SPENDERE IN DEFICIT E’ L’UNICA COSA SAGGIA DA FARE

Karl-Marx

 

In questo breve intervento partirò dai due video di Gianfranco La Grassa, pubblicati su Conflittiestrategie, nei quali il Nostro spiega, innanzitutto, che cos’è lo sfruttamento in Marx (http://www.conflittiestrategie.it/che-cose-lo-sfruttamento) e, in secondo luogo, perché tutti quelli che criticano il reddito di cittadinanza (http://www.conflittiestrategie.it/qualche-puntino-sulle-i-p…), ma anche altre misure a favore della popolazione svantaggiata, benché limitate ed insufficienti, debbano essere definiti meramente dei laidi ed imbroglioni, quindi pericolosi per tutta la società. Sicuramente, a certi economisti, o presunti tali, tanto in voga in questi tempi bui, non dovrebbe essere consentito di apparire davanti al pubblico a reti unificate per ripetere le sciocchezze sui tagli e l’austerità. Il tempo dei Monti e dei Cottarelli è passato, i loro danni restano. Questi presuntuosi senza scorza hanno in bocca le forze del libero mercato solo perché il loro cervello è incatenato ad un’unica teoria che seguono come una religione. E pensare che si prendono pure il lusso di tacciare di dogmatismo, o peggio, di velleitarismo chi non la pensa come loro. Hanno le convulsioni se i loro interlocutori parlano di deficit spending o di sforamento dei parametri di Maastricht. Bisognerebbe sbarrare qualsiasi spazio pubblico a questi inetti che hanno già blaterato troppo in passato. Non si tratterebbe di violenza ma di atto dovuto, in quanto è esattamente ciò che capita a noi tutti i giorni. Eppure di cose interessanti ne abbiamo scritte in questi anni. Ancora oggi, dopo tutto quello che hanno combinato e che non hanno previsto si permettono di inorridire di fronte a qualsiasi misura “assistenziale”, presa in un momento di crisi duratura, in quanto profanazione dei principi neoliberisti. Andrebbe veramente regalato loro qualche libercolo, non di Marx che tanto non lo capirebbero, ma almeno di Kyenes (come ha detto, se non sbaglio, Rinaldi in tv qualche mese fa, e come espone anche La Grassa nel suo secondo video) nel quale si chiarisce che la spesa in deficit, e persino scavare buche e poi ricoprirle, può essere utile per far ripartire l’economia ed alleviare le sofferenze della gente, in determinate congiunture di stagnazione. Ai tempi di Marx, questi mentecatti di economisti, ritenevano che fosse impossibile ridurre l’orario di lavoro, anche di una sola ora (e si faticava persino 14 ore), perchè in quella frazione temporale era contenuto tutto il profitto degli imprenditori. Intervenendo legislativamente sulla durata della giornata lavorativa si sarebbe bloccata l’accumulazione del capitale, con conseguente aumento dei prezzi, rduzione della produzione, ripercussione sui salari ed “infine la rovina”. Tutto falso perchè non conoscevano la legge del plusvalore. Ciò mentre quei mezzi deficienti degli industriali ripetono pedissequamente il mantra degli sgravi alle imprese(non che la tassazione non sia troppo elevata), o altre azioni similari, per far rilanciare l’offerta come risoluzione a tutti i mali italiani, non essendo sfiorati dall’idea che se i cittadini non hanno da spendere col piffero che vendono qualcosa in più, anche se moltiplicano i loro prodotti fino alla luna. Nel capitalismo le crisi sono soprattutto da domanda, non da penuria in seguito a carestia, e se i beni restano invenduti non è producendo di più che si esce dal disagio, semmai lo si fa permettendo ai consumatori di svuotare negozi e magazzini con mezzi aggiuntivi, anche attraverso aiuti dello Stato, il quale a sua volta deve investire in mega opere utili a rilanciare il sistema. E’ la domanda complessiva dei privati (consumi più investimenti) che non sta dietro allo sviluppo. E’ quindi la debolezza di questa domanda complessiva la causa reale della crisi. Come conferma La Grassa, “ Se vi è relativa debolezza della domanda privata (di beni di consumo e di investimento), è necessario che lo Stato effettui una sua spesa (pubblica) che vada a sommarsi a quella dei singoli cittadini, una spesa che quindi supplisca alla deficienza di quella dei privati. Ecco la ragione dell’intervento statale in economia… Lo Stato spende, cioè effettua domanda apprestando le opere infrastrutturali già considerate. Il problema che si pone è però: di che tipo di spesa deve trattarsi? Secondo i principi tradizionali (oggi ripresi con vigore) del mantenimento di un pareggio del bilancio statale (o almeno di un deficit da contenersi il più possibile), lo Stato, se vuol spendere di più, deve dotarsi dei mezzi a ciò necessari tramite un accrescimento dell’imposizione fiscale. Così agendo, però, si provoca la diminuzione del reddito dei cittadini, e dunque della loro domanda, al fine di accrescere la domanda pubblica. I conti non tornano. Si dà con una mano e si toglie con l’altra. La domanda (spesa) statale deve essere in deficit di bilancio. E nemmeno è possibile che lo Stato, per poter spendere, accresca il suo debito con l’emissione di titoli (i bot ad es.) perché, ancora una volta, si sottrarrebbe reddito ai privati, indebolendo così la loro domanda per rafforzare quella pubblica. Puramente e semplicemente, si stampa moneta e la si mette in circolazione comprando i fattori produttivi che servono per compiere le varie opere pubbliche. Secondo la tradizionale teoria quantitativa della moneta, quando lo Stato mette in circolazione una massa di moneta superiore, i prezzi delle merci salgono (inflazione). Secondo la teoria keynesiana ciò è vero solo nel caso che i fattori produttivi (lavoro e capitale) siano pienamente occupati e non si possa perciò accrescere, almeno nel breve periodo (in mancanza di aumento delle potenzialità produttive dovuto ad investimenti e nuove tecnologie), la quantità prodotta e offerta. Quando invece c’è la crisi, i fattori sono disoccupati; ma, come sopra considerato, è essenziale che lo sia il lavoro così come il capitale (mezzi di produzione); debbono esserci milioni di lavoratori a spasso e migliaia di imprese chiuse, ma potenzialmente in grado di riaprire i battenti, con macchinari che hanno solo bisogno di essere lubrificati e rimessi in movimento. L’importante è solo che riparta la domanda dei beni, perché allora le imprese riprendono a produrre, riassumendo forza lavoro. La spesa pubblica per infrastrutture, insomma, dà impulso all’attività di una serie di imprese che debbono – tanto per fare un esempio – fornire cemento, acciaio, vetri, infissi, mobilio, ecc. per costruzioni edili. E queste imprese debbono assumere lavoro (dirigente come esecutivo) per produrre; così facendo, distribuiscono salari a lavoratori prima disoccupati, che cominceranno a domandare beni prodotti, a loro volta, da altre imprese. Anche queste allora si riattivano, acquistando beni di produzione e pagando salari ad altri lavoratori prima disoccupati che, con il salario percepito, domandano altri beni di consumo e …..via di questo passo, in un circolo ora virtuoso di ripresa economica”.
Ugualmente, andrebbero trattati da straccioni sindacalisti, filosofi o pseudo marxisti, che parlano di schiavitù del lavoro. Lo sfruttamento, come bene ha chiarito La Grassa nel video, non avviene perché il capitalista con la spada in pugno minaccia e batte il lavoratore. A mettere a posto Dühring ci ha pensato Engels molti decenni fa: “In generale la proprietà privata non appare affatto nella storia come risultato della rapina e della violenza. Al contrario. Essa sussiste già, anche se limitatamente a certi soggetti, nella comunità primitiva naturale di tutti i popoli civili. Già entro questa comunità essa si sviluppa, dapprima nello scambio con stranieri, assumendo la forma di merce. Quanto più i prodotti della comunità assumono forma di merci, cioè quanto meno vengono prodotti da essa per l’uso personale del produttore e quanto più vengono prodotti per il fine dello scambio, quanto più lo scambio soppianta, anche all’interno della comunità, la primitiva divisione naturale del lavoro, tanto più diseguali divengono le fortune dei singoli membri della comunità, tanto più profondamente viene minato l’antico possesso comune del suolo, tanto più rapidamente la comunità si spinge verso la sua dissoluzione e la sua trasformazione in un villaggio di contadini parcellari. Per secoli il dispotismo orientale e il domino mutevole di popoli nomadi conquistatori non poterono intaccare queste antiche comunità; le porta sempre più a dissoluzione la distruzione graduale della loro industria domestica naturale operata dalla concorrenza dei prodotti della grande industria. Così poco si può parlare qui di violenza, come se ne può parlare per la sparizione che avviene anche oggi dei campi posseduti in comune dalle “Gehöferschaften” [comunità di villaggio] sulla Mosella o nello Hochwald; i contadini trovano che è precisamente nel loro interesse che la proprietà privata del campo subentri alla proprietà comune. Anche la formazione di un’aristocrazia naturale, quale si ha nei celti, nei germani e nel Punjab basata sulla proprietà comune del suolo, in un primo tempo non poggiò affatto sulla violenza, ma sul consenso e sulla consuetudine. Dovunque si costituisce la proprietà privata, questo accade in conseguenza di mutati rapporti di produzione e di scambio, nell’interesse dell’aumento della produzione e dell’incremento del traffico: quindi per cause economiche. La violenza qui non ha assolutamente nessuna parte. È pur chiaro che l’istituto della proprietà privata deve già sussistere prima che il predone possa appropriarsi l’altrui bene; che quindi la violenza può certo modificare lo stato di possesso, ma non produrre la proprietà privata come tale. Ma anche per spiegare “il soggiogamento dell’uomo allo stato servile” nella sua forma più moderna, cioè nel lavoro salariato, non possiamo servirci né della violenza, né della proprietà fondata sulla violenza. Abbiamo già fatto menzione della parte che, nella dissoluzione delle antiche comunità, e quindi nella generalizzazione diretta o indiretta della proprietà privata, rappresenta la trasformazione dei prodotti del lavoro in merci, la loro produzione non per il consumo proprio, ma per lo scambio. Ma ora Marx ha provato con evidenza solare nel “Capitale”, e Dühring si guarda bene dal riferirvisi sia pure con una sola sillaba, che ad un certo grado di sviluppo la produzione di merci si trasforma in produzione capitalistica, e che in questa fase “la legge dell’appropriazione poggiante sulla produzione e sulla circolazione delle merci ossia legge della proprietà privata si converte direttamente nel proprio diretto opposto, per la sua propria, intima, inevitabile dialettica. Lo scambio di equivalenti che pareva essere l’operazione originaria si è rigirato in modo che ora si fanno scambi solo per l’apparenza in quanto, in primo luogo, la quota di capitale scambiata con forza-lavoro è essa stessa solo una parte del prodotto lavorativo altrui appropriato senza equivalente, e, in secondo luogo, essa non solo deve essere reintegrata dal suo produttore, l’operaio, ma deve essere reintegrata come un nuovo sovrappiù (…) Originariamente il diritto di proprietà ci si è presentato come fondato sul rapporto di lavoro (…) Adesso” (alla fine del suo sviluppo dato da Marx) “la proprietà si presenta, dalla parte del capitalista come diritto di appropriarsi lavoro altrui non retribuito ossia il prodotto di esso, e dalla parte dell’operaio come impossibilità di appropriarsi il proprio prodotto. La separazione tra proprietà e lavoro diventa conseguenza necessaria di una legge che in apparenza partiva dalla loro identità” In altri termini: anche se escludiamo la possibilità di ogni rapina, di ogni atto di violenza, di ogni imbroglio, se ammettiamo che tutta la proprietà privata originariamente poggia sul lavoro proprio del possessore, e che in tutto il processo ulteriore vengano scambiati solo valori eguali con valori eguali, tuttavia, con lo sviluppo progressivo della produzione e dello scambio, arriviamo necessariamente all’attuale modo di produzione capitalistico, alla monopolizzazione dei mezzi di produzione e di sussistenza nelle mani di una sola classe poco numerosa, alla degradazione dell’altra classe, che costituisce l’enorme maggioranza, a classe di proletari pauperizzati, arriviamo al periodico affermarsi di produzione vertiginosa e di crisi commerciale e a tutta l’odierna anarchia della produzione. Tutto il processo viene spiegato da cause puramente economiche senza che neppure una sola volta ci sia stato bisogno della rapina, della violenza, dello Stato, o di qualsiasi interferenza politica. La “proprietà fondata sulla violenza” si dimostra qui semplicemente come una frase da spaccone destinata a coprire la mancanza di intelligenza dello svolgimento reale delle cose”. (cit. Engels, Anti-Dühring).
Dunque, il salariato non è fisicamente proprietà di chi acquista le sue prestazioni. Il profitto stesso è il risultato di una relazione sociale e non una rapina ai suoi danni, sotto minaccia di pene corporali. Non si dovrebbe nemmeno parlare di sfruttamento, termine ormai obsoleto ed equivoco, che non rende giustizia della condizione delle maestranze nelle società a capitalismo avanzato. Il capitalista infatti, in virtù del possesso/proprietà dei mezzi produttivi, ottiene prodotti aggiuntivi dall’uso della forza-lavoro nel processo lavorativo, rispetto al valore pagato per tale merce (per la sua riproduzione) sul mercato, in seguito a libera contrattazione tra le parti. Chi parla di asservimento non ha capito nulla e fa danno a chi vorrebbe tutelare. Non è diverso da quegli economisti che fanno terrorismo psicologico sui conti pubblici e che vorrebbero ridurre lo Stato a semplice organo ragionieristico a servizio degli attori economici privati. Lo Stato, invece, è soprattutto insieme di apparati, dove agiscono attori strategici in competizione, che producono una visione storica e geopolitica, in clima perdurante squilibri e di conflitti, nazionali ed internazionali. E’ gestione dei rapporti di forza, non ente di semplice contabilità di supporto alla libera iniziativa. Queste visioni devono essere spazzate via perché assolutamente perniciose in un’epoca che scatenerà una lotta sempre più accesa per il dominio globale. Intelligenti pauca.