SMASCHERARE“PIFFERAI” CIARLATANI ED INDUSTRIALI DI RAPINA

di Emilio Ricciardi (22 giugno 2010)

1.         Nel momento in cui redigo questo testo, è in corso di svolgimento il referendum per la ratifica o meno della nota ipotesi d’accordo aziendale dell’11 giugno 2010 relativo allo stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco stipulato tra quella e tutti i sindacati dei metalmeccanici ma con l’eccezione della Fiom-Cgil (preciso sin d’ora che in questo scritto userò il termine “accordo” e tutto il lessico che rinvia alla costellazione semantica collegata a detto termine in senso formale ed avalutativo: nella realtà, non di accordo trattasi bensì di atto aziendale unilaterale sottoposto ad accettazione).
            Non sembra comunque azzardato prevedere un netto e preponderante consenso verso tale ipotesi negoziale: lo spauracchio (reale) della perdita del posto di lavoro è presentato come troppo incombente e concreto per consentire ai lavoratori di rigettarla. Né è sempre possibile pretendere atteggiamenti “eroici” da parte di costoro, tanto più quando la forza rivendicativa collettiva è oramai da tempo del tutto fiaccata (e vieppiù nella vicenda in oggetto, stante l’attuale divisione sindacale interaziendale anche in quanto riflesso di quella interconfederale).
            D’altronde, le stesse organizzazioni sindacali, in (apparente) disaccordo su tutto, su un punto convergono (di là della loro volontà) senza incrinature, ossia sulla necessità di partecipare massicciamente al referendum. Certo, per motivi almeno dichiaratamente diversi: per la Fiom obtorto collo ed onde, a suo dire, evitare azioni di rappresaglia individuale da parte dell’impresa; per gli altri organismi al fine di assicurare una legittimazione ai sindacati stipulanti ed un’effettiva attuazione dell’accordo nel corso degli anni (nello scontato presupposto della schiacciante vittoria dei favorevoli), tale da garantire il rilancio e “le magnifiche sorti e progressive” dell’industria automobilistica italiana nonché l’incremento occupazionale nel sud.
2.         Ora, se al riguardo la posizione dei sindacati – per così dire – “lealisti” non è problematica, essendo coerente con l’impostazione prescelta, qualche perplessità suscita la motivazione addotta dalla Fiom, e tale da generare qualche, credo legittimo, dubbio sulla sua autenticità.
            Ed infatti, a parte il rilievo che, poiché secondo lo stesso statuto della Fiom un referendum siffatto sarebbe vietato in quanto riguarderebbe diritti invece indisponibili (come sbandierato sul proprio sito internet), riesce davvero arduo comprendere come poi essa possa invitare i lavoratori e segnatamente i propri iscritti a violare deliberatamente, sia pure adducendo “cause di forza maggiore”, una norma fondamentale del proprio statuto in tema di “democrazia sindacale”.
          Ma soprattutto, premesso che il voto da esprimere al referendum è segreto, qualora prevalesse la ratifica dell’accordo e la Fiat la considerasse di entità tale da rassicurarla sulla sua effettiva attuazione, comunque i lavoratori “riottosi” non potrebbero evitare di essere visibili e riconosciuti come tali dall’azienda nel momento in cui la stessa procederà all’applicazione (di fatto o tramite la formale stipula di contratti individuali completi) delle nuove condizioni stabilite nell’accordo aziendale nei confronti dei singoli lavoratori.
            Momento ineliminabile, sia in quanto l’esito del referendum assumerà la forma di una deliberazione collettiva ed appunto anonima, sia per la nota regola giuridica dell’inefficacia erga omnes dei contratti o accordi collettivi (di primo o secondo livello che siano). È in questo ulteriore momento che si verificherà realmente se coloro che hanno espresso voto contrario all’accordo manterranno tale posizione oppure accetteranno infine, loro malgrado, le nuove condizioni.
            Ad ogni modo, il dato di fatto è la debolezza della motivazione (resa poi, se possibile, ancora più ambigua dalla recentemente dichiarata volontà della Fiom di non fornire alcuna indicazione di voto) addotta dalla stessa a giustificazione del consiglio dato ai lavoratori di partecipare al referendum.
           Tale dato può poi essere trattato a sua volta come indizio, ipotizzandosi che esso segnali una consapevolezza della Fiom circa un orientamento dei propri iscritti incline all’accettazione. In tal modo, la Fiom avrebbe, da un lato, salvato il punto di principio costituito dall’avversione all’accordo e, dall’altro, concorso di fatto alla mancata chiusura dello stabilimento di Pomigliano e dunque alla realizzazione del nuovo piano industriale della Fiat. Ed è proprio questo “stare con il piede in due staffe” che alla fine porrebbe la Fiom nella condizione di mantenersi aperta, in un’ottica di tipico e degenerato tatticismo sindacale, la prospettiva di essere al contempo sindacato “di lotta e di governo”, ma tutto, beninteso, in una scala rimpicciolita e meschina, consona agli angusti interessi di bottega che perseguirebbe. In quest’ultimo aspetto, peraltro, perfettamente consentanea ai colleghi sindacali centristi e moderati.
            Non ci si lasci, quindi, trarre in inganno dall’atteggiamento “duro e puro” sprigionato dai propri esponenti quando sono ospitati, con generosa frequenza, su stampa e televisioni. Del resto, per evitare l’esposizione a siffatta fraudolenta irradiazione è sufficiente por mente all’evoluzione delle relazioni industriali e politiche dei sindacati della triplice in quest’ultimi vent’anni circa di storia italiana. Bastino qui, anche per ragioni di spazio, pochi fugaci accenni.
3.         In particolare, non c’è bisogno di diffondersi troppo sul contenuto del famigerato accordo del 23 luglio 1993sulla politica dei redditi e dell'occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo” (firmato, com’è noto, dai sindacati, mai come in quell’occasione “di Stato”), per inchiodare alle proprie responsabilità questi grigi funzionari della subalternità eretta a sistema.
            Ed infatti, al di là, per un verso, delle tante fumisterie e manifestazioni di buone intenzioni sulla difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni e delle pensioni (e sulla ricerca scientifica, la società dell’informazione, e via blaterando) e, per l’altro, della perniciosa politica dei redditi incentrata sul loro agganciamento al tasso d&rs
quo;inflazione programmata siccome sistematicamente al di sotto del tasso reale, con il deliberato effetto di addossare unicamente ai subordinati il prezzo per il “trionfale” accesso nell’Europa di Maastricht, quell’accordo ha costituito l’architrave ed anzi il vero e proprio monumento ideologico eretto agli albori degli anni ’90 in gloria del capitalismo finanziario “globalizzato” e dei sacri principii della concorrenza e della competitività liberista all’insegna dei diritti del consumatore-utente dei servizi. In realtà principii perfettamente funzionali alla giustificazione della decomposizione dell’industria pubblica italiana con la cessione di grandi pezzi di essa al capitale angloamericano ed ai suoi scherani domestici e regionali.
            In questo quadro, era essenziale l’avallo dei sindacati, docile sponda economico-sociale all’azione più squisitamente “politica” mirante alla dissociazione delle forze politiche della prima repubblica, ad eccezione del P.C.I.. È assai significativa, al proposito, la presenza, in un protocollo destinato alle parti sociali, dopo l’enfasi posta sull’esigenza di integrazione dei mercati finanziari per agevolare l’afflusso di capitali per le imprese, del riferimento alla necessità di accelerare i processi di concentrazione e privatizzazione del sistema bancario e di una sua apertura alla concorrenza internazionale.
            Il boccone della finanza, del resto, era allettante per i sindacati. Questi, difatti, ad aumentare il già cospicuo banchetto delle prebende pubbliche erogate ad essi quali organismi non tenuti all’obbligo di pubblicazione del bilancio, si preparavano ulteriormente le fauci al cospetto delle pietanze rappresentate dagli enti della previdenza complementare, ottimi “stomaci” per inghiottire immondizia e liquami del soprarichiamato capitalismo speculativo-finanziario. E poi, a mo’ di osso ed al contempo catena a lunghezza variabile, comunque tale da consentire loro di girare quantomeno in tondo alla cuccia, si imponeva la partecipazione sistematica ed istituzionalizzata all’elaborazione delle politiche economica e di bilancio, efficace fattore “responsabilizzante” nell’assolvimento dei loro compiti di riproduzione (anzi, produzione, ché si trattava di realizzare una per la gran parte inedita configurazione) sistemica.
            Quanto poi al sistema delle relazioni industriali, si attribuiva strutturalmente alla contrattazione aziendale o territoriale la competenza su temi cruciali quali l’organizzazione del lavoro e la produttività.
            È allora curioso, e disegna la curva di una nemesi storica, che gli apprendisti stregoni dei sindacati della Cgil, dopo aver contribuito a gettare le basi, ancor oggi durevoli, del decentramento della contrattazione, ora, con la Fiom che attribuisce all’ultimo ccnl di categoria, quello del 2008, la funzione di “assumere come proprio lo spirito” del protocollo in discorso e di realizzarne “le finalità e gli indirizzi in tema di relazioni sindacali”, si lamentino della violazione del contratto nazionale perpetratasi con la stipula dell’accordo aziendale di Pomigliano.
            Perché, se è innegabile che il protocollo del 23 luglio 1993 valorizzava fortemente la contrattazione aziendale ma poneva almeno formalmente il contratto nazionale su un livello gerarchicamente superiore e dunque inderogabile dalla prima, non meno vero è con il Patto per il lavoro del 24 settembre 1996 si assegnava ai sindacati un ruolo decisivo per l’introduzione del contratto d’area, strumento operativo che, essendo funzionale all’attivazione di nuove iniziative imprenditoriali soprattutto nelle aree di grave crisi occupazionale, trova la propria ratio essendi nella deroga sistematica ai livelli retributivi ed agli istituti previsti nel contratto nazionale. A tale strumento si aggiungeranno presto i contratti di riallineamento, diretti a far emergere dall’area del sommerso alcune realtà produttive ed anch’essi caratterizzati, come mezzo a fine, dalla deroga
[1] sistematica ai medesimi aspetti del contratto nazionale già sopra considerati.
4.         Del resto, già vi era stata l’”esperienza-pilota” del contratto di programma del giugno 1993 relativo al nuovo stabilimento Fiat di Melfi, con il quale i sindacati avevano acconsentito all’applicazione di livelli retributivi e condizioni di lavoro nettamente peggiorativi rispetto alla generalità degli altri insediamenti produttivi della Fiat.
          In questo caso al banchetto si accomodarono davvero tutti, a cominciare dalla Fiat, che apri tale nuovo stabilimento, costruito peraltro senza alcun esborso da parte sua ma unicamente con soldi pubblici, tra fanfare e squilli di tromba inneggianti al toyotismo ed alla qualità totale. Ed i sindacati chiusero l’opera da perfetti caudatari con la stipula, appunto, del menzionato contratto di programma.
            Successivamente, vi fu il contrordine. Nell’anno 2004 i lavoratori di “Melfi” rivendicarono trattamenti retribuivi e turni di lavoro omogenei a quelli praticati in altre unità produttive del gruppo, ed i sindacati li appoggiarono gridando avverso lo scandalo rappresentato da siffatte condizioni; un po’ come colui che inveisce contro la propria ombra perché si permette, l’insolente, di seguirlo senza posa.
5.         Si ritorna dunque all’oggi, con l’ipotesi di accordo di Pomigliano. Si sono già sottolineati, al riguardo, l’ambiguo invito della Fiom alla partecipazione al referendum e l’altrettanta ambigua mancata indicazione di voto.
            Riguardo lo stretto merito del contenuto, non è scopo di questo scritto entrarvi. Però si può appena accennare al fatto che, quanto alle condizioni di lavoro ed alla rimodulazione di orari e turni, la Fiom ha sempre dichiarato la propria disponibilità al “dialogo” nell’ottica della flessibilità e del pieno impiego degli impianti (e del resto, già a Melfi la Fiom aveva accettato lo stesso numero, ossia 17, di turni lavorati così come previsto nell’ipotesi di accordo di Pomigliano). Anzi, semmai va detto che è proprio l’aspetto rappresentato dalle condizioni di lavoro a risultare fortemente costrittivo e penalizzante nei confronti dei lavoratori.
            Piuttosto, ciò che la Fiom soprattutto contesta è l’asserita violazione della Costituzione in quel punto (il n. 15) dell’ipotesi contrattuale in cui, nel prevedersi che la violazione da parte del singolo lavoratore delle clausole contenute in tale ipotesi determina le conseguenze disciplinari stabilite nelle corrispondenti fatt
ispecie dal contratto nazionale, secondo la Fiom si stabilirebbe in definitiva la sanzione del licenziamento in caso di esercizio del diritto di sciopero da parte del lavoratore stesso.

            Ebbene, e detto molto lapidariamente, ritengo che la Fiom sia la prima a non credere a quanto sostiene. Un qualsiasi giudice, difatti, mai potrebbe interpretare quel punto nel senso paventato dalla Fiom, poiché, trattandosi di un patto dal contenuto ambiguo, fra i suoi vari significativi possibili, va prescelto anzitutto, per consolidato canone di ermeneutica contrattuale, quello conforme a Costituzione (e poi alle norme imperative di legge).
            Ma se questo, come sembra, è vero, allora si rafforza l’ipotesi più sopra avanzata, e confortata dalla storia italiana dagli anni ’90 ad oggi, in merito all’intento della Fiom di massimizzare il proprio consenso presso i lavoratori in occasione di situazioni di gravi crisi economiche ed occupazionali, cancellando con estrema disinvoltura risultati anche recenti della propria attività di segno diametralmente opposto a quanto l’attualità va invece di volta in volta suggerendo, e tuttavia poi subito pronta, una volta “passata ‘a nuttata”, ad intraprendere la diversa strada che l’interesse della propria organizzazione le dovesse dettare.
            Così, ad es., non mi pare casuale che, in concomitanza con il rifiuto della Fiom di aderire all’ipotesi di accordo, si svolgessero le elezioni per le Rsu dello stabilimento Fiat di Melfi, all’esito delle quali la Fiom ha registrato un netto successo, diventando il primo sindacato dello stabilimento (al punto che la stessa Fiom ammette chiaramente il nesso di causa-effetto, sotto questo punto di vista, tra, rispettivamente, “Pomigliano” e “Melfi”).
            Insomma, lo si ribadisce, siamo al cospetto di un’attività miope, una politica sindacale tutta e solo votata al tatticismo, innervata unicamente dal soddisfacimento di interessi di piccolo cabotaggio, dal conseguimento di obiettivi senza alcun respiro realmente politico bensì tutti interni alla salvaguardia di un potere di partecipazione alla quota della mangiatoia pubblica, con un’abdicazione a qualsivoglia strategia incardinata in una qualche più ampia visione, che non sia comunque quella degli asfittici interessi di bottega del funzionariato della propria burocrazia.
            Ma è precisamente in questo punto, in questa commessura che occorre che prenda corpo un’altra consapevolezza delle “masse”; altrimenti, “Fra quelli dei nemici/scrivi anche il tuo nome” (Traducendo Brecht, Fortini).
 
 
 
[1]Interessa qui segnalare, peraltro, come la possibilità di una tale deroga a prescindere dagli indicati strumenti del contratto d’area e dei contratti di riallineamento, sia stata bensì introdotta con l’accordo del 15 aprile 2009 stipulato tra l’attuale Governo e (tra l’altro) le confederazioni sindacali, ad eccezione della Cgil, per fronteggiare situazioni di crisi o favorire lo sviluppo economico, ma ciò subordinatamente al consenso espresso nei contratti nazionali di categoria. Dunque, non vi è alcuna sostanziale differenza tra il protocollo del 23 luglio 1993 e tale accordo del 15 aprile 2009; salvo il fatto che quest’ultimo è stato promosso dal Governo Berlusconi; ragione sufficiente, evidentemente, per far si che la Cgil negasse la propria firma.