SFOGLIANDO I GIORNALI di M. Tozzato

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In un articolo del 07.05.2013, sul Sole 24 ore, Francesco Sisci riassume in maniera apparentemente adeguata l’attuale strategia della Cina in rapporto alla configurazione dell’iniziativa geopolitica asiatica e americana. Secondo il giornalista l’atteggiamento Usa in politica estera si è veramente spostato in direzione dell’area dell’oceano Pacifico, stimolando in questo modo il gigante asiatico, guidato dal nuovo leader Xi Jinping – che ha cumulato tutte le cariche importanti del paese nella sua persona (Segretario generale e capo della Commissione militare del PCC, Presidente della RPC e della Commissione militare statale e infine primo ministro) – a tentare di intervenire in zone solitamente lontane dalla sua area d’influenza. Secondo l’autore dell’articolo, negli Stati Uniti degli ultimi due decenni, sta prendendo piede la convinzione che  il gas [ottenuto] da argille (shale gas), possa soddisfare largamente il fabbisogno energetico mondiale nei prossimi decenni, rimpiazzando le riserve convenzionali di gas in via di esaurimento. Il gas ricavato da rocce scistose (argilla compressa) si sta rivelando talmente abbondante che gli Usa si preparano a diventarne addirittura esportatori. Una visione economicistica delle relazioni internazionali porta Sisci a concludere che il Medio Oriente pur rimanendo un problema geostrategico fondamentale – legato al rapporto speciale che unisce gli Usa a Israele – lo è meno di prima per gli statunitensi, a causa della minore dipendenza americana dalle forniture energetiche di quell’area. Meno avanzata tecnologicamente, la Cina, sarebbe destinata, invece, ad aumentare la dipendenza energetica dall’area mediorientale nei prossimi anni, con la necessità di intensificare la sua azione politico-strategica in quella regione. Scrive perciò il giornalista:

<<La Cina ha deciso di entrare politicamente in Medio Oriente ospitando in questi giorni per la prima volta a Pechino un vertice tra israeliani e palestinesi. […]Con la Turchia c’è una antica frizione per l’appoggio di Ankara alla causa indipendentista degli uiguri della regione occidentale cinese del Xinjiang. Con l’Iran invece i rapporti una volta caldi, si stanno man mano intiepidendo. Ciò per venire incontro alle pressioni americane ma anche per tenere presente la crescita dei rapporti con l’Arabia Saudita, rivale regionale dell’Iran. Infine, proprio intorno a Teheran si muovono trame delicate che portano anche in Israele>>.

L’atteggiamento cinese non pare, però, almeno apparentemente, privo di ambiguità: a metà mese il governo Netanyahu firmerà la costituzione di un fondo di investimenti comune sino-israeliano sulle tecnologie verdi da impiegare in    Cina    per il    risparmio    energetico;  ma nello stesso tempo la RPC non disdegna di contrattare anche con i palestinesi, anche se prevalentemente con i settori filo americani come il miliardario e filantropo palestinese Munib Masri. E’ comunque chiaro che questi tentativi di penetrazione cinese nell’area nord-africana e medio-orientale non possono non avvenire che attraverso un rapporto di dialogo e trattative con la superpotenza Usa vista la complessità della situazione nell’area. Così si esprime infatti Sisci:

<<La Libia si è polverizzata nelle lotte fra fazioni tribali. La Siria è un cancro che si sta allargando ovunque. L’Iraq è ben lungi dall’essere un paese normale, mentre la più grande polveriera della regione, l’Egitto, traballa; […] [e] se tutto frana in Medio oriente, bisogna puntare sull’ancora di stabilità Israele>>.

Questo significa – anche se la tattica obamiana prevede un appoggio a Israele più sfumato e apparentemente meno diretto – ancora una volta fare affidamento su rapporti di non belligeranza e di consultazioni bilaterali con gli Usa. In conclusione l’articolo,  oltre a caratterizzarsi per l’eccesso di economicismo, propone un panorama della politica estera cinese decisamente incompleto: i rapporti con la Russia rimangono, infatti, sempre molto importanti, soprattutto per quanto riguarda l’appoggio ad Assad in quel nodo cruciale che è la guerra “civile” in Siria; l’instabilità del Medio Oriente si riallaccia alla lotta tra Usa e Russia per l’egemonia sugli stati ex-Urss; l’area indo-pakistana è un fuoco sotto le ceneri che minaccia di incendiarsi da un momento all’altro. La situazione è molto più complessa, quindi, di quella delineata nell’articolo con l’ovvia considerazione finale che per la Cina rimane di importanza vitale contenere la penetrazione Usa e giapponese nel Pacifico e nell’estremo oriente.

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Sempre sul Sole 24 ore (05.05.2013) l’economista Jean Pisani-Ferry riprende la tematica del debito pubblico e dell’austerità partendo dal saggio degli economisti Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff: Growth in a Time of Debt(2010), in cui essi sostenevano la tesi

<<che il debito pubblico comincia ad avere effetti negativi sulla crescita economica quando raggiunge la soglia del 90% del Pil>>.

Il saggio non risultava, a quanto dicono gli addetti ai lavori, di particolare rilevanza teorica ma come era prevedibile fu molto dibattuto per le sue implicazioni politiche. Ad ogni modo come ricorda Pisani-Ferry:

<<Prima del saggio di Reinhart e Rogoff, le tesi in favore della necessità di risanare i conti pubblici erano basate principalmente sui timori per la sostenibilità del debito pubblico. Il dubbio era se uno Stato sovrano sarebbe stato in grado di rifondere il suo debito, date certe condizioni economiche e finanziarie e date tendenze di lungo periodo come l’invecchiamento della popolazione e le incertezze sugli orientamenti futuri della politica economica>>.

Effettivamente all’inizio del 2010, quando venne pubblicato il saggio Growth in a Time of Debt l’economia globale stava appena emergendo dalla prima fase, iniziata nel 2008, della recessione più grave del dopoguerra. Secondo Pisani-Ferry, gli aiuti che vennero portati soprattutto agli istituti bancari, sono da equiparare ad un piano di stimoli globale in stile keynesiano; in questa maniera pareva si fosse  evitato il peggio e l’interrogativo di politica economica più pressante del momento era se fosse necessario continuare a sostenere l’economia o fosse invece arrivato il momento di cominciare a rimettere in ordine i conti pubblici. Ai neokeynesiani si opponevano i sostenitori delle misure di austerità necessarie per impedire che il debito alle stelle facesse collassare le finanze degli stati. Così il saggio

<<di Reinhart e Rogoff sembrava offrire l’argomento perfetto per i fautori del risanamento rapido, e questo è il motivo per cui è stato tanto citato nei dibattiti sulle politiche economiche. L’austerità, secondo queste persone, era necessaria per arrestare l’aumento del rapporto debito/Pil e salvaguardare la crescita a lungo termine>>.

I risultati delle politiche economiche europee, però, hanno dimostrato che i dati e i calcoli fatti  non erano affidabili e a questo punto avendo promesso che un rapido risanamento dei conti pubblici avrebbe portato benefici per la crescita, mentre invece ha prodotto recessione, l’Unione Europea ha deluso i suoi cittadini. Il logoramento delle politiche di austerity sta lasciando il segno e i Governi rischiano di perdere consenso se insistono nei loro sforzi di risanamento. Pisani-Ferry a questo punto imposta un discorso di “buon senso”, almeno apparente:

<<Il pericolo è che il discredito che è caduto sui sostenitori di un’austerità affrettata possa andare a detrimento dei fautori della responsabilità di bilancio nel lungo periodo. Se così fosse, i mercati finanziari potrebbero giungere alla conclusione che la sostenibilità del debito pubblico è seriamente a rischio, e questa percezione potrebbe avere effetti fortemente negativi sulle condizioni di finanziamento, con il risultato finale di un rallentamento della crescita>>.

In questo gioco delle parti, ovviamente i neokeynesiani avrebbero molto da obiettare e poi esiste anche un fronte in cui si ritrovano monetaristi e keynesiani contro un nemico comune, esiziale per  l’ economia reale : la deflazione. Ed infatti per contrastare il rischio di deflazione, le banche centrali degli Usa e del Giappone  cercano di pompare più liquidità (moneta) nel sistema. Purtroppo il canale tradizionale per farlo (ovvero il sistema bancario) è fortemente “danneggiato”. Per questo Ben Bernanke si è dovuto inventare nuove tecniche, tra cui il famigerato quantitative easing. Il nome curioso nasconde la semplicità dell’idea: la banca centrale stampa moneta con cui compra titoli pubblici. In questo modo ottiene due obiettivi: aumenta la liquidità del sistema e riduce i tassi di interesse a lungo termine. Ai non addetti ai lavori questa manovra può sembrare folle, simile al finanziamento con moneta del deficit pubblico che in molti paesi portò l’inflazione a livelli molto alti. In realtà, esiste una grossa differenza. La moneta emessa per finanziare il deficit non può essere facilmente ritirata dal sistema. Al contrario, se la moneta è emessa per comprare titoli, la banca centrale può ridurre la massa monetaria rivendendo i titoli che ha acquistato. Per questo la prima manovra genera necessariamente inflazione – a meno che in quel determinato paese questa liquidità non metta in attività risorse di capitale e lavoro inutilizzate – mentre la seconda no. Ovviamente questa differenza sussiste solo nella misura in cui lo Stato sovrano non faccia default. Qualora i titoli pubblici non valessero più nulla, le due operazioni avrebbero esattamente lo stesso effetto. Ho parlato troppo di tematiche economiche in questo post ? Sicuramente. Ma La Grassa e gli altri collaboratori del blog hanno più volte, in maniera esaustiva, spiegato e dimostrato come  il momento decisivo sia quello della politica, delle strategie politiche del conflitto per la supremazia. E comunque avremo modo di riparlarne.

Mauro  T.