SGOMBRARE IL CAMPO

Preferisco reintervenire sull’ultimo pezzo da me scritto per il blog onde evitare qualsiasi fraintendimento da parte di ipercritici sempre in agguato per giustificare certe loro posizioni quanto meno ambigue.
Ho scritto, e ripeto, che determinate antinomie sono antitetico-polari (si sorreggono vicendevolmente in un circolo vizioso particolarmente perverso) e sono oggi creazione cialtronesca di intellettuali, in specie di sinistra, che se ne servono per obnubilare le coscienze di tanti “seguaci” già disorientati da una politica che ormai non meriterebbe nemmeno più tale denominazione, tanto miserabile e priva di contenuti è diventata. Un paio di queste antinomie sono destra-sinistra e fascismo-antifascismo. Sia chiaro però che la cialtroneria di cui parlo è in particolare quella odierna della “sinistra al caviale” e dell’antifascismo di chi crede di aver conquistato “all’epoca” un titolo quasi nobiliare (spesso usurpato perché molti sono stati fascisti fino a quando non hanno visto che tale regime era sconfitto, dopo i primi anni della seconda guerra mondiale).
E’ fin troppo ovvio che l’opposizione destra-sinistra, oggi del tutto ridicola e spesso creata ad arte, ha una storia ultrasecolare, che tuttavia non “morde” più come ha ben compreso quel furbacchione di Sarkozy in Francia. Non è che destra e sinistra siano “la stessa cosa”, ma sono entrambe fuori tempo storico, spesso frammischiate tra loro, senza più idee che non siano quelle di come restare il più a lungo possibile aggrappate a belle e vantaggiose posizioni negli apparati pubblici. Provocano ormai disgusto; solo dei professionisti dell’imbroglio, non in grado di svolgere un qualsiasi lavoro utile, possono ancora praticare l’attività presunta politica per puro interesse personale, dediti esclusivamente a maneggi vari per fregare gli avversari (non solo quelli dello schieramento ufficialmente avversario) e stare a galla, del tutto ignari di come vive la gente comune che lavora e li mantiene a ufo. Destra e sinistra non significano più nulla in termini di autentiche scelte e decisioni in grado di intervenire nell’organizzazione della vita di una società nazionale e dei suoi rapporti con le altre; senza alcuna retorica circa il “fare gli interessi della popolazione” (balle!), ma comunque con la cognizione di che cos’è un sistema economico e sociale e quali minime cose sono da fare affinché questo continui a sussistere, e magari a conoscere anche qualche sviluppo.
Quanto all’antifascismo esso rappresentò in Europa, e particolarmente in Italia, un alto momento di rinascita della coscienza civile e diede impulso alla rivolta culturale e morale che cancellò in molti individui, per pochissimi decenni, quell’impronta vile e servile che ha spesso il ceto intellettuale soprattutto italiano. Non mi riferisco quindi soltanto agli anni della Resistenza e immediatamente successivi. Ho ricordi precisi degli anni ’60 e in parte ’70. Ancora oggi vedo e rivedo i film della rinascita di una stagione antifascista; film come “Tutti a casa”, “La lunga notte del ‘43”, “Il terrorista” fino a quelli dei primi anni ’70 come “C’eravamo tanto amati” e “La villeggiatura”. E ne tralascio molti altri (tipo “Le quattro giornate di Napoli”). Li ripropongo spesso in visione a gruppetti di amici; e mi incazzo quando talvolta (per fortuna raramente) non vedo commozione, ma un certo disinteresse che lambisce il fastidio, e mi sento dire che sono bei film, di “civile impegno”, ma “fanno tanto male” per cui sarebbe preferibile ripiegare su quelli dei giorni nostri che, salvo qualcuno (raro) americano o altrimenti quelli per me noiosissimi delle “nuove cinematografie”, non si sa di quale mondo stiano parlando, forse di qualche ossessione del regista: del tutto personale comunque, non certo di carattere “universale”.
Si torni allora alla memoria dell’antifascismo, ma quello vero, pieno di emozione, di sincera e sofferta speranza in un “mondo nuovo”, una speranza delusa e ormai persa. E’ oggi evidente che non si può riproporre pari pari quella esperienza; e chi lo fa cerca soltanto di “pescare nel torbido”. Quando ho visto, nel film “W Zapatero”, lo snobistico Furio Colombo – ex “ambasciatore” (non ufficiale) della Fiat negli USA – parlare dell’ascesa del fascismo paragonandola a quella di Berlusconi, mi è sembrato incredibile che il pubblico accettasse acriticamente la per me più che evidente ipocrisia, condita di “sragionamenti”, di un “antifascista da camera”. E l’idea che questi sia stato nominato, per un buon periodo di tempo, direttore del giornale fondato da Gramsci ha accresciuto la
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mia rabbia. Poi però ho guardato meglio il pubblico che si divertiva a vedere un simile film (di un’autrice simpatica ma politicamente, diciamo così, “ingenua”): nessuna faccia di operaio o comunque di “popolo”, ma solo smorti appartenenti ad un “ceto medio” semicolto, tipico votante dei diesse e un domani dell’ancor peggiore partito democratico, guidato da un fatuo buonista furbacchione che apprezza “Giovannona coscia lunga”, piange sui bambini africani e sulle vecchiette sole, è il monumento vivente al Luogo Comune, alla Banalità che piace a tutti (i fasulli).
Questo antifascismo è un insulto alle speranze deluse di quello autentico; la gente che oggi se ne serve – non come memoria da custodire e da ripensare per capirne i limiti, gli errori da non ripetere, ma soltanto per ingannare i “poveri di spirito” e farsi votare così da poter godere di tutti i ben noti privilegi della “Casta” – non merita alcun rispetto. Sono personaggi di nessun rilievo, di nuovo vili e servili come quelli di prima, come quelli di sempre. Coltiviamo dunque gli autentici ideali antifascisti, preserviamoli e custodiamoli amorevolmente, commoviamoci ancora al loro ricordo; ma questo sia di stimolo ai necessari ripensamenti, all’attualizzazione di un insegnamento che fu di grande momento, un punto saliente della nostra storia, anche nazionale. E invito tutti ad invece odiare e disprezzare i “fintoantifascisti” di oggi, qualsiasi età essi abbiano, perché sono solo un monumento all’opportunismo, all’inganno; la loro vita è un insulto a quelli che sono morti per motivazioni opposte a quelle degli odierni politicanti, giornalisti, intellettuali di sinistra: il peggio della nostra società.
Ribadisco che quella che viene indicata quale sinistra – con termine ormai vuoto di un qualsiasi contenuto – deve divenire l’obiettivo principale della critica feroce di chi ha ancora a cuore le sorti di una possibile, pur se non vicina, trasformazione in meglio della nostra società (per il momento, lasciamo stare il comunismo, per favore). Sono sempre più convinto che, in questo momento, la cosiddetta destra gioca soltanto di rimessa, sfruttando l’antipatia, a volte il vero odio, che solleva la sinistra con il suo essere ormai strutturata attorno al ceto medio semicolto, presuntuoso e snob, di cui ho già detto. Non ho alcuna vicinanza allo stupido ultrafazioso anticomunismo di questa destra, al suo antimodernismo culturale effettivamente rozzo e fastidioso, al suo tendenziale razzismo, sessismo, ecc. Ha tali difetti che me la rendono indigesta. Potrebbe anche avvenire, pur se non credo sia tanto facile, che alla fine riesca nel suo intento di andare a nuove elezioni; in questo momento, sicuramente, le vincerebbe con buon margine, ma sempre attraversata da divergenze interne tali da paralizzarla tanto quanto è paralizzato il centrosinistra.
Perfino in una prospettiva, non gran che probabile, come questa, constato comunque una certa deriva anche in quei pochi spezzoni critici di sinistra (le “poche gemme” di cui parlavo nel mio ultimo pezzo), cui tutto sommato guardo con simpatia e alla cui sostanziale onestà accordo credito; ad es. penso ai resti di quello che fu L’Ernesto, la cui parte maggioritaria si è ormai accodata alla sinistra opportunista e priva, a mio avviso, di moralità e intelligenza politica. Mi sembra però che tutti si dedichino ad analisi soltanto politicistiche, fissate ossessivamente sulle varie mosse degli innumerevoli frammenti in cui sono suddivisi il centrosinistra e il centrodestra (pure denominazioni di comodo, senza alcun contenuto). Il tutto condito con discorsi sulle masse da “convocare” in manifestazioni su temi tutt’altro che strategici (perché, ad es., la legge Biagi, con buona pace dei “difensori dei lavoratori”, non è un obiettivo di tale portata; è solo un tentativo di attaccarsi a un tubo di ossigeno, sperando che non ne escano zaffate di ossido di carbonio). Mi sembra assurdo poi che si parli di “riempire le piazze”. La stessa considerazione farei per il progetto – di cui adesso non sento però più parlare (e speriamo veramente che nessuno lo riproponga) – di raccogliere firme per ripristinare la “scala mobile”. Si sta discorrendo veramente di “farfalle”, mentre nelle vicinanze si odono gli scricchiolii inquietanti di una “diga” che minaccia di crollare. Si è incoscienti o sordi?
Se qualcuno si intrattiene su questi temi di altri tempi con intenzioni di “amarcord”, ho l’età adatta per provare un dolce senso di malinconica e struggente rimemorazione; credo tuttavia più decisivo promuovere una violenta critica di quella sinistra che è ormai divenuta uno strumento dei, almeno per il momento (e per chissà quanto ancora), gruppi finanziari e industriali dominanti. Agnelli firmò l’accordo sulla scala mobile. Montezemolo, un mese fa, ha firmato l’accordo sul Dpef, di fat-
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to accettando l’attuale pressione fiscale, strepitando ora – per pura demagogia ad uso dei piccolo-medi imprenditori e “autonomi” vari – che non deve alzarsi di più, che siamo alla linea del Piave. Adesso c’è fuoco di sbarramento sulla Biagi; ma con qualche altro bel finanziamento statale, e fatta salva la possibilità di continuare ad ingannare un settore sociale che slitta sempre più verso il centrodestra – con ancora alla testa l’odiato Berlusconi, perché Montezemolo, Bazoli e Profumo lo odiano più ancora che non i “sinistri”, che non gli “antifascisti di riporto” – vedrete che un accordo si trova, e comunque non si distruggeranno “tutte le conquiste storiche dei lavoratori”.
Smettiamola con la demagogia, sbandierata soltanto per coprire la propria incapacità d’analisi, in realtà la non volontà di abbandonare le proprie “postazioni” in Parlamento e nelle istituzioni che danno “prestigio” (più “qualche cosa d’altro” ancora). Abbiamo invece bisogno proprio di questa analisi che vada oltre le polemicuzze interne ai “sinistri” spezzoni, e alle piazze da “riempire” con 50 o anche 100 mila sfigati urlanti e danzanti; che più che operai sono gli “sbandati” dei centri sociali (perché queste sono le “masse” mobilitabili tanto per fare casino, con perdita esponenziale di appeal politico presso la stragrande maggioranza della popolazione, quella che lavora sul serio e ne ha pieni i coglioni di cazzate).
Per fortuna non usciamo da una guerra né da una “grande crisi”; non c’è la fame, la disoccupazione dilagante. Queste situazioni estreme non credo potranno ritornare nei paesi della nostra area (di privilegiati); almeno lo spero. Tuttavia, le difficoltà, il malessere, il disagio crescono e lacerano sempre più il tessuto sociale, corrodono i rapporti di una convivenza minimamente organizzata e ordinata; ognuno tende a fare per sé, senza alcun rispetto per gli altri. Lo Stato – non un’entità metafisica, ma ben precise lobbies cui i gruppi dominanti, con trame sotterranee e oscure e in lotta fra loro, assegnano il compito di rappresentare i loro interessi nella sfera della politica tramite organismi strutturati secondo particolari modalità – è divenuto ottusamente oppressivo e costoso; assorbe risorse sempre più ingenti, frutto del lavoro dei “cittadini”, e non restituisce loro più niente poiché non c’è servizio pubblico (sanità, trasporti, strade, poste, gestione corrente degli uffici pubblici, ecc.) che non sia in rapido degrado (o addirittura disfacimento, in specie in alcune parti del paese). Sempre più appare alla luce del Sole la corruzione, o quanto meno i privilegi scandalosi, di coloro che ricoprono le cariche “pubbliche”, elettive o meno che siano.
I vecchi comunisti – per quanto fossero ormai piciisti come li chiamava il sottoscritto – avevano una base sociale popolare, di lavoratori nel senso proprio del termine. Oggi, gli eredi di quei piciisti sono parte integrante della sinistra, schieramento di per sé abbastanza ignobile; essi controllano ancora una quota (si e no la metà di prima) della base lavoratrice per pure ragioni di “vischiosità storica”, ma il loro nerbo fondamentale è rappresentato da una buona fetta di ceto medio, che io ricordo nettamente anticomunista e contro cui ero sempre in lotta. Si tratta per lo più della fetta tendenzialmente inutile (o socialmente meno utile), priva di cultura politica (e con una cultura “generale” media approssimativa e men che mediocre), boriosa, buonista (cioè formalmente buona e realmente cattiva), arrogante, che si crede il “sale” della società, mentre ne rappresenta quella massa di terriccio scivoloso che si accumula quando un edifico si va sgretolando.
Tale ceto medio – ufficialmente sempre pronto a mettere avanti il cuore, a “provare emozioni”, credendo di poter aderire alla realtà immediatisticamente senza troppo ricorrere alle “elucubrazioni razionali” (per le quali bisognerebbe possedere un cervello) – è sotto l’egemonia di un ceto intellettuale “progressista”, che forgia le sbiadite e insopportabili idee, alla moda, del “politicamente corretto”. Si tratta di idee non indegne se non nella sciattezza e totale irresponsabilità (e spesso volgarità) con cui vengono espresse. Tale ceto lancia proclami di tolleranza, di “libero” scambio di opinioni, di antirazzismo, di antisessismo, di libertà di costumi e abitudini a seconda di come pare e piace a ciascuno, di multiculturalismo e piena accettazione dei “diversi”, di totale liberalizzazione all’ingresso di una qualsiasi quantità di immigrati in un qualsiasi dove, ecc. E con queste idee tanto “perfette” influenza il fatuo ceto medio di cui sopra.
A parte il fatto che la loro tolleranza si cambia in faziosità e feroce persecuzione di chiunque
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non predichi la loro tolleranza, a parte che il libero scambio di opinioni si muta in chiusura della stampa, editoria e TV a chiunque eccepisca rispetto ai luoghi comuni del politicamente corretto di questo ceto “progressista”, a parte che il diverso è “amorevolmente” circondato da tante cure e protezioni da fissarlo per sempre nella sua diversità, a parte che la libertà di immigrazione ha il fine ben chiaro e scoperto di portare, nel più breve tempo possibile, tanti bei voti agli amici dei “progressisti”; a parte tutto questo, il ceto intellettuale in questione – composto di scrittori, registi e attori, artisti vari, filosofi, psicologhi, scienziati futurologhi con pruriti di catastrofismo prossimo venturo, conduttori e giornalisti televisivi che parlano talmente bene e armoniosamente da farti assopire mentre le loro parole ti scivolano sulla materia cerebrale e finiscono sotto il tappeto – spargono ai quattro venti le loro “meravigliose” idee, ma non le pensano.
Le propagandano non per convinzione della loro giustezza, ma solo per seminare nel ceto medio semicolto, che rimbambiscono con le loro trovatine di “geni” della vacuità, la convinzione – come cantava Gaber – che tutto “si può”. Il loro “progressismo” è assenza completa di idee profonde e convinte, è relativismo totale, è deprivazione di ogni identità e di ogni senso (e orgoglio) di appartenenza, è la necessità di provare “ogni esperienza”, di permutare mogli e mariti, di scambiare i sessi. Soprattutto, questi “uomini superiori” esigono la mescolanza indistinta e confusa di popoli e culture, ecc. Tanto loro stanno in bei quartieri lontani dal miscelato brulichio della popolazione media (come esempio, pensiamo all’Aventino in quel di Roma); e da questi luoghi “lontani”, possono così osservare molto meglio i risultati delle loro sparate ideologiche tradotte in misera realtà: tutti incazzati, che si guardano in cagnesco, in quartieri sovraffollati in cui si accatasta umanità varia, aree urbane che nemmeno l’amministrazione cittadina si premura più di tenere con un minimo di decenza.
Chi ha letto il racconto “La trottola” di Kafka sa che questo ceto intellettuale è composto da tanti “filosofi” come quello del racconto (per chi non lo conosce, ne riproduco la parte essenziale alla fine di questo scritto). Si tratta di individui, più che inutili, sommamente dannosi, che il ceto medio semicolto di sinistra tratta da oracoli e di cui ascolta adorante le più somme scemenze. Si vergognino i pretesi comunisti a seguire tale ceto medio e l’ammucchiata di pseudointellettuali, che blaterano su tutto, intascando migliaia di euro per creare il vuoto di pensiero attorno ai finanzieri e industriali parassiti dediti ad una sistematica devastazione del paese, divorandone le risorse, imbrogliando e impoverendo milioni di persone senza mai “pagare pegno”; tanto c’è un solo ladro additato al pubblico ludibrio, il “cavaliere nero” fonte di ogni nequizia. Basta combatterlo e il cielo si farà sereno, l’acqua mormorerà nuovamente nei chiari ruscelli, gli uccelli canteranno la nuova “giovinezza, primavera di bellezza”, ma questa volta “di sinistra”: quindi senza più “battaglia del grano” bensì l’aumento di prezzo del pane, senza più “bonifica di paludi” ma montagne di rifiuti alla napoletana, niente “treni in orario” e invece l’“allegro” sfascio generale delle ferrovie.
Non durerà in eterno. Certo, i tempi sono lunghi; l’Italia è in pappe, l’Europa pure salvo pochi paesi che stanno appena un po’ meglio (o meno peggio). La crisi avanza e non sarà solo economica. Adesso è strisciante perché ancora il conflitto (policentrico) non morde abbastanza la supremazia USA; ma i sintomi di un passaggio d’epoca ci sono tutti; e quella che verrà non vedrà, per l’ennesima volta, scaricare ogni dramma sulle aree “periferiche” com’è avvenuto sinora, dal 1945 in poi. Lo ribadisco: la storia non si misura con la vita dei singoli individui, si va a generazioni e generazioni. Ma i tempi non saranno nemmeno quelli dell’esaurimento delle risorse, dei guasti provocati nell’ambiente. Non c’è alcun “millenarismo” nell’annuncio della prossima epoca di crisi; c’è solo da valutare con lucidità quello che si profila nei prossimi 20-30 anni al massimo (e me la prendo larga).
Per intanto, possiamo azzardare una scommessa: malgrado tutte le chiacchiere sulla possibilità di nuovi impetuosi sviluppi del sistema capitalistico sol che si sappia procedere più speditamente sulla via della completa globalizzazione, sol che si combatta il pessimismo della gente (chissà perché è pessimista….), e via “strologando” come fanno gli economisti “specialisti”, non ci sarà invece un’altra fase di alto sviluppo e di sostanziale pace (nella nostra area “occidentale”, perché altrove
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non c’è mai stata). Quando affermo che non si realizzeranno le attese degli “esperti” economici, non parlo per i secoli futuri, e nemmeno pronostico il crollo del capitalismo e la rivoluzione proletaria infine mondiale; simili sciocchezze le lascio ad altri. Intendo solo dire che, nei prossimi (pochissimi) decenni, entreremo in una nuova fase policentrica con tutto ciò che ne consegue (e su cui ho scritto abbastanza negli ultimi anni). Solo questo sostengo, ma mi sembra che basti e avanzi.
La prossima epoca storica sarà dunque connotata più dal dramma che dalla commedia (anche se i due generi si mischieranno come sempre). Un’epoca alla quale – mi sbaglierò, ma questa è la mia convinzione – le attuali minime forze anticapitalistiche non sono attrezzate. Continuo, per il famoso “ottimismo della volontà”, a porre la duplice opzione della rivoluzione dentro o contro il capitale; ma sempre più mi rendo conto che, con i sedicenti comunisti che ci ritroviamo (ormai soltanto sinistra a tutti gli effetti), la prima prospettiva ha un grado di probabilità dieci o anche più volte superiore alla seconda. Abbiamo fra l’altro scritto la storia ingannando noi stessi, e pagheremo questo errore. Lo si sta vedendo in questi giorni (ma è un semplice esempio, pur se illuminante).
Si polemizza sulla questione della sicurezza nelle città, nelle strade, in ogni e qualsiasi luogo. La gente ha timori crescenti, da cui nasce una rabbia che potrebbe non essere ben controllata. Certamente, questa insicurezza è alimentata dai media, se ne crea quasi una isteria; sottovalutarla, come fanno i “progressisti” (e buonisti di sinistra), è però irresponsabile e anche un po’ criminale. Quali sono le risposte che si vogliono dare? Tolleranza zero, cioè mera repressione, dicono destre e anche settori “moderati” della sinistra. Dall’altra parte, egualmente imbecilli, tuonano che questa scelta è fascismo, che bisogna essere tolleranti con i miseri e diseredati; lasciamoli liberi, in certi casi diamogli un posto ufficiale di lavoro (per esempio, ai lavavetri). E per risolvere drasticamente il problema, bisogna aumentare ancora le tasse per togliere ai ricchi e dare ai poveri, che diventeranno tutti buoni e non delinqueranno più. Perché non proporre l’assunzione pubblica di tutti i ladri, che sono i migliori “esperti” nell’attuare la redistribuzione del reddito?
Ormai, questa sinistra – lo ricordo: un ceto medio inutile e semicolto più una massa di intellettuali di poco valore che vengono fatti passare per geni (proprio per le futilità che sparano) – andrebbe inseguita per le strade coi forconi; se non ce ne liberiamo presto, avremo in tempi relativamente brevi “i barbari” alle porte. Se non realizziamo noi la “disinfestazione” (e purtroppo, lo so, non faremo nulla in tal senso), verranno prima o poi altri; perché la sinistra apparirà sempre più odiosa come accade a tutti gli idioti presuntuosi che, ben pagati dai marpioni e parassiti della GFeID, vengono fatti passare per intelligentoni, e così ne dicono di tutti i colori con quel cervello ormai bacato che si ritrovano.
Voglio essere molto esplicito perché ormai non è più tempo di tacere e “abbozzare”. Nessun regime, nemmeno “il più duro e forte”, è in grado di vivere con la sola repressione. Ci siamo raccontati frottole al riguardo per coprire la nostra corresponsabilità nell’avvento, in dati periodi e luoghi, di questi regimi. Abbiamo strombazzato l’olio di ricino e il manganello, i forni crematori e le camere a gas, le squadracce di picchiatori, ecc. Non c’è da compiere alcun “revisionismo” su simili argomenti; tutte queste violenze ci sono state, i milioni di morti pure. Ma ci si è scordati di “qualcosa”: delle colpe di chi stava al governo, vessava “democraticamente” il popolo, lo metteva in condizioni di estremo malessere e disagio. Le sinistre stavano con questi Governi. Esse non furono responsabili di terribili violenze, di migliaia o più ancora di morti; semplicemente rubavano, godevano di scandalosi privilegi, erano serve dei settori capitalistici più arretrati e divoratori, qualche morto scappava pure a loro (come la Luxemburg e Liebnecht e molti altri), avevano ridotto le masse, di cui si sciacquavano la bocca, letteralmente allo stremo.
Negli anni trenta, il nazifascismo godette di vero appoggio popolare; e non vinse e durò soltanto con la violenza e la repressione che, da sole, non sarebbero bastate. Vennero risolte condizioni di crisi, mentre tante anime belle “progressiste” cianciavano (come oggi) di libertà e alti ideali, senza tener conto se le pance erano piene o vuote (tanto la loro era, ed è, sempre ben piena con tutte le sommette ricevute dai capitalisti parassiti). Che vi piaccia o meno, i “neri” – oltre alla senz’altro terribile ferocia dimostrata – seppero anche riempire le pance; e non soltanto queste poiché, a modo
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loro, esaltarono determinati valori che evidentemente non erano così indifferenti alle “masse” di cui sproloquiano i sinistri. E potrei continuare per molto, ma così basta per capire.
L’ho fatta lunga, ma era necessario. La resa dei conti è comunque, in termini storici, prossima. Non so di che tipo preciso sarà, non mi metto a prevedere la “calata dei barbari”, perché si tratterebbe di pura profezia. Sono però convinto di non sbagliare predicendo tempi duri e cattivi, in cui la sinistra, così come si configura oggi con il ceto medio semicolto e gli intellettuali “grandi geni” di cui ho detto, andrà sbaraccata e buttata nella ben nota “pattumiera della storia”; in un modo o nell’altro, perché così non può durare per altri venti o trent’anni.
Cerchiamo allora di capire che il problema essenziale che si porrà non è se reprimere (a tolleranza zero) o essere tanto buoni e misericordiosi da allevarci in seno serpi di ogni genere. Il problema non è se detassare (le imprese per investimenti e/o i cittadini affinché “consumino”) o invece tassare sempre di più per togliere ai ricchi e dare ai poveri, cioè ridistribuire ricchezza mediante una pretesa politica sociale (negli ultimi decenni, il cosiddetto Welfare è stato anche, in buona parte, un inganno e uno sperpero di risorse; era ovvio che ne sarebbe derivata un reazione eguale e contraria, che non si è affatto ancora esaurita).
La verità è che l’insicurezza si avverte di più – ed è più facilmente alimentata da chi vuol far dimenticare “altre cose” – quando esiste la massima incertezza sul proprio futuro (economico e, ancor più in generale, sociale). Le tasse vengono sentite come odiose e insopportabili da larghi strati, anche popolari, quando appare ormai alla luce del Sole che servono ad alimentare una spesa pubblica di semplice assistenza, di mantenimento di un apparato statale elefantiaco e assolutamente incapace di fornire servizi generali dotati di un minimo di qualità ed efficacia. La spesa pubblica serve solo per i finanziamenti alla GFeID (paradigma ne è il miliardo di euro dato alla Fiat per i prepensionamenti di 2000 lavoratori) e per la spesa corrente in stipendi ad un management non brillante, salvo rare accezioni, e in salari ad una pletora di lavoratori la cui bassa produttività non è soltanto una perversa invenzione di Ichino, che ha facile gioco ad affondare il coltello nella piaga.
Non parliamo di quei dementi – o anche qualcosa di peggio, perché non posso credere a tanta stupidità – che pretendono di tassare le “rendite”. Milioni di piccoli risparmiatori (lavoratori autonomi e dipendenti degli strati bassi in testa) vengono presi per rentier. Non si chiede severità per le elusioni di chi mette qualche fondo “Charme” in Lussemburgo, e poi esige il finanziamento statale per prepensionamenti; non si chiede severità per Intesa, Unicredit, e compagnia cantando, che hanno inondato di derivati e altri imbrogli vari il paese; no, i nemici sono milioni di piccoli possessori di Bot o anche di obbligazioni, più qualche azione (su cui si è già perso abbastanza). Si può essere più cretini? E per fare cosa? Per alimentare ancora la spesa in direzione di clientelismi vari, dei propri elettori imboscati negli uffici pubblici inefficienti, dell’assegnazione di qualche consulenza in più a quel ceto medio inutile, ossatura dei diesse e rifondaroli “movimentisti”, di cui ho già detto.
E l’arrogante Visco se ne viene nel nord-est ad attribuire ai veneti perfino il crac dei bond argentini. Questa è provocazione, anche stupida, ma che è tipica di questa sinistra. Oggi finalmente si capisce, non più dalla semplice lettura dei libri di storia, perché il fascismo ha vinto negli anni venti, il nazismo negli anni trenta. Ci si trovava di fronte – ovviamente salvo le minoranze insigni oltre che eroiche (si pensi a Gramsci, come semplice esempio) – a sinistri simili a questi, odiosi, arroganti, faziosi, ottusi, che credevano di poter fare tutto quello che volevano perché loro erano con le “masse”, con la “Classe”. I loro “eredi” odierni ci porteranno allo sbaraglio; chi arriverà per primo a sbaragliare invece loro, si prenderà il potere.
Detto con molta franchezza: non vedo proprio più la possibilità che arrivino per primi quelli che vorrei io, perché ormai anche le persone meno peggiori del “nostro” schieramento sono irretite da una sinistra marcia – il peggio mai espresso dalla società italiana (che di peggio già sembrava intendersene) – e non si rassegnano a combatterla, a gridare alto e forte che bisognerebbe eliminarla dalla scena politica (da quella sociale in un secondo tempo) prima che sia troppo tardi. Di conseguenza, bisognerà escogitare qualche altra transitoria scappatoia per cercare di evitare il peggio, quello
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che potrebbe avere qualche somiglianza con gli eventi degli anni venti e trenta. Anche perché i venti di crisi soffiano più forte di altre volte, almeno mi sembra (a “istinto”). Comunque, non dico che l’imminente crisi provocherà rotture ed effettivi punti di svolta. Nutro tuttavia la convinzione che ci si troverà, in un periodo storicamente breve, nel bel mezzo di una situazione di sostanziale policentrismo, in cui vere crisi precipiteranno. Non si formano in pochi anni gli “anticorpi” adeguati. Invito quei pochi, che forse cominciano a rendersi conto dei guasti prodotti dall’attuale sinistra (e da quella “estrema” in particolare), a riunirsi e a pensarci. E’ già possibile oggi delineare alcune prospettive (minoritarie) di larga massima, ma mi piacerebbe che se ne facesse una preliminare discussione, almeno tra alcuni (per il momento non si riuscirà certo a coinvolgere le “masse”).
APPENDICE
La Trottola
(una parte del racconto di Kafka del 1920; il titolo non è dell’autore)
Un filosofo si intratteneva sempre dove c’erano bambini a giocare. E quando vedeva un ragazzo con una trottola, si metteva subito in agguato. Non appena la trottola girava, il filosofo la inseguiva per prenderla. Che i bambini facessero chiasso e cercassero di allontanarlo dal loro giocattolo, non gli importava; se riusciva a prendere la trottola, mentre ancora girava, era felice, ma solo un istante, poi la buttava via e se ne andava. Credeva infatti che la conoscenza di ogni inezia, dunque anche, ad esempio, di una trottola che gira, fosse sufficiente per conoscere l’universale. Perciò non si occupava dei grandi problemi; gli pareva antieconomico. Conoscendo realmente la minima inezia, è come conoscere tutto; perciò si occupava soltanto della trottola girante .
Non credo si possa dare una migliore descrizione degli odierni intellettuali “di sinistra”, quelli del “politicamente corretto”; se poi sono anche “veltroniani”, il quadro è perfetto. L’unica disgrazia dell’epoca attuale è che “i bambini che fanno chiasso e cercano di allontanare il filosofo dal loro giocattolo” non sono certo gli elettori di centrosinistra appartenenti al ceto medio semicolto e inutile, i quali invece gli offrono la trottola, e gli chiedono di vaticinare il futuro dell’“Universo” dal suo movimento. Sono cioè dementi tanto e ancor più del filosofo. Solo dei “barbari”, alla fin fine, riusciranno a liberarcene definitivamente; ma ciò rischia di far passare nuovamente il mondo per un’epoca assai spiacevole. Altrimenti dovremmo essere “noi” capaci di prendere a pedate il filosofo. La conclusione è sempre la stessa: la “nostra” salvezza passa per la possibilità di disinfestare radicalmente la società dalla sinistra, cioè più precisamente: dal suo ceto intellettuale e dal ceto medio semicolto e inutile. Le classi lavoratrici vere e proprie sono comunque un’altra cosa.
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