SEMPRE PIU’ “A SINISTRA”; UN ERRORE CHE SI RIPETE SEMPRE
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E’ dal 1953 che sono in politica, compiendo immediatamente la scelta per il comunismo. Dal 1956 (via italiana al socialismo, da me subito rifiutata) mi sono sempre sentito ripetere, ad ogni pie’ sospinto, che bisognava essere realisti, accettare il “meno peggio”, poiché vi era sempre una “reazione in agguato”, un fascismo alle porte. Nel 1968 e 1977, alcuni generosi (ma un po’ sciocchini) hanno cianciato di rivoluzione imminente (alcuni addirittura tramite le “radio libere”; un po’ come adesso con internet). Posso garantire che non ci ho mai creduto nemmeno per un millesimo di secondo, e tuttavia sono stato sostanzialmente dalla loro parte pur con scarsa considerazione per la loro comprensione dei fatti. Fin dall’inizio ho criticato aspramente le tesi (1969) del Collettivo politico metropolitano di Milano, antecedente storico delle BR; ma ho sempre disprezzato i delatori e perbenisti che li trattavano come semplici delinquenti e, inoltre, tramite l’azione del “Ministro di polizia” (ombra) del PCI – lascio il nome a chi ricorda quel “tristo” figuro – coadiuvavano pienamente la DC nella repressione di chiunque intendesse, pur senza essere minimamente “collaterale” a BR o Prima Linea, ecc., non accettare però la rapida involuzione del sedicente “movimento operaio”, ormai complice delle peggiori malefatte dei nostri dominanti e pienamente maturo per la “grande abiura” compiuta dopo il 1989-91, che lo fece diventare il braccio politico preferito dai peggiori e più parassitari capitalisti finanziari e industriali italiani (e americani).
A partire, soprattutto, da questa grande abiura stiamo assistendo ad un poco piacevole “sport nazionale”. Si ricrea continuamente una sinistra radicale che critica i cedimenti di quella moderata, la quale si difende adducendo sempre la scusa che “Annibale è alle porte” (da ormai quasi 15 anni Annibale = Berlusconi). Passa un po’ di tempo e la sinistra radicale comincia a predicare a sua volta che c’è il pericolo del ritorno di “Annibale”, e smussa perciò le sue posizioni avvicinandosi a quella moderata. Allora nasce un’altra sinistra radicale che critica la precedente per i suoi cedimenti e…il gioco ricomincia (francamente ho ormai perso il conto di quante volte, dal 1992, esso si è ripetuto). Intendiamoci: non è che si sia semplicemente in presenza di squallidi tradimenti di personaggi intrinsecamente laidi e opportunisti. Tuttavia, si deve capire una cosa: nel bene e nel male, ogni processo storico, pur avendo una sua connotazione causale oggettiva, trova però sempre i suoi “uomini giusti”, i soggetti che lo portano a compimento.
La Rivoluzione d’ottobre non l’ha fatta Lenin; si è trattato di un complesso concorso di cause e concause, che tuttavia esigevano la presenza, ad un certo punto, di un personaggio con le qualità di Lenin. Il tradimento delle socialdemocrazie nel 1914 non è stato perpetrato, con riunioni segrete e giuramenti di sangue, da alcuni loschi dirigenti alla Kautsky. Si era già verificata una profonda e progressiva involuzione del movimento operaio nei paesi a capitalismo avanzato, che è infine precipitata nel momento cruciale della guerra; ma tale involuzione ha dovuto comunque “selezionare” i suoi dirigenti peggiori (rinnegati) per affermarsi. Quindi, ad una visione di superficie, i processi rivoluzionari appaiono guidati da grandi personaggi coerenti; mentre i processi involutivi appaiono guidati da marci traditori. Ma è una apparenza reale; i rivoluzionari sono come Lenin e gli opportunisti e rinnegati come Kautsky. Bisogna capire i motivi oggettivi dei successi e delle involuzioni, inneggiando però nel contempo ai grandi capi rivoluzionari e sputando addosso ai mascalzoni che tradiscono. Lo ripeto: nel bene e nel male, le situazioni oggettive selezionano gli “eroi” e i “traditori”, che hanno proprio quelle caratteristiche personali adatte a guidare quei processi: rivoluzionari o involutivi.
Quindi sputare oggi addosso a Fassino, D’Alema, Veltroni, Bertinotti, Diliberto (non posso fare qui un elenco di centinaia e migliaia di persone) è lecito perché sono dei rinnegati e dei traditori; sono personalità infide, in perfetta malafede, sono gli Jago della situazione; ma certo hanno potuto compiere la loro perversa opera perché siamo in piena putrefazione. Dall’altra parte, i “generosi”, i “più puri” (o almeno quelli con “migliori intenzioni”) non hanno capito che stavano al gioco dei
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peggiori, che coadiuvavano i processi degenerativi in grado di consentire a questi peggiori di dirigerli.
Siamo in forte ritardo, ma ci si dovrebbe almeno rendere conto che è necessario intanto comprendere i processi oggettivi che selezionano questi “Gano di Maganza”, questi esseri soggettivamente torbidi e tortuosi. Cogliere i tratti essenziali di tali processi di putrefazione è il primario sforzo da compiere; perché oggi non ci sono per nulla chiari, impastoiati come siamo – e vogliamo rimanere – in categorie di interpretazione “storica” ormai nulle, ineffettuali. Invece no, non si tenta nemmeno di dare inizio a questi sforzi; ci si dà solo un gran daffare per organizzare nuove “sinistre radicali” che si pongano – per quanti anni a venire? – a sinistra di quella radicale di qualche anno fa e oggi divenuta moderata. Mi pregio di stare compiendo – con fatica, lentezza e gradualità – un lavoro di comprensione della situazione attuale; nel mentre non mi esimo dal gettare merda su mascalzoni e farabutti, soggettivi protagonisti e interpreti di fenomeni oggettivi che esigono un’analisi di fase (congiunturale), in aggiunta a quella più specificamente indirizzata alla formulazione di categorie concettuali che spero risultino più appropriate (almeno tento).
Qui mi limito a poche notazioni in merito agli errori di chi è in buona fede – così voglio pensare, altrimenti c’è da disperarsi – nella sua opposizione alla deriva dell’attuale sinistra definita radicale. Secondo me vengono compiuti alcuni errori di valutazione, seguiti da una generica propaganda a volte fin troppo populista e che vorrebbe, senza riuscirci, coinvolgere “la popolazione” (che non esiste attualmente in questa sua configurazione “all’ingrosso”; a mio avviso puramente immaginaria). Si dice sempre, nel voler rifondare una sinistra più a sinistra di quella presente in ogni dato momento, che quest’ultima tradisce i bisogni del popolo, le sue esigenze (magari pacifiche); ci si richiama alla difesa della “democrazia” contro coloro che la stanno ledendo, e qui in Italia si fa sempre appello alla Costituzione. Cominciamo da quest’ultima.
Essa è nata da un chiaro compromesso, legato ai patti di Yalta per cui l’Italia doveva restare nell’area del cosiddetto “mondo libero”, sotto egemonia americana, con la costituzione (quella vera) del Patto Atlantico, ecc. Tutti fingono da anni che i comunisti – nerbo principale della Resistenza – stessero solo conducendo una lotta di liberazione nazionale e per il ripristino della democrazia abbattuta dal fascismo. Questa è la vera grande menzogna che, iniettata come un veleno per decenni, ha infine condotto alla grande abiura degli anni ’90. I comunisti volevano la rivoluzione sociale, volevano il “socialismo” come in URSS; ma dovettero adattarsi ai suddetti patti tra le “grandi potenze” vincitrici della guerra. Nulla di meglio, per capire il tutto, dell’articolo della Costituzione sulla funzione sociale dell’iniziativa privata, comunque tutelata e incoraggiata. A quell’epoca, iniziativa privata era sinonimo di capitalismo (occidentale), mentre quella “pubblica” (la proprietà statale dei mezzi produttivi) era sinonimo di “socialismo” (URSS e dintorni); o, come minimo, di precondizione dello stesso, in quanto gradino che immediatamente lo precedeva. Quindi, la Costituzione rifletteva, nella tutela della proprietà privata (capitalistica), il fatto che l’Italia stava al di qua della cosiddetta “cortina di ferro”. Però, dato che prima del 18 aprile 1948 l’influenza del PCI era fortissima (ci si ricorda ancora del Governo di unità nazionale, dove il mio maestro, il comunista Antonio Pesenti, fu Ministro delle finanze?), furono introdotte le paroline sulla funzione sociale di questa proprietà.
A partire dal cappotto elettorale inflitto dalla DC (e alleati, fra cui la sinistra traditrice dell’epoca, nella figura del PSDI di Saragat) al Fronte Popolare, la socialità della proprietà privata andò a farsi benedire e quest’ultima fu affermata in tutta la sua prepotenza e sfruttamento. Sia in sede aziendale – ad es. con i reparti confino alla Fiat, con i comunisti discriminati nei luoghi di lavoro; e guai a chi sfoggiava “L’Unità” in tasca – sia con la “bella” Celere scelbiana e i tanti morti lasciati sulle strade (per non parlare della mafia e Giuliano, di Portella della Ginestra, ecc.). Solo dopo, in pieni anni ’60, con il boom alle spalle, la morsa si allentò. L’agiografia di sinistra dice che ciò fu il risultato delle meravigliose lotte operaie (soprattutto dovute ai nuovi operai, i contadini del sud emigrati al nord). Senza voler sminuire il coraggio “soggettivo” di molti capi operai (sindacali e
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partitici) del periodo, sarebbe bene cominciare a dire che il capitalismo non era quello pensato dal “marxismo” di allora – con il suo involucro proprietario che avrebbe impedito lo sviluppo delle forze produttive per cui sarebbe stato ineluttabilmente spezzato – né tanto meno quello dei seguaci della Luxemburg (soprattutto socialisti “di sinistra”) che credevano alla necessità delle aree precapitalistiche per realizzare il plusvalore; senza le quali, e in Italia si stavano restringendo fortemente, il capitalismo sarebbe andato verso il crollo o la stagnazione (e sarebbe quindi esplosa la solita immancabile Rivoluzione).
Il capitalismo ha dimostrato di saper sviluppare i consumi di massa (con la concessione dei necessari aumenti salariali) onde allargare i mercati di vendita, di cui ha bisogno per svilupparsi; con anche l’incessante trasformazione tecnico-organizzativa dei processi lavorativi: in fabbrica, nei campi, e altrove. Ha dimostrato, quindi, di saper procurare il miglioramento delle condizioni nei luoghi di lavoro e l’accrescimento del tenore di vita degli stessi ceti lavoratori salariati. E non per bontà, ma perché tutto questo consente sia l’aumento della produttività del lavoro sia la realizzazione del plusvalore nella stessa area capitalistica (senza ricorrere, se non come “soprappiù”, alle aree precapitalistiche di luxemburghiana memoria). E mentre nel “putrefatto” capitalismo si verificavano simili processi, nel “Paradiso socialista” si doveva concedere alla “classe operaia al potere” la bassissima produttività, legata a ritmi lavorativi ridicoli e a tecnologie primitive, in cambio di un tenore di vita striminzito, senza tanti aumenti salariali, e con le masse contadine (la maggioranza della popolazione) “strizzate” in un processo di “accumulazione forzata”; del tutto improduttiva e inefficace, fra l’altro, perché solo necessaria al potere delle oligarchie partitiche trasformatesi in una sorta di “satrapia”. Con i bei risultati venuti a maturazione nel 1989-91.
Quanto appena scritto risponde anche alle ingenuità di coloro che fondano nuove sinistre “radicali” per migliorare le condizioni di vita del popolo (qualcuno pensa a quello lavoratore, sottintendendo quello soltanto salariato e a bassi livelli di reddito; altri si sforzano di pensare all’insieme della popolazione a più basso tenore di vita). Indubbiamente, per motivi biologici (generazionali), si è persa o si sta perdendo la memoria di che cosa fosse l’Italia pre-boom. Non è escluso che negli anni a venire – con ritmi di sviluppo sostanzialmente bassi (pur nascosti da saggi “ufficiali” di crescita del Pil abbondantemente truccati, come quelli dell’aumento del costo della vita), con crescita del lavoro precario e saltuario sia nel settore salariato che in quello detto “autonomo”, e via dicendo – cresca una situazione di disagio e di scontento. Non sarà però, e a lungo, un processo impetuoso e di carattere “rivoluzionario”.
Tutti predicano, e sotto sotto sperano, in una nuova grande crisi del capitalismo. Ci si rende poco conto che i violenti sconquassi – non solo la crisi del 1929, ma soprattutto due guerre mondiali, vero innesco di processi rivoluzionari – sono avvenuti non per puri motivi economici (“di mera superficie”) ma perché il sistema ha attraversato, tra la fine dell’800 e il 1945, una fase policentrica (imperialistica) di intensa conflittualità interna alle classi dominanti (e tra grandi potenze capitalistiche). Anzi, in sé e per sé, la grande crisi del ’29 ha dato vita a fenomeni politici violenti, ma non proprio di sconfitta delle classi dominanti; le uniche “rivoluzioni” – quelle che definisco dentro il capitale – sono state il consolidamento del fascismo italiano, l’ascesa del nazismo tedesco, del franchismo spagnolo ecc. Ci piace questa conclusione? In ogni caso, non siamo ancora in una fase policentrica, e dovremmo smetterla di parlare, e fondare nuovi gruppi di “sinistra radicale”, come se fossimo alla vigilia di sconvolgimenti “epocali”. Se anche venisse una crisi del tipo 1929, essa non avrebbe nemmeno gli stessi risultati di allora; e non provocherebbe, di per sé stessa, un declino accelerato della preminenza USA e una più rapida entrata nell’epoca policentrica, che si appressa ma non certo a passi di gigante. Forse, il primo risultato di una eventuale forte crisi sarebbe un accentuarsi della subordinazione europea; al massimo, ne trarrebbero qualche vantaggio (geopolitico) paesi come Russia e Cina.
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Il “popolo” – categoria astratta, nel senso di assolutamente generica e immaginaria – sta ancora relativamente bene, non ha voglia di rischiare troppo le sue piccole ferie, qualche viaggetto o qualche week-end “fuori porta”, una pizza e una birra una o due volte la settimana; per i “colti” qualche film, qualche concerto, qualche “museata”, e poi qualche bella conferenza culturale (filosofica, letteraria, ecc.), dove magari si parli della prossima “fine del mondo” (dovuta al dominio della Tecnica e alla distruzione ambientale), in modo da andare a letto e godere intanto più intensamente (visto che ormai la catastrofe è vicina) di quel bel calduccio e comodità. Poi, c’è sempre qualche “simpatica” manifestazione da fare, con candele e lumini; se qualcuno vuol rischiare un po’ di più, c’è lo scontro con la polizia (la maggioranza dei giovani preferisce però le discoteche e qualche sbatacchiamento sui platani). Cerchiamo di vedere le cose come sono, pur sapendo che la “realtà” (quella proprio reale non esiste) è sempre frutto di interpretazioni e di ipotesi teoriche che le reggono. Eppure c’è uno iato tra l’ipotesi e il fantasticare di masse in movimento, che appoggeranno la nuova sinistra radicale – da noi fondata in qualche assemblea piena di entusiasmo (e che arriva perfino a riempire la sala di un cinema da 500 posti!) – perché sono “affamate”; evidentemente soprattutto di …..democrazia, di poter contare e influire sul potere e sulle sue decisioni che in genere non controlla nemmeno per l’ 1 %.
E qui casca l’asino, siamo proprio al punctum dolens dell’intera faccenda: la “democrazia”, questa parola abusata per indicare il Nulla; e tuttavia un “nulla” che è fonte di molte conseguenze negative. Non esiste alcuna effettiva democrazia, se non un semplice “nome” che copre tante nefandezze, soprusi e prepotenze; ma le copre con levità, le addolcisce, le fa ingoiare alla stragrande maggioranza delle popolazioni, fino a quando i dominanti non hanno proprio bisogno di aggredirsi fra loro, di regolare una volta per tutte certi conti. Ma non siamo a questo punto, nemmeno un po’ vicini. Non bisogna comunque pensare alla democrazia, bisogna imparare ad espungerla dal nostro linguaggio in quanto è il “nulla”, fonte di varie ignominie, che è; forse, se ci si riuscirà, comincerà a serpeggiare qua e là qualche “radicalismo”, ma non certo di “sinistra”.
Lenin poneva in luce che la migliore forma delle dittatura borghese (linguaggio dell’epoca) era la Repubblica democratica. Con felice intuizione, egli la vedeva superiore, nel garantire i privilegi dei dominanti, a qualsiasi dittatura apertamente autoritaria, che del resto è una semplice sospensione temporanea (non breve) delle regole della “democratica” riproduzione dei rapporti di dominio capitalistici, in momenti di particolare difficoltà della stessa; per cui occorre compiere un’opera di “risanamento”, interna ai meccanismi riproduttivi tipici di un sistema capitalistico, al fine di ripristinare le condizioni per un nuovo loro funzionamento “democratico”. Del resto che cos’è questa democrazia? Forse l’espressione di un’autentica volontà della maggioranza del popolo, e in particolare della sua parte meno abbiente? E’ solo il chiamare a raccolta tale popolo, una volta ogni tot anni, per partecipare ad un rito che serva a nominare i suoi presunti rappresentanti, che sono in realtà un gruppo di persone coperte di (effimeri ma abbaglianti) onori, di tanto “oro” (stipendi favolosi), privilegi e poteri di vario genere, purché rispondano sempre agli interessi di quei gruppi che sono gli oppressori, gli sfruttatori (ma con tanto di vaselina annessa), del popolo in questione.
Innanzitutto, va detto che gli oppressori, i dominanti, riescono nel loro gioco di inganno e turlupinatura del popolo (che a lungo ne resta consenziente) perché corrompono le élites che lo dirigono (nella sfera politica), e comprano i ceti intellettuali che, messi a biascicare le loro prediche (prepagate) dai mass media da tali dominanti posseduti e controllati, lo instradano lungo sentieri (ideologici e culturali) che conducono al predominio dei pochi sui tanti. Questa è senza dubbio una “verità”, ma soltanto quella di mera “superficie”. In situazioni di “normale” riproduzione dei rapporti capitalistici (che implicano specifiche forme di predominio da parte di gruppi minoritari fra loro in conflitto), non vi è alcun motivo, per chi sta sotto (salvo non ampie sacche di disagiati o di critici e insofferenti di ogni forma di dominio), di mettere a repentaglio una vita di relativa tranquillità e temporaneo benessere (certamente con differenziatissimi livelli dello stesso), pur se ci si rendesse conto che la propria volontà non viene rispettata da coloro che hanno chiesto e ottenuto
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di essere votati ed eletti. Tanto più che questo voto, nelle situazioni di “normale” riproduzione della specifica struttura capitalistica (normale nel senso che il conflitto tra dominanti non ha ancora raggiunto livelli di inconciliabilità), assume effettivamente il carattere di un rito; tanto è vero che vi si partecipa più volentieri in giornate piovose e uggiose, mentre se splende il Sole tende a prevalere in molti la preferenza per una vacanza, un pic-nic, una bella nuotata, una scalata, ecc.
In determinate situazioni – che possono riguardare, nelle epoche policentriche, il conflitto tra formazioni particolari nell’ambito di quella globale (mondiale); o invece, in specifiche congiunture, lo scontro aperto e ormai senza regole tra gruppi dominanti in una certa formazione particolare [per il significato di queste espressioni si veda nel sito di ripensaremarx il mio saggio su “pubblico e privato ecc.”] – si giunge ad una aperta crisi, mai soltanto economica, che impedisce la “normale” riproduzione capitalistica, provocando l’aperto affrontamento tra dominanti e un mutamento delle regole del gioco che comporta l’emergere, tra di essi, di nuovi gruppi. Si può trattare dell’uscita da una fase policentrica con predominanza di una formazione particolare sulle altre facenti parte di quella globale; oppure del predominio di nuovi raggruppamenti sociali (stretti sotto l’egemonia di un qualche nuovo gruppo dominante) nell’ambito di una formazione particolare; o anche dei due fenomeni che avvengono in concomitanza e si avvitano l’un l’altro.
In ogni caso, questi passaggi non avvengono in forma elettorale, a meno che questa non assuma la mera veste di una conferma “popolare” voluta e imposta dall’alto; oppure svolga, in un “punto” di estrema precipitazione della crisi di consenso verso il vecchio meccanismo riproduttivo capitalistico, la funzione di choc, che deve però essere seguito da uno scontro rivoluzionario vero e proprio, pena il “ritorno”, spesso violento, all’indietro, alla rivincita dei vecchi gruppi dominanti (tipico esempio di questi processi è stato quello del Cile nel 1970 e 1973).
In ogni caso, non è la “democrazia” elettorale a decidere dell’andamento dei vari fenomeni di autentica crisi di un certo modulo riproduttivo dei rapporti capitalistici. E non è affatto nemmeno deciso in anticipo se – quando all’interno di una formazione particolare si produce la crisi di consenso, lo sbriciolamento delle istituzioni presenti, la presa di coscienza dell’ormai devastante e intollerabile dominio di certi gruppi dominanti (mettiamo ad es. che ciò avvenisse finalmente in futuro nei confronti della nostra squallida e parassitaria GFeID; lo ricordo, un acronimo che sta per “grande finanza e industria decotta”) – si verificherà un semplice rovesciamento di dati gruppi dominanti capitalistici ad opera di altri, che innescano comunque differenti modalità di sviluppo, o invece un più pervasivo tentativo di modificare in senso non capitalistico la formazione sociale (nel qual caso, si deve tener nel massimo conto l’inserimento di quella formazione particolare in un certo contesto globale).
Siamo attualmente in Italia in una situazione di sicuro degrado e marcescenza della società. Ci domina un gruppo di finanzieri e industrial-decotti incapaci di vero sviluppo che ridia slancio al sistema-paese. Dubito assai, però, che si tratti di un punto di effettiva crisi; sembra invece una fase, di incerta lunghezza, di disordine e di sfilacciamento sociali progressivi, con graduale caduta del consenso, senza però che questo si possa con decisione orientare verso qualche nuova forza politica capace di indicare reali cambiamenti radicali: né dando vita a nuove modalità della riproduzione capitalistica né cercando di fuoriuscire da questa. In definitiva, non mi sembra che siamo alla vigilia di un cambiamento rivoluzionario: né dentro il capitale, né contro di esso.
Tuttavia, in una situazione del genere, predicare ancora la democrazia (e inneggiare alla nostra Costituzione, frutto di un compromesso di oltre mezzo secolo fa, in condizioni che non hanno alcuna parentela con quelle attuali) è un vero abbaglio; insistere nell’errore significa, oggettivamente, continuare a turlupinare il popolo, voler aiutare le classi dominanti attuali (la GFeID) ad uscire dalla crisi di consenso che, sia pure in modo confuso e non consapevole, le sta investendo. Quelle forze che vogliono criticare la fu sinistra “radicale” di ieri, proponendo di crearne una nuova, saranno senza dubbio in buona fede, ma assumono una funzione reazionaria, di copertura delle magagne di un sistema capitalistico in mano a gruppi di predatori asserviti allo
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straniero (statunitense). E’ inutile che mi si dica che si è contro gli USA, che si difende la nostra indipendenza, che si vogliono aiutare gli strati deboli della popolazione. Se si predica la “democrazia” – in quanto miglior involucro di una “dittatura di classe”, che oggi è quella dei peggiori, e più devastanti, gruppi di tale classe – si opera per attutire il dissenso, per lenire il disgusto, lo schifo che vasti settori di popolazione nutrono verso le attuali “istituzioni democratiche”. Meglio, centomila volte meglio, un dilagante qualunquismo, che non è quello (nostalgico del fascismo) dell’immediato dopoguerra, ma esprime invece la ancor confusa coscienza che le forze politiche attuali sono bande di “roditori”, di “topi di chiavica”, che rubano a man bassa.
Si cerchi di dar coscienza a questa confusa consapevolezza della “gente” di essere ormai in mano a bande criminali; ma non si accrediti, per favore, l’idea che sia possibile rinnovare la “democrazia”, che è ormai solo la maschera della “dittatura” di gruppi dominanti nefasti. Si deve inoltre combattere questo stupido pacifismo e la non violenza ad oltranza. Non ha alcun senso, in linea generale e di principio, dichiararsi per la violenza o la non violenza. Si cominci con l’indicare qual è la realtà; compiendo accurate (e nuove) analisi – con nuove categorie teoriche – della fase (congiuntura) di questi anni appena vissuti e dei prossimi in cui vivremo. E’ del tutto prioritario smascherare il sistema di potere dei (sub)dominanti nostrani; essi si avvalgono dell’intero sistema di forze politiche, di destra e di sinistra (con varianti al centro), per ottenebrare la nostra vista al fine di sfruttare a più non posso tutto ciò che è possibile sfruttare. Ma sempre illudendoci che siamo comunque in un sistema “democratico”, che perfino consente la formazione, “a sinistra” della sinistra (che già fu radicale), di un nuovo schieramento ancor più “radicale”; in questo modo, noi continuiamo, come ebeti, a “girare in tondo”, a schiamazzare, a bearci dei nostri roboanti discorsi populistici e democraticistici, senza far loro un baffo.
Andando avanti così, fra 10-20-30 anni, i nostri nipoti si “stringeranno a coorte” creando l’ennesima nuova “sinistra radicale”, che urlerà, manifesterà, si esalterà, perché viene vilipesa la “democrazia” e non è stata ancora pienamente attuata la Costituzione di 80-90 anni prima. Dobbiamo uscire da questo “tunnel”; do simpatia a quelli che sono schifati dell’atteggiamento della sinistra radicale attuale: da Bertinotti alla sua minoranza “ernestiana (oggi già divisa), a Diliberto, ai verdi, ecc. Non si può però fondare una “nuova sinistra” a sinistra della sinistra già esistente; è un comportamento maniacale, ossessivo. E non mi si venga a dire: e allora che cosa facciamo? Si cominci a pensare e non soltanto a muovere vorticosamente le braccia e le gambe o le corde vocali o anche la “penna” (computer) per stilare critiche magari giuste, ma che durano l’espace d’un matin. Queste critiche vanno bene, continuiamo a farle. Tuttavia, si smascheri il gioco più nascosto e perverso dei nostri dominanti e dei loro servi politicanti di destra e di sinistra (con varianti al centro). E, accanto alle critiche di smascheramento più giornaliero, si inizi a pensare una nuova teoria e una nuova analisi dell’epoca attuale. E la si smetta soprattutto con l’inganno della “democrazia” (la Costituzione, per favore, cancellatela dalla vostra testa, ché ve la guasta) e di una nuova sinistra ancora più a sinistra.
Se si continua così, si svolge soltanto una funzione di inganno e di ritardo della crisi di crescente sfiducia che investe ampi settori della popolazione, sedicenti qualunquisti, ma invece molto più sani e positivi dei vecchi arnesi della sinistra ormai sordi alle lezioni di una sconfitta, che ha provocato il continuo stillicidio di rinnegamenti e tradimenti periodici. Dobbiamo alimentare, al momento, questo qualunquismo, questa completa sfiducia e discredito di tutte le istituzioni dette “democratiche” e invece funzionanti maledettamente bene per gli scopi della GFeID e dei (pre)dominanti di cui essa è, alla fin fine, serva malgrado certe mere apparenze in contrario, che nascono solo dal fatto che anche i (pre)dominanti sono divisi in gruppi di agenti fra loro in conflitto per la supremazia (globale).
Non dobbiamo creare nuovi infimi gruppetti di sinistra ancor “più radicale”; è necessario formare gruppi di chiarimento della situazione di fase odierna, gettando fango e sputtanando sistematicamente questa “dittatura democratica” dei parassiti che ci sfruttano: sia che propagandino l’alternanza tra destra e sinistra, sia che ripropongano un nuovo centrismo come ai tempi dei tempi.
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Basta con le puttanate. Smerdiamo la “democrazia”, diffondiamo sfiducia e discredito sulle istituzioni della GFeID; e iniziamo una nuova – ma veramente tale – analisi di una situazione arrivata ad un “ottimo” livello di putredine. Senza cadere in alcun trabocchetto della “violenza”, ma non certo perché predichiamo l’insipida non violenza di principio. Siamo pacifici perché dobbiamo esserlo; intanto smerdiamo gli imbroglioni e i falsi pacifisti. Qualora mutassero – ma non sarà fra poco tempo – i rapporti di forza, si vedrà (credo lo vedranno i più giovani fra noi) il da farsi. I più vecchi, e ormai logorati da infinite sconfitte, la smettano intanto di raccontare frottole su “un nuovo mondo (di pace e prosperità) possibile”. Non abbiamo davanti a noi tempi belli e placidi, bensì sempre più burrascosi. Alla fine, sarà solo questione di rapporti di forza.
In questa fase, limitiamoci intanto alle “armi della critica”; ma che non siamo spuntate con discorsi “a sinistra”, sempre “più a sinistra”. Usiamole invece contro ogni “sinistra radicale”, contro la “democrazia” (del voto e della chiacchiera), contro il mito dell’applicazione, infine quella “vera”, di una Costituzione di mero compromesso (stipulato 60 anni fa, all’epoca dei patti di Yalta). Speriamo invece cresca il discredito di queste istituzioni, la sensazione di essere in mano a bande di malfattori, sia finanziarie che politiche.
5 aprile
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