SOMMARIE RIFLESSIONI SULLA CRISI
di Gianfranco La Grassa
PARTE PRIMA: LA PROSPETTIVA PIU’ TRADIZIONALE (ECONOMICISTICA)
1. Si tratta di un argomento talmente complesso e denso di dibattiti teorici da richiedere pure un notevole approfondimento storico. Insomma, sarebbe necessario tenerci sopra un intero corso di lezioni e non soltanto una breve introduzione e per spunti assai sommari. Tanto più che non sono d’accordo sull’impostazione prevalentemente economicistica con cui viene solitamente discusso tale problema. Sia chiaro che nelle due parti in cui verrà diviso questo scritto non affronterò il tema della crisi iniziata nel 2008; nemmeno mi fisserò su come essa viene interpretata dagli economisti odierni o anche dal Governo con le sue misure che stanno ottenendo risultati esattamente contrari alle intenzioni dichiarate (credo assai diverse da quelle perseguite politicamente, con la sola maschera della necessità economica). Un simile argomento va trattato in altra sede e dopo aver preso visione delle pur sommarie indicazioni relative alla problematica generale della crisi. Altrimenti s’instaura una semplice “discussione da bar”. Comunque il lettore attento potrà più volte istituire un parallelo tra quanto qui scritto e le pappardelle fornite in questi ultimi quattro anni.
Mi rifarò ancora una volta ad un esempio da me utilizzato più volte per analogia perché particolarmente congruo nella sua applicazione al tema della crisi, sempre pensata come semplicemente economica. Il terremoto, magari con annesso tsunami, è evento catastrofico che colpisce a fondo la vita degli uomini; ed è ancora imprevedibile, checché se ne dica a volte con somma insipienza. Tutti, evidentemente, fuggono disordinatamente nel momento cruciale, poi iniziano ad organizzarsi in previsione di eventuali nuove scosse e pensano infine alla ricostruzione. Il sismologo sa tuttavia che il tremore di superficie, così disastroso, dipende da scontri tra strati del terreno che avvengono a grande profondità; più profondi sono tali urti e frizioni, maggiore è l’energia accumulata per anni e decenni (talvolta secoli) e più intenso e violento è il suo scaricarsi; tanto più ampia è inoltre la zona colpita dallo sconquasso. Non è escluso che in futuro i terremoti possano essere previsti con qualche significativa probabilità (così com’è accaduto per le previsioni meteorologiche per brevi periodi); a patto però che non ci si limiti a studiare grafici e tabelle statistiche che indicano soltanto la loro frequenza nel tempo, le zone maggiormente colpite, certi andamenti lineari di superficie, magari correlazioni più o meno credibili con altri fenomeni altrettanto superficiali, ecc. Tutte rilevazioni non inutili, sia chiaro, ma alle quali attribuire il significato di sintomi “fenomenici”, che devono spingere a guardare più in profondità, nelle viscere della terra.
Volendo soprattutto indicare, sia pure necessariamente per cenni, ai motivi a mio avviso profondi delle crisi economiche – motivi che vanno ben al di là della mera economia – dovrò essere molto schematico e certo poco “scientifico”; non abuserò di grafici e tabelle con connesso loro significato assai poco illuminante, ma che attribuisce tanta sicurezza ai “chierici” della scienza economica e lascia a bocca aperta chi li ascolta come oracoli.
2. le grandi crisi del XX secolo sono state quelle del 1907 e quella, decisamente più rilevante e passata alla storia come la crisi (per antonomasia), del 1929. Entrambe iniziarono con l’aspetto più superficiale di tale terremoto, quello finanziario, quello che sembra più colpire, ancor oggi, la fantasia “popolare”; dove per popolo si deve intendere semplicemente la gran parte degli ignari, adeguatamente influenzati dall’informazione ricevuta dai “santoni” della scienza sociale detta economia.
E’ ovvio che la parte finanziaria, legata all’uso della moneta e dei segni d’essa, sia il primo fenomeno critico a presentarsi, data la generalizzazione della forma di merce nel capitalismo e il conseguente uso necessario del denaro nel ciclo continuo M-D-M. Quando questo viene ad interrompersi – per motivi vari studiati da tutti gli economisti e sottoposti ad interpretazioni diverse; non inutili, sia chiaro, poiché nessuno nega l’importanza di certi fenomeni se vengono studiati e analizzati come tali e non come il processo più fondamentale caratterizzante la crisi, la causa insomma della stessa – il primo scombussolamento è subito dai mercati in cui circola lo “strumento” che ormai, da semplice intermediario nello scambio di merci, è divenuto pure accumulazione di ricchezza, mezzo di investimento, garanzia (del tutto parziale e insicura, in verità) contro gli imprevisti del futuro, ecc. ecc. Al disordine nei mercati monetari, finanziari – se esso non è legato a semplici giochi speculativi, in genere suscettibili di reciproca compensazione tra operazioni di segno contrario (si pensi alle continue oscillazioni di Borsa) – segue quello ben più grave nei mercati dei beni (e servizi) prodotti, nei mercati detti “reali”.
Detto per inciso, questo fatto avrebbe già dovuto far ricredere molti teorizzatori della formazione del monopolio (oligopolio più precisamente), regime di mercato in cui si supponeva si sarebbero istituiti cartelli o trust (cioè accordi fra imprese), e poi ulteriori accordi tra questi, con il controllo, e dunque regolazione, dei mercati da parte di queste grandi imprese oligopolistiche. Tanti accordi ed evidentemente poco controllo dei mercati, se si producevano fenomeni come le crisi, soprattutto del tipo 1907 e 1929. Si consideri la prima – in base soprattutto al nostro necessario modo di pensare per analogie – come una sorta di prova generale della seconda, assai più grave e considerata, come già detto, la, non una, crisi. Essa si fa partire dall’ottobre del ’29, nelle due giornate di tracollo della Borsa valori di New York (anche nel 1907, la crisi partì nello stesso modo e dallo stesso luogo). In certi scritti (o perfino film) d’epoca, o di ricostruzione della stessa, si favoleggia della miriade di finanzieri gettatisi dai grattacieli di quella città. In realtà, l’aspetto più pregnante della crisi lo si vide nel 1932, e ancora nel ’33, con il ben noto Pil al più basso livello e la disoccupazione della forza lavoro al suo massimo; e una autentica miseria nera, la vera e propria fame di massa.
Fatto 100 il Pil del 1918, all’uscita dalla guerra mondiale, questo crebbe negli Usa per tutti gli anni ’20 (di boom) e giunse a 122 nel 1929. Nel ’33 fu 81 (un bel tracollo) e poi risalì a 116 (ancora ben sotto il 1929) nel 1940 – a nuova guerra mondiale già scoppiata, in cui gli Stati Uniti entrarono nel dicembre 1941 dopo Pearl Harbor – e balzò a 198 nel ’45 alla fine della stessa. Un bell’affare la guerra! Se guardiamo alla produzione industriale, fatta 100 quella del ’29, essa può essere così riassunta in tabellina
Stato |
1930 |
1931 |
1932 |
1933 |
1934 |
1935 |
Stati Uniti |
83 |
69 |
55 |
63 |
69 |
79 |
Gran Bretagna |
94 |
86 |
89 |
95 |
105 |
114 |
Francia |
|
99 |
85 |
74 |
83 |
79 |
Germania |
86 |
72 |
59 |
68 |
83 |
96 |
Austria |
|
91 |
78 |
66 |
68 |
75 |
Italia |
|
93 |
84 |
77 |
83 |
85 |
Svezia |
|
102 |
97 |
89 |
93 |
111 |
Cecoslovacchia |
|
91 |
64 |
60 |
67 |
70 |
Ungheria |
|
87 |
82 |
88 |
99 |
107 |
Romania |
|
|
105 |
82 |
101 |
126 |
Bulgaria |
|
104 |
107 |
103 |
98 |
103 |
U.R.S.S. |
|
|
183 |
Per quanto riguarda la disoccupazione, i dati hanno il medesimo andamento; gli anni cruciali restano sempre il 1932-33. Su scala planetaria, la disoccupazione fu sempre mediamente sopra il 20% tra il 1929 e il ’33. Negli Usa, i dati ufficiali furono assai imprecisi in quegli anni; comunque nel 1932-33 detta disoccupazione si stimò tra il 25 e il 33% della forza lavorativa, con almeno 15 milioni di senza lavoro.
Dopo la vittoria presidenziale di F.D. Roosevelt – a fine ’32, con insediamento nel gennaio ’33 – fu lanciato il ben noto New Deal; un programma di riforme sociali ed economiche. Interessa soprattutto il fatto che esso si basò su un forte incremento della spesa statale effettuata in deficit di bilancio (senza dunque preoccupazioni per il Debito pubblico), anticipando così, si può dire, la successiva teoria keynesiana formulata nel 1936: indubbiamente una sorta di sistemazione teorica (definita generale) di una pratica (politica) economica anticipatrice. Prima di passare ad alcune delucidazioni della stessa, voglio ricordare che il sollievo, per il sistema economico statunitense, si manifestò soprattutto nel ’34-’35; già nel 1936 e ‘37 l’economia diede segni di debolezza e, tutto sommato, la fase restò di sostanziale stagnazione, con modesti aumenti del Pil fino alla seconda guerra mondiale.
Non a caso, da quell’andamento derivarono, sempre con un certo ritardo, gli studi di autori come Alvin Hansen, Steindl e altri che, estendendo al lungo periodo la teoria di Keynes, sostennero tesi stagnazioniste sulla base di considerazioni, qui adesso di impossibile analisi, sulle innovazioni e l’aumento della produttività del lavoro, su certi limiti della crescita della domanda connessi, fra l’altro, a corrispondenti limiti nell’innovazione di nuovi prodotti. In modo sommario, potremmo dire che le tesi stagnazioniste davano forte rilievo alle innovazioni di processo (aumento quindi della produttività e della capacità produttiva del sistema a parità di fattori occupati) mentre pensavano ormai in esaurimento la prospettiva dell’apertura di nuovi grandi settori produttivi – come furono poi invece, l’informatica ed elettronica, l’aerospaziale e altri – con conseguente debolezza della domanda complessiva (consumi più investimenti).
3. Cercherò, sia pure in modo vergognosamente sommario, di dare un’idea delle idee sulla crisi esistenti all’epoca di cui stiamo trattando. La teoria economica neoclassica, che dominava nell’accademia ormai dal 1870, non ammetteva la possibilità di crisi se non come conseguenza di comportamenti che non si attenevano ai principi liberal-liberisti. Era necessario che si verificassero imperfezioni nel funzionamento del mercato, imperfezioni legate al comportamento non corretto di individui e gruppi di individui. Si credeva ciecamente alla ben nota “mano invisibile” (del mercato) di smithiana memoria, per cui era sufficiente lasciar funzionare gli automatismi mercantili senza intralci, in particolare da parte dello Stato. Sono costretto in questa sede a non discutere del carattere rivoluzionario (ma non troppo) che aveva la teoria smithiana nell’epoca in cui fu formulata (la Ricchezza delle nazioni fu pubblicata del 1776; eravamo nel periodo iniziale della prima rivoluzione industriale).
La teoria neoclassica si serviva di tali tesi per indicare la necessità che i soggetti da essa considerati “produttori”, gli imprenditori – nello svolgimento di quella che era pensata come loro funzione precipua: la combinazione dei fattori della produzione (terra e soprattutto capitale e lavoro), funzione svolta in reciproca competizione – fossero perfettamente liberi nelle loro operazioni di acquisto di detti fattori e di vendita dei prodotti nel mercato. Secondo la teoria in oggetto, ne sarebbe risultata la continua riduzione di costi e prezzi con vantaggio dei consumatori finali delle merci prodotte. Con la precisazione che la domanda complessiva riguarda sia i beni di consumo in senso proprio, necessari alla vita degli individui, sia i beni “consumati” nell’attività produttiva quali suoi fattori, il cui acquisto da parte degli imprenditori è ciò che viene indicato come investimento.
In tutte queste operazioni, effettuate nel mercato tramite uso di denaro, l’ente preposto agli affari pubblici, lo Stato, non deve mettere becco. Secondo le teorie liberiste esso avrebbe l’obbligo di limitarsi ad espletare una serie di servizi amministrativi di interesse generale, di regolazione dell’ordinata riproduzione dei rapporti intersoggettivi nella società dello scambio mercantile generalizzato. In un certo senso, si tratta soprattutto dei compiti di fondamentale “polizia” per impedire l’illegalità di certi comportamenti dei vari “soggetti” attivi nella “società civile”. Non a caso lo Stato veniva spesso definito veilleur de nuit, espressione assai significativa.
Il costo dei servizi statali va coperto con l’imposizione fiscale, limitata appunto alla semplice raccolta di quanto speso per fornirli. Uno dei principi fondamentali, cui si attiene la teoria neoclassica tradizionale, è perciò quello del pareggio del bilancio statale, al quale si è contravvenuto spesso soprattutto in caso di guerre, considerate però eventi eccezionali, che disturbano il normale e virtuoso funzionamento delle “leggi” del “libero mercato”. A parte queste eccezioni – che poco lo furono perfino durante l’epoca considerata fondamentalmente pacifica tra la guerra franco-prussiana del 1870 e la prima guerra mondiale, se non altro a causa della continuazione e accentuazione delle imprese coloniali – una spesa eccessiva dello Stato, comportante poi per detta teoria l’inasprimento fiscale onde ripristinare il pareggio in questione, fu sempre ritenuta comportamento irrituale e dannoso per il sistema economico.
Come le guerre, anche le crisi economiche erano trattate quali eventi eccezionali legati all’imperfezione dei comportamenti umani, il che tuttavia non inficiava la legge generale dello spontaneo equilibrarsi dell’offerta e della domanda dei beni se ci si fosse attenuti alla piena libertà degli scambi nel mercato. Volendo pensare analogicamente, è un po’ come la legge galileiana del moto rettilineo uniforme, il cui funzionamento è più o meno sempre alterato da vari attriti esistenti nel mondo reale; e tuttavia essa viene stabilita in base alla supposizione di assenza di attriti e considerata l’“attrattore naturale” cui tende il moto quanto meno esso è disturbato dagli stessi. La teoria neoclassica procedeva in modo simile: ammetteva l’esistenza di “attriti” (guerre, crisi economiche), ma pensava la “mano invisibile” del mercato quale legge “naturale” vigente nel mercato. Di conseguenza, sarebbe necessario perseguire lo scopo di attenuare il più possibile qualsiasi fenomeno perturbatore di tale “legge”.
Lo scoppio di crisi della gravità di quelle del 1907, e soprattutto del 1929, non poteva non destare una serie di discussioni. Esse richiedevano spiegazioni supplementari. Sarò molto sommario. La tesi liberista più tradizionale, rifacendosi comunque al fenomeno allora considerato più vistoso e socialmente preoccupante, la disoccupazione dei lavoratori, lo legava all’imperfezione introdotta dall’associazione sindacale nella libera contrattazione della merce forza lavoro. Il sindacato avrebbe spinto il salario al di sopra della produttività marginale del lavoro; diciamo, in soldoni, che questa è la produzione dell’ultima unità lavorativa occupata. Essendo tale produttività, almeno da un certo punto in poi, decrescente al crescere di tali unità occupate, se il salario viene irrigidito dalla contrattazione sindacale ad un dato livello, l’imprenditore impiegherà successive unità lavorative solo fino a quando l’incremento di prodotto così ottenuto resta eguale o superiore al livello in questione. Se in tale situazione sussiste la disoccupazione di una parte dei lavoratori, l’unico modo per eliminarla o ridurla è consentire l’abbassamento della retribuzione in modo da adeguarla alla produttività dell’ultima unità di lavoro da occupare.
Non fu questa la via seguita durante il New Deal. In varia guisa, si decise per l’attuazione di opere di tipo infrastrutturale, non certo profittevoli per l’impresa privata e dunque finanziate dallo Stato. Tali opere non puntavano affatto al rientro in tempi brevi della spesa sostenuta tramite vendita dei loro servizi. Si trattava invece di occupare la forza lavoro rimasta disoccupata per la crisi; il costo salariale era sostenuto in toto tramite l’iniziativa di vari enti statali, alcuni creati appunto per l’occorrenza. Si pensi alla Federal Emergency Relief Administration e alla Civil Works Administration (e poi, nel 1935, la Works Progress Administration). Furono inoltre istituiti il Civilian Conservation Corps, che distribuì mezzo milione di posti di lavoro a giovani, impiegati in opere di rimboschimento e di controllo delle acque, e la Tennessee Valley Authority, che realizzò giganteschi lavori di sistemazione idraulica e di sfruttamento delle acque negli Stati meridionali, utili poi alla successiva intensa industrializzazione di quelle aree.
Secondo i principi del liberismo, relativi al necessario pareggio di bilancio, simili costose opere si sarebbero dovute finanziare con un inasprimento fiscale; il che era già comunque considerato negativo dal pensiero economico tradizionale perché avrebbe in ogni caso creato “attriti” al libero movimento della produzione e degli scambi nel mercato, incrementando le spese generali delle imprese con il pagamento di imposte eccessive. Non fu però il problema fiscale il punto d’attacco cruciale su cui si concentrò la critica alle tesi liberiste. Critica intanto pratica, legata alla politica economica del periodo rooseveltiano; e poi sistematizzata da Keynes in Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, testo pubblicato nel 1936.
4. Anche qui procederò in modo impressionistico, cercando di dare una qualche idea di una teoria che da allora dominò nel mondo accademico fino alla ripresa neoliberista dell’epoca thatcheriana e reaganiana, verificatasi a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. La scuola liberista più tradizionale accettava di fatto la teoria di Jean Baptiste Say (1767-1832), che formulò la nota “legge degli sbocchi” secondo cui l’offerta crea la propria domanda, i prodotti di fatto si scambiano con altri prodotti e la moneta è un semplice intermediario che rende più facile tale scambio (rispetto al baratto). Naturalmente, la gestione della ricchezza nella sua forma liquida, monetaria, è affidata ad un settore particolare: quello bancario (e finanziario in genere, ivi comprese le Borse valori, ecc.). Tuttavia, tale settore è pensato come soltanto utile e “servizievole” nei confronti di quelli produttivi. Com’è stata utilizzata questa “legge” di Say in ambito liberista?
La produzione dei beni (compresi quelli detti servizi) genera reddito per coloro che hanno partecipato alla stessa. Parte del reddito serve a domandare, cioè ad acquistare le merci necessarie al soddisfacimento dei bisogni degli individui in quanto consumatori. Una parte viene risparmiata. Quest’ultima, tuttavia, viene anch’essa “consumata”, nel senso che si traduce in domanda dei beni in quanto fattori della produzione; essa viene cioè investita dagli imprenditori per svolgere la loro funzione precipua. A qualsiasi livello di reddito prodotto, non ci sarebbe problema per quanto riguarda l’assorbimento dell’intero risparmio da parte dell’investimento (domanda di beni di produzione); l’eguaglianza tra i due verrebbe assicurata dai movimenti del saggio d’interesse. Quanto più risparmio è disponibile, tanto più il sistema bancario, che funge da intermediario tra risparmiatori e imprese investitrici, fornisce credito a queste ultime a tassi più bassi, in linea con gli utili aziendali. Anche in tal caso, si ragiona in termini di “margini”; gli utili aziendali di riferimento per i tassi sono quelli dei gruppi di imprese al margine inferiore (comunque, non è adesso il caso di entrare in dettaglio, si afferri l’insieme del ragionamento nei suoi termini più generali).
La teoria keynesiana – ed è per questo che viene generalmente considerata una teoria monetaria – rompe decisamente sulla funzione della moneta, che non è trattata quale mero intermediario negli scambi, svolgendo invece anche funzioni di “riserva” per motivi precauzionali (l’incertezza del futuro per i vari “soggetti”, individuali o di “gruppo” come le imprese, ecc.) e speculativi (desiderio di lucrare sugli andamenti oscillanti dei prezzi dei beni, in particolare di quel bene che è la moneta e titoli vari, ecc.). Importante è però la considerazione intorno all’entità del risparmio. Nelle società capitalistiche opulente, a reddito prodotto elevato, la massa di risparmio è talmente elevata che non ci sarebbe alcun livello del saggio d’interesse, per quanto basso, in grado di assicurare nel tempo la suddetta eguaglianza tra tale massa e la domanda d’investimento.
Andando veloci. Si produce una data quantità di beni che viene venduta con un certo introito complessivo. Questo si distribuisce tra coloro che hanno partecipato alla produzione e quindi diventa il reddito di tali soggetti, diventa cioè soprattutto profitti e salari (e anche parcelle dei professionisti, emolumenti vari e via dicendo). Tale reddito serve in parte ad acquistare beni per vivere (il consumo) e in parte viene risparmiato. Affinché tutto ciò che viene prodotto venga anche acquistato è necessario che la parte risparmiata sia pur essa spesa; altrimenti non funziona la legge degli sbocchi di Say. Il risparmio deve dunque tradursi in investimento; ovviamente con l’intermediazione degli istituti che lo raccolgono e poi lo forniscono in prestito agli investitori. Se ad un certo punto, le aspettative di questi investitori circa i loro utili per il futuro diventano negative, nessun abbassamento del saggio d’interesse sui prestiti li indurrà alla domanda dei beni (fattori) di produzione; la domanda complessiva (consumi più investimenti) non assorbirà dunque tutta la produzione già ottenuta e tradottasi in reddito per i partecipanti ad essa, reddito il cui valore si divide in consumi e risparmi. Il relativo eccesso del risparmio rispetto all’investimento comporta insomma l’invendibilità di una quota di prodotto (composta soprattutto di beni d’investimento, di fattori produttivi). La diminuzione degli introiti provoca chiusura di attività, licenziamenti, caduta quindi della massa salariale, contrazione della domanda di beni di consumo, ulteriori quote di produzione invenduta, ancora minori introiti, ecc. S’innesta così il circolo vizioso della crisi.
Ci si accorge facilmente che l’elemento cruciale della teoria è rappresentato dal pessimismo delle aspettative circa la possibilità di utili futuri per gli investimenti da effettuare, per cui questi si bloccano o comunque non aumentano a sufficienza per assorbire tutto il reddito risparmiato. In date congiunture – e quanto più è elevato il reddito prodotto in società tendenzialmente opulente – non c’è alcun modo di indurre gli investitori a domandare. Il saggio d’interesse è impotente poiché ci si aspetta addirittura perdite e non utili. Di conseguenza, a meno di non supporre che, assai poco razionalmente, subentri ad un certo punto un’ondata di pessimismo preconcetto, la teoria spiega il circolo vizioso che si mette in moto quando la crisi è già scoppiata e, di conseguenza, il pessimismo delle aspettative si è già nutrito delle difficoltà insorte nella vendita delle merci prodotte.
Non si chiarisce dunque, in senso proprio, che cos’è la crisi e le sue motivazioni di fondo; si dice più semplicemente che, entrati nella crisi, procedere con le ricette liberiste è un suicidio. Seguire coloro che sostenevano la necessità di abbassare i salari, per adeguarli alla produttività marginale del fattore lavoro, avrebbe significato ridurre la capacità d’acquisto di tipici consumatori e dunque anche la domanda di beni di consumo oltre a quella per investimenti, aggravando l’avvitamento della crisi stessa. Da qui, la famosa valutazione positiva della Favola delle api di Mandeville: le virtù private (in tal caso il risparmio) divengono vizi pubblici, cioè un modo per aggravare la situazione della collettività; mentre spendere e ancora spendere (questo terribile “vizio” del consumismo, oggi così inviso a tutti i “virtuosi” che imperversano soprattutto a “sinistra”, ma non solo in questa) può alleggerire la situazione collettiva.
5. Il New Deal non si adeguò ai principi liberisti e mise in moto un’ampia spesa statale per opere infrastrutturali. La finalità principale della mossa era quella di alleviare la questione sociale che poteva divenire pericolosa in una situazione di così vasta disoccupazione lavorativa. Non ci si preoccupò del debito pubblico in conseguente notevole ascesa, poiché il problema fondamentale era occupare il maggior numero di lavoratori possibile. La successiva teorizzazione keynesiana diede però a tale scelta anche una razionalità in termini di politica economica adeguata a combattere la crisi nei suoi termini più generali. La domanda privata era carente. Come già è stato detto sopra, le aspettative imprenditoriali erano improntate al netto pessimismo e la domanda di beni d’investimento dunque cadeva malgrado ogni possibile riduzione degli interessi chiesti sui prestiti. La chiusura delle imprese provocava licenziamenti, riduzione dell’occupazione e perciò della massa salariale con conseguente riduzione della domanda di beni di consumo, ulteriore peggioramento delle aspettative imprenditoriali, nuovi licenziamenti, ulteriore contrazione della massa salariale e della domanda di consumo; e così via nel circolo vizioso della crisi.
La spesa statale doveva supplire alla deficienza di quella privata. Per il compimento delle opere pubbliche venivano riaperte date imprese; riprendeva la domanda di beni d’investimento di queste ultime, veniva riassunta una quota di lavoratori disoccupati, iniziava dunque a crescere la massa salariale distribuita con aumento della domanda di consumo, che spingeva altre imprese ad entrare in campo, ecc. ecc.; si metteva in moto quello che venne definito il moltiplicatore degli investimenti (pubblici), invertendo così il circolo vizioso precedente e favorendo la ripresa del sistema economico. Il risollevarsi del reddito prodotto, anche a parità di pressione fiscale – o addirittura con il suo alleggerimento per stimolare l’attività imprenditoriale – avrebbe condotto ad un incremento del gettito delle imposte con possibile riduzione del debito nel prosieguo di questa politica economica. Mentre, all’incontrario, calcare sull’imposizione fiscale con l’ossessione del pareggio di bilancio e del debito pubblico, avrebbe avuto influssi negativi sulla domanda, dunque sulla crescita, con il possibile risultato finale di un deficit di bilancio non sanato e di un debito pubblico magari in aumento.
Questo, molto all’ingrosso, il ragionamento seguito per giustificare una politica di spesa statale in deficit di bilancio, una spesa che si preoccupava il meno possibile della crescita del debito dello Stato. E’ bene chiarire alcuni punti essenziali. Intanto, la spesa pubblica s’interessava tutto sommato meno delle opere che venivano portate a compimento tramite essa di quanto invece non puntasse al reimpiego della forza lavoro (combattendo la disoccupazione che era una piaga sociale e non un mero fatto economico), ottenendo nel contempo un rilancio dei consumi depressi che miglioravano le aspettative imprenditoriali e stimolavano quindi la crescita produttiva tramite la messa in moto del già ricordato circolo virtuoso (con moltiplicazione degli effetti di una spesa iniziale). Per realizzare una simile finalità, era necessario che la spesa pubblica fosse veramente aggiuntiva rispetto a quella privata. Essa doveva dunque essere effettuata in deficit di bilancio, al limite stampando nuova moneta e con questa ottemperando agli obblighi dell’investimento statale. Se si fosse preteso il mantenimento del pareggio di bilancio, ottenuto allora con un incremento delle imposte, si sarebbe tolto con una mano ciò che si dava con l’altra. Lo stimolo alla domanda, e quindi alla ripresa, sarebbe venuto a mancare (salvo considerazioni particolari, contenute nel cosiddetto teorema di Haavelmo, che non credo sia qui d’interesse e nemmeno di possibile discussione).
Altro punto d’estrema rilevanza è che quanto appena detto è valido se si fa riferimento ad un sistema economico capitalisticamente sviluppato, dove non esiste soltanto disoccupazione del “fattore” lavoro, ma inutilizzazione di una corrispondente massa di beni di produzione, del capitale fisso. Devono esserci lavoratori a spasso, ma anche fabbriche chiuse e con impianti in grado di essere rimessi presto in funzione. E’ inoltre necessario che si sia già ampiamente e lungamente sviluppato il cosiddetto spirito imprenditoriale. La domanda d’investimento è caduta perché le aspettative degli imprenditori sono divenute pessimistiche, quindi a crisi già in atto. La spesa pubblica ridà fiducia a questi soggetti, i quali sono già in possesso delle strutture produttive non più funzionanti per la caduta della domanda privata, e non aspettano altro che veder migliorare nuovamente la prospettiva di sbocchi di vendita.
Ove non sussista questa seconda indispensabile condizione, la spesa pubblica, lo stampare nuova moneta per finanziarla, ecc. conducono solo all’inflazione senza crescita del reddito prodotto in termini reali. Infatti, quando nel dopoguerra, simili teorie furono pure applicate in paesi in via di sviluppo (per non dire arretrati, sottosviluppati), mancanti di industrie o di un’agricoltura appena un po’ modernizzata con livelli di produttività almeno in parte paragonabili a quelli dei paesi sviluppati, e inoltre privi di qualsiasi strato sociale che potesse dirsi imprenditoriale, i risultati furono catastrofici o quanto meno nulli.
6. Non insisterei oltre in una spiegazione così indubbiamente sommaria delle questioni attinenti alla crisi. Ricordo solo che le tesi keynesiane hanno dominato nella scuola accademica per oltre quarant’anni. Sarebbe assurdo tentare qui un bilancio del successo o insuccesso delle stesse; certamente esse sono andate incontro ad una crescente obsolescenza con il passare del tempo dal 1945 in poi. Alla fine si è riaffermato il (neo)liberismo e sono tornate in voga tutta una serie di tematiche che sembravano battute per sempre. Da alcuni decenni, con accelerazione negli ultimi anni, si sta procedendo al netto ridimensionamento del Welfare State, Stato del benessere o Stato sociale – affermatosi decisamente nel dopoguerra e due pilastri del quale sono il sistema pensionistico e quello sanitario – sempre più sotto attacco perché considerato la causa principe del debito pubblico; in Italia esso è dunque in fase di sgretolamento ancor più che in Germania e in Francia.
Inutile diffondersi adesso sui motivi dell’affermazione, per alcuni decenni, di questo Stato sociale, caratteristico soprattutto dell’Europa (e poi anche Giappone) mentre è sempre stato carente negli Stati Uniti, il paese in cui venne lanciata di fatto, ancor prima di ogni teorizzazione in merito, la spesa pubblica in deficit, senza eccessive preoccupazioni nel breve periodo circa il debito dello Stato, che in un periodo più lungo si pensava venisse sanato dalla crescita delle entrate fiscali dovuta alla ripresa dell’attività produttiva e dunque del reddito dei singoli soggetti, imprenditori e lavoratori in testa, in essa impegnati. Non mi sembra comunque che in Keynes si trovasse l’indicazione di uno Stato sociale. Veniva più semplicemente affermata la necessità di procedere – quando scoppia una crisi in un paese avanzato e ben dotato di tutti i fattori produttivi (capitale e lavoro) – ad un’ampia domanda da parte della sfera pubblica in grado di supplire alle carenze di quella privata, legata alle aspettative imprenditoriali e poco sensibile al saggio d’interesse.
Alla creazione dello Stato sociale in Europa hanno senz’altro contribuito cause sociali e politiche: a) la presenza del “campo socialista”, visto come antagonista di quello capitalistico con larga incomprensione, ancora attuale, del nuovo sistema di rapporti sociali, già entrato in crisi e difficoltà di sviluppo a partire dagli anni ’60 (tanto che alcuni ne videro la fine già segnata all’inizio di quelli ’70); b) le lotte del movimento operaio, e dei lavoratori subordinati in genere, per un lungo periodo di tempo dopo la seconda guerra mondiale. Un motivo da non sottovalutare, anzi da ritenere fra i principali, fu la convinzione che lo sviluppo di un paese dipendesse soprattutto dalla spinta che ad esso imprime la domanda. Non ci si scordi che, in definitiva, pur con tutte le debite critiche al liberismo tradizionale, anche i keynesiani sono in definitiva dei neoclassici.
Inoltre, nell’ambito stesso del liberismo neoclassico prekeynesiano, malgrado le tesi sul primato del consumatore e delle sue scelte, si attribuiva rilevanza alle funzioni dell’imprenditorialità. Già nel 1911-12, nella sua Teoria dello sviluppo economico, Schumpeter, certamente un neoclassico non ortodosso, assegnò centralità al ruolo dell’imprenditore innovatore, mettendo in luce l’importanza dell’invenzione di nuovi prodotti, che ha effetti di sviluppo (non di semplice crescita del prodotto) superiori all’innovazione di processo (il progresso tecnico, semplificando). Per quanto interessante sia la questione, non posso qui diffondermi sui limiti del marxismo tradizionale, con la sua teoria del capitalista proprietario dei mezzi di produzione, il cui profitto è estrazione di pluslavoro alla forza lavoro venduta come merce. Si potrebbe constatare, anche in un semplice confronto con la teoria dell’imprenditorialità, quanto abbia errato il marxismo in merito alla struttura dei rapporti sociali formatasi con la cosiddetta centralizzazione dei capitali; in genere interpretata quale semplice formazione del monopolio, catena posta allo sviluppo delle forze produttive e causa della separazione della proprietà rispetto alla direzione della produzione con crescente antagonismo tra capitalista (ormai solo rentier) e lavoratore collettivo cooperativo (“dall’ingegnere all’ultimo manovale”, parole di Marx).
Chi è stato ossessionato, negli ultimi vent’anni soprattutto, dal problema del Debito pubblico e del rapporto deficit/Pil – ossessione cresciuta in modo esponenziale con l’inizio della nuova crisi nel 2008 – può trovare qualche utilità nell’approfondire le varie questioni che in questo scritto ho potuto solo adombrare. La comprensione della crisi, nei suoi vari aspetti, sarebbe però monca se non affrontassimo, ancora più succintamente, la questione dei limiti dell’economicismo imperante e dell’ignoranza dei punti nodali relativi alla politica, alle strategie dei vari gruppi dominanti in conflitto per la supremazia.
P.S. Leggendo questa prima parte, qualcuno avrebbe dovuto sentirsi fischiare le orecchie pensando a come viene presentata l’attuale crisi e quali misure si stiano adottando per combatterla; fine dichiarato, ma che a mio avviso non è quello reale, imposto dall’esterno e, in primo luogo, dagli Usa. Faccio al momento solo pochi accenni alle questioni odierne. Dal novembre del 2011, data di avvento dei presunti “tecnici” per combattere la crisi tramite una impressionante serie di provvedimenti che hanno colpito a fondo le condizioni di vita di gran parte della popolazione, il debito pubblico è cresciuto da 1905 miliardi a ormai 2000 (1995 in settembre); si è passati dal 120 al 127% del Pil. Le previsioni dicono il 129,6% nel 2013 e il 131,4% nel 2014. I decimali, nelle previsioni soprattutto, fanno un po’ ridere, ma l’importante è la tendenza indicata. Ricordo, comunque, che il Giappone ha un rapporto debito/pil di oltre il 200%, si parla perfino del 220%. Anche se poi vi è la differenza legata al fatto che il 90% d’esso è in mano ai giapponesi, mentre il debito italiano è solo per la metà di pertinenza di nostri cittadini. Il debito Usa supera il 100% del Pil. Alcuni rilevano che tale percentuale riguarda soltanto il debito federale; complessivamente, se si considera anche il debito dei singoli Stati, si va verso percentuali del rapporto debito/Pil superiori a quelle italiane (qualcuno parla del 140%).
Infine, si tenga presente che il debito pubblico è solo una parte del problema. In realtà, bisogna valutare la situazione debitoria o meno dei privati, dei cittadini di un paese. In Italia, pur se è negli ultimi tempi in diminuzione, è abbastanza alto il risparmio privato; e questo fa in qualche modo da contraltare al debito pubblico. Se si somma quest’ultimo al suddetto risparmio, l’Italia è in condizioni migliori o meno peggiori rispetto a quasi tutti gli altri paesi sviluppati, ivi compresa la Germania, forse il più “virtuoso” in merito; per non parlare invece degli Usa e del solito Giappone. Tale fatto pone in luce ancora peggiore le attuali politiche governative, che stanno spingendo i privati ad intaccare i risparmi per non ridurre il loro tenore di vita. E i consumi, malgrado questa “resistenza”, sono in notevole diminuzione.
Seguirà una seconda parte, in cui si metterà in luce una prospettiva diversa: “l’urto e frizione tra falde profonde che scatenano i terremoti di superficie”. Ci si riferirà ai problemi politici del confronto multipolare. Il periodo di riferimento (per analogia) sarà quello della grande stagnazione di fine secolo XIX (1873-96), con la quale l’attuale crisi, iniziata nel 2008, ha alcune notevoli somiglianze, pur con differenze certo di fondo.