti", come diceva Keynes, massimo economista del secolo scorso ma in questo caso, più che altro, persona ragionante), trattarlo, dicevo, come un Marx-Nostradamus e "Il Capitale" come una collezione di cinquine, è veramente fargli torto. Proprio non me lo vedo Marx astrologare nel 1848: "Adesso esorto i proletari di tutto il mondo ad unirsi perché tra 150 anni le mie previsioni si avvereranno". C’è chi non si vergogna di pensarlo, ma io sì.
Ma ammesso questo, bisogna anche ammettere che è successo un grosso guaio. Perché veramente quei sette punti erano delle coordinate fondamentali per l’interpretazione del mondo e per l’azione, anche etica, nel mondo.
Se i termini non sono più quelli, perché continuare a intestardirsi a fare gli anticapitalisti?
In realtà ci sono molte reazioni possibili. Vediamone alcune che vanno per la maggiore e altre che sono minoritarie.
A) Passare dalla parte del capitalismo. Con varianti anche molto diverse tra di loro:
A.1) Passare armi e bagagli dalla parte del capitalismo "qui e ora", quello che è empiricamente dominante e che subisce empiricamente il predominio USA. E’ un’opzione, oserei dire, "affollata".
A.2) Passare dalla parte del capitalismo che è destinato ad egemonizzare la prossima fase monocentrica, se del caso, o ai capitalismi che possono essere predominanti in una prossima fase policentrica (intendo dire, il "Capitalismo euroasiatico", Russia, India e Cina, tanto per intenderci).
E’ un’opzione che raccoglie un modo variopinto.
C’è chi pensa che essa sia il modo migliore per opporsi alla deriva USA a sua volta dovuta alla subornazione statunitense da un complotto della perfida Albione, che avrebbe visto a capo personaggi come Bertrand Russell e il Duca di Edimburgo. E’ il caso del democratico eretico, Lyndon LaRouche (vedi http://it.wikipedia.org/wiki/Lyndon_LaRouche – attenzione, che LaRouche è stravagante, ambiguo, ma intelligente e informato).
Poi c’è chi pensa che così si riusciranno a sventare i piani del famoso "complotto pluto-giudaico", che per alcuni ci minaccerebbe dai tempi dei "Protocolli dei Savi di Sion" (sic!). Va da sé che sto parlando dei neonazisti, ma anche, ad esempio, degli ultrà nazionalisti russi (si veda ad esempio http://lanazioneeurasia.altervista.org). Persone che al solo sentire il termine geopolitico "Eurasia", vanno in brodo di giuggiole (tanto che un mio libro del 2003, che sventuratamente aveva questo termine nel titolo, è stato ampiamente citato in alcuni loro siti).
A.3) Propugnare un capitalismo nazionale forte in grado di ottenere il massimo dei vantaggi dalla nuova fase policentrica e minimizzare i danni dovuti al collasso dell’attuale fase monocentrica USA.
B) Mettersi dalla parte dei dominati, di chi subisce questi processi.
Anche qui esistono numerose varianti, difficili da elencare tutte, ma che usando categorie di grana grossa, che inevitabilmente non sono ortogonali tra loro ma si combinano in varie gradazioni, possiamo identificare principalmente così:
B.1) I fautori di una sorta di Romanticismo Economico-Ecologico, secondo cui il vero limite dello sviluppo capitalistico non è di tipo economico, bensì di tipo ecologico, dovuto alla finitezza delle risorse.
B.2) I fautori di una "governance" dal basso, o per lo meno negoziata, dei processi di globalizzazione, dove far valere la clausola della salvaguardia del maggior vantaggio (passatemi l’analogia), in modo tale da poter difendere interessi acquisiti da parte di chi rischia di essere travolto dalla "modernizzazione" e, se possibile, avere una porzione maggiore di reddito in contrasto con la progressiva polarizzazione della ricchezza.
B.3) I fautori di una crescita "dal basso" (brutto termine che uso impropriamente) di una coscienza rivoluzionaria che permetta alle comunità di autorganizzarsi e coordinarsi nella lotta contro il potere economico e quello politico, generalmente inteso come sostegno del primo.
Si potrebbe andare avanti a ulteriori categorizzazioni e sotto-categorizzazioni. Ma per ora non ne vale la pena.
E’ evidente che nel blocco B si raccolgono quelle ipotesi e modi di sentire dove lo "sfruttamento del proletariato" è sostituito, anche in termini morali, dal malessere e dalle condizioni di vita di centinaia di milioni di persone che in Occidente e nel resto del mondo dal processo di rimondializzazione del capitalismo subiscono enormi danni, arretramento delle condizioni di vita e persino delle possibilità stesse di esistenza. E’ pure evidente che se non si posiziona la cosiddetta globalizzazione nell’ambito della crisi sistemica di quell’egemonia statunitense iniziata con la fine della II Guerra Mondiale, non si fanno molti passi nella direzione giusta, si lascia spazio a formule vaghe, spiritualiste e ambigue dove si possono comodamente inserire professionisti della confusione, lobby di varia natura e strumentalizzazioni di ogni tipo.
Ad ogni modo, nei paesi emergenti le condizioni di centinaia di milioni di persone sono simili o peggiori a quelle dei proletari londinesi descritte da Marx o Dickens, mentre nei paesi avanzati le condizioni di vita si stanno deteriorando con maggiore o minore rapidità ma in modo progressivo. Ciò porta a pensare che un processo combinato di sviluppo economico e di lotta organizzata possa indurre un miglioramento delle condizioni di vita di queste persone (che si contano a miliardi, 836 milioni nella sola India), un po’ come è avvenuto negli anni scorsi nella Corea del Sud ed è quanto è avvenuto nel corso del Novecento in Occidente.
Dei due citati, il fattore "lotta" è imprescindibile. Sicuramente necessita di precisazione. C’è la lotta per lasciare le cose come stanno, c’é quella per una ridistribuzione più ampia della torta e c’é quella per il sol dell’avvenir come se niente fosse successo (vedi i Maoisti indiani). Si badi che le tre si possono intrecciare.
L’altro fattore, cioè lo "sviluppo", va anch’esso qualificato e non lasciato immerso in una vaga idea di "progresso".
Lo sviluppo (chiamiamolo così, per ora, senza virgolette) genera contraddizioni e lotte, perché è un processo governato dal Potere o, per essere più precisi, da vari segmenti del Potere economico in alleanza con vari segmenti del Potere territoriale, in lotta sia con le classi subalterne, sia tra di loro, spesso in modo intrecciato (a volte i vari poteri mobilitano essi stessi la resistenza delle classi subordinate per farsi la guerra). E quindi è necessaria un’analisi di fase su "sviluppo e governo dello sviluppo", perché non esiste nessuno sviluppo in un vuoto sociale e in un vuoto di potere.
Non solo. Non esiste uno sviluppo oggi che possa essere uguale a quello di 100 o 200 anni fa. Perché sono cambiati i prodotti, le tecnologie, i metodi di management delle aziende e le loro strutture proprietarie, ed è diverso l’ambiente sociale, anche in termini numerici, quello politico internazionale e quello culturale. Ed è diverso l’ambiente ecologico. E quindi molto verosimilmente, ma ovviamente è una cosa che va analizzata con cura, lo spazio di soluzione delle contraddizioni che si aprono coi nuovi cicli di sviluppo si è sensibilmente ridotto.
Una volta che si è lasciati alle spalle della storia il povero spettro che si aggirava, ormai derelitto, per l’Europa, è giocoforza per gli anticapitalisti fare i conti col termine "sviluppo" (capitalistico), anche per poterlo coniugare efficacemente con il termine "lotta".
Ma ho la sensazione che presi da questo nuovo compito inedito, da qualche tempo noi si stia privilegiando il fattore "sviluppo" in modo, diciamo così, stand-alone. Col risultato che, magari involontariamente o perché non si ha ancora altro metro, rischia di diventare "sviluppo" tutto ciò che non è "lotta", il contrario di tutto ciò che una volta era considerato opposizione legittima o dubbio legittimo ma che è servito, indubbiamente, come trampolino di lancio o come santuario di conservazione ad un ceto politico di sinistra al di là del bene e del male.
Tuttavia un conto è sbugiardare gli Al Gore o additare al pubblico ludibrio un Pecoraro-Scanio che nemmeno si rende conto delle scemenze che dice alla Conferenza Nazionale sul Clima (vi ricordate, la facezie dell’Italia con un riscaldamento quattro volte maggiore della media mondiale?) e le loro politiche confusionarie e lobbistiche, un conto è sputtanare i Verdi per aver coperto la peraltro inquinantissima, oltre che criminale, guerra contro la Serbia, un altro conto è assumere metodicamente posizioni anti-ambientaliste. Un conto è richiedere sacrosanti investimenti in capitale sociale fisso, un altro è, faccio un’ipotesi, considerare di tale natura la costruzione del ponte sullo Stretto. Un conto è non farsi infinocchiare da La Repubblica, un altro è considerare come oro colato quel che dice Il Giornale e i suoi corsivisti come il professor Franco Battaglia, che danno per certo ciò che non è affatto certo tra gli scienziati, in modo speculare a quanto fanno quelli dell’altra parte. Ad esempio, tra gli ambientalisti non seri ogni correlazione anche vaga è prova di un rapporto causa-effetto, mentre per il nostro Franco Battaglia, specularmente, ogni correlazione anche strettissima è destinata metodologicamente a non diventare mai un rapporto causa-effetto, con gli stessi ragionamenti usati dalle multinazionali del tabacco per contestare il rapporto fumo-tumori e che mi ricordano quelli di un suo antesignano, un professore di fisiologia di chiara fama internazionale, che mentre eravamo a cena in una località di montagna, se ne uscì dicendo che non aveva senso dire che l’aria di montagna era migliore di quella di città, perché le componenti fondamentali erano le stesse. Come a dire, bevete pure l’acqua del Tevere, perché tanto l’acqua è sempre H2O. Ed era uno scienziato. E siccome ne esistono di questi scienziati, bisogna stare attenti.
Per quale motivo dovrebbe essere più corretto il rapporto ONU su Chernobyl che non quello, ad esempio, di Greenpeace che si avvale di un numero straordinario di dati e di scienziati? Anche se personalmente il rapporto di Greenpeace mi convince poco per alcuni aspetti soprattutto metodologici, non di meno trovo ottimistiche le stime dell’UNSCEAR. E ad ogni modo, prudenza vorrebbe che in un settore in cui approcci, metodologie e risultati sono spesso oggetto di discussione (entro certi limiti, ovvio) come gli studi epidemiologici dei tumori ambientali, non ci si sbilanciasse troppo, specialmente se non si è esperti, in una direzione o nell’altra.
Perché invece lo facciamo? Per sostenere che bisogna costruire le centrali nucleari in Italia? Ma allora è addirittura meglio sostenerlo con altre motivazioni. Io comunque ci andrei molto cauto. Non ce l’ho col nucleare in termini ideologici. Anzi, a dirla tutta, ritengo che se praticabile risolverebbe un’infinità di problemi. Cerco di orientarmi in termini tecnici (che non sono per niente chiari – altrimenti, tra le altre cose, non si capirebbe perché tanti scienziati atomici siano diventati antinuclearisti) e in termini politici, perché tutta la filiera del nucleare è collegato strettamente alla gestione del potere (basta vedere cosa è successo in Francia durante la crisi di Chernobyl). E mi ricordo bene dell’incidente di Three Mile Island 2, dove ufficialmente non ci furono morti (però non ci fu nemmeno nessuno studio epidemiologico) ma in compenso si arrivò a soli 150 gradi dal punto di fusione del nucleo di uranio, cosa che avrebbe comportato una catastrofe (su ciò tutti concordano) e fece fallire la Metropolitan Edison. La British Energy, che gestisce le centrali nucleari inglesi, l’anno scorso ha presentato un passivo di 130 milioni di sterline. Negli USA non si ordinano più centrali nucleari dal 1978 e secondo una rapporto del Department of Energy (DOE) il 31% dell’attuale capacità produttiva sarà smantellata entro il 2015. Le stime di spesa per lo stoccaggio sicuro delle scorie nucleari sono spaventose: per gli Stati Uniti oltre 110 miliardi di dollari, per la Francia 7 miliardi e per la Germania 5.
Per contro nemmeno io credo che l’eolico sia una soluzione proponibile su larga scala, ma ho il sospetto che l’efficienza dell’ 1% del fotovoltaico sparata da Franco Battaglia, sia in effetti da riferirsi alla fotosintesi dei vegetali verdi, che è un’altra cosa (il rendimento nominale dei moduli oggi disponibili varia dal 6% al 16% a seconda del tipo, mentre quello dei moduli aerospaziali arriva al 40%). Insomma, sono temi che gli scienziati dibattono, su cui è insensato stare a sentire chi la spara più grossa, temi su cui molto poco è risolto e che quindi lasciano perplessi anche diversi attori economici (provate a chiedere a una società di assicurazioni USA se è disposta ad assicurare una centrale nucleare o gli effetti non a brevissimo termine degli OGM?).
Perché allora sbilanciarci ideologicamente da una parte? E’ anche rischioso da un punto di vista politico, dato che su molte di queste cose, ad esempio il nucleare, il carbone, le antenne, ecc… , alla fine ci sarà certo una convergenza tra Veltroni e Berlusconi e saranno un vero simbolo della nuova stagione del Veltrusconismo senza se e senza ma.
Visto che il piano per l’energia di Berlusconi segue punto per punto il Franco Battaglia pensiero, perché allora non lo votiamo? Magari assieme alla lottizzazione di ogni metro quadrato di costa o di montagna, in via diretta o tramite condono.
Possiamo invece avere un punto di vista nostro, con nostre ragioni, con nostre prospettive, o dobbiamo involontariamente o per forza metterci al carro di questo o di quello?
Per concludere, così come la fisica newtoniana ha dovuto cedere il passo a quella quantistica per spiegare i fenomeni di base della materia, allo stesso modo bisognerebbe far fare una rivoluzione quantistica al marxismo. Non sarà per niente facile, ma iniziamo almeno ad esplicitare le grandi scelte che abbiamo di fronte e le grandi categorie con cui e su cui si vuole iniziare a ragionare per un nuovo anticapitalismo, guardando sì allo “sviluppo” ma non dimenticandoci che, così come è nato, il capitalismo si rigenera sempre “grondando sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro”. E questa non è una previsione.
Piero Pagliani