SQUILIBRIO CONTRO EQUILIBRIO
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1. Nei modelli teorici si parte spesso da una presupposta situazione di equilibrio, che si sa bene servire soltanto da base per studiare poi i processi di non equilibrio. Ad es. Marx prende le mosse dalla riproduzione semplice, con crescita nulla del sistema, che resterebbe di ciclo in ciclo sempre eguale a se stesso. Schumpeter immagina invece un flusso circolare, che in genere prevede una crescita ma sempre secondo eguale proporzione tra le varie parti del sistema. Dalla riproduzione semplice si passa a quella allargata con il reinvestimento di una quota del plusvalore ottenuto da parte dei capitalisti/proprietari (dei mezzi produttivi, non certo di consumo); mentre dal flusso circolare si passa allo sviluppo grazie all’attività innovativa di specifici imprenditori.
Nella riproduzione allargata si può pensare alla semplice crescita, con allargamento del sistema produttivo secondo le medesime proporzioni dei vari settori o branche; allargamento consentito anche da una semplice accumulazione del capitale investito secondo quote sempre percentualmente eguali in questi vari settori e senza un particolare processo innovativo o, quanto meno, con innovazioni di processo che innalzino la produttività in modo uniforme nelle varie branche del sistema complessivo. Nello sviluppo in quanto fenomeno di rottura del flusso circolare è invece impossibile che non si verifichino processi innovativi di vario genere – fra cui le innovazioni di prodotto che complicano il reticolo intersettoriale – poiché è proprio la proporzione tra i vari settori ad uscirne alterata, con avanzamento di quelli interessati da innovazioni o addirittura nuovi a scapito degli altri più tradizionali (di passate epoche innovative, ormai divenuti di routine o maturi).
E’ però possibile affrontare il problema da una prospettiva diversa, in un certo senso opposta: presupporre lo squilibrio come processo fondante il sistema. Senza lo squilibrio in quanto base dell’analisi relativa all’evolversi di dati processi (ad esempio quello produttivo), non sarebbe possibile una corretta individuazione e valutazione prospettica circa il verificarsi degli stessi. Si badi bene: non si tratta affatto di una supposizione che pretenderebbe di riprodurre più esaurientemente la realtà così com’essa è. In ogni caso, il teorico è consapevole di stare costruendo mappe interpretative che con il “reale” intrattengono sempre un rapporto di ipotesi di certi andamenti con verifica delle stesse, correzione delle mappe mediante nuove ipotesi, e così via in un processo senza fine mai in grado di attingere la realtà così com’essa è. Tuttavia, si ritiene preclusa la strada di un’analisi che serva all’azione (alla pratica) nel mondo “reale” se non si pone all’inizio la presenza dello squilibrio.
E’ la strada percorsa da Lenin (non so con quale consapevolezza teorica) nello studio e valutazione della fase imperialistica, assai poco produttivi di effetti “pratici” se non fossero stati basati sullo sviluppo ineguale, tesi che presuppone la priorità dello squilibrio. Senza questa presupposizione, non sarebbe stata possibile la previsione circa l’anello debole della “catena imperialistica”. E ancor meno il dirigente bolscevico avrebbe dimostrato la sua grande duttilità, legata alle esigenze della prassi politica, nel ricercare le alleanze tra grandi raggruppamenti sociali (operai e contadini, soprattutto poveri) adeguate al fine di concentrare l’azione trasformativa (rivoluzionaria) su detto anello debole.
2. Per quanto non sia immediatamente “visibile”, il problema dell’alternarsi di epoche monocentriche e policentriche (l’imperialismo fu una di queste) può essere trattato con modalità assai diverse a seconda della priorità assegnata all’equilibrio o allo squilibrio nel “modello” teorico utilizzato per l’interpretazione della “realtà”. Vi sono correnti, penso alla scuola dell’economia-mondo (e annessi e connessi), che di fatto fondano l’analisi sul passaggio dal predominio di una grande potenza alla supremazia di un’altra (Spagna, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti, solo come elementare esempio). I periodi di passaggio (policentrici), pur non studiati certo con modalità deterministiche, restano in definitiva subordinati a quelli (monocentrici) di preminenza di una nazione, di uno Stato, di un paese. L’attenzione del teorico è soprattutto attratta dalla potenza preminente, d’epoca in epoca, e questo non può non influenzare la ricostruzione storico-teorica delle epoche di transizione che, appunto, non è la riproduzione della realtà così com’essa è, ma solo un’interpretazione in grado poi di promuovere, sia pure tramite molte mediazioni, una determinata prassi oppure un’altra, ecc.
Non è chi non si accorga che l’epoca monocentrica corrisponde, grosso modo, a quella detta da Kautsky ultraimperialistica. In effetti, la potenza predominante ha – e non solo per ragioni economiche, ma di assai varia natura (quindi anche politico-militari, ideologico-culturali, ecc.) – possibilità di realizzare una certa regolazione dell’insieme. Chi analizza l’epoca di una predominanza – fosse anche limitata ad un’area mondiale, come lo fu la supremazia del capitalismo statunitense tra il 1945 e il 1989-91 – ha l’impressione di un qualche ordine esistente in quell’area; non a caso si suppose, nel periodo storico considerato, la fine delle “grandi crisi” capitalistiche e l’affermarsi, pur nel “libero” mercato, di una economia regolata, in potenziale continuo sviluppo solo interrotto da brevi crisi “sistemiche” (recessioni), tutto sommato “normali” e controllabili. Non vi è dubbio che il mondo bipolare – la Cina vi restava estranea, malgrado la rilevanza del suo peso politico – è stato la fonte di questa deviazione teorica.
Esisteva, da una parte, il “socialismo” – per i suoi critici un mondo comunque ostico da decifrare, tanto da semplificarsi il compito con l’ormai evidentemente errata tesi del capitalismo di Stato – e, dall’altra, il capitalismo tout court, che veniva criticato e magari combattuto, ma sempre a partire dalla sua considerazione quale blocco unico; o visto (questo l’errore più grave, ancora perdurante in cervelli poco pensanti) come transnazionale o subordinato al centro regolatore statunitense. Non appena uno dei “mondi” crollò e sembrò essere riassorbito nel sistema complessivo, ci fu chi pensò ad un’epoca imperiale (dominata dagli Usa) di durata indeterminata, chi invece preconizzò il declino di questo paese, subito passando però ad immaginare quale sarebbe stata la nuova potenza predominante: prima fu il Giappone, errore marchiano, poi si è scommesso sulla Cina. Che questa lo diventi fra cinquant’anni oppure no è proprio ciò che interessa di meno. L’importante è capire – via ipotesi aperte all’errore/verifica/correzione in un processo ininterrotto – come si andrà atteggiando lo sviluppo ineguale nella nuova epoca policentrica (“imperialistica”, se si vuole).
Spero non ci sia bisogno di spendere altre parole affinché il lettore attento afferri le maggiori possibilità di incorrere in errori (da correggere poi con grande difficoltà), accettando l’idea che l’aspetto fondamentale dell’evolversi degli eventi storici sia rappresentato dal monocentrismo, versione (internazionale) della priorità analitica dell’equilibrio. Mentre lasciare in sospeso quale sarà la nuova potenza che dovrà sostituire gli Stati Uniti in declino (proprio inarrestabile? Si conosce la storia del “vendere la pelle dell’orso prima….ecc.”?) – il che significa non essere ossessionati dal voler fare previsioni di tipo “secolare” (devastante mania degli intellettuali) – vuol dire porre in primo piano, anche dal punto di vista metodologico, le epoche policentriche, cioè le fasi dello squilibrio. Da questo squilibrio, che è lo sviluppo ineguale, si originano – certamente dopo opportuna maturazione del processo – le crepe in grado di fessurare il sistema in dati punti (non prevedibili all’inizio del processo, che non è deterministico, ma prevalentemente caotico): gli anelli deboli di una catena di rapporti internazionali come definiti da Lenin.
Ecco perché sistemi teorici, tipo quelli dell’economia-mondo, vanno ormai superati. Non dico che non abbiano avuto i loro meriti; e che non possano essere ancora utili in singoli punti dell’analisi, in specie empirica. Tuttavia, è l’impostazione generale che va accantonata. Oggi deve prevalere l’attenzione per le epoche policentriche, cioè per lo squilibrio come prioritario rispetto all’equilibrio. Lo ribadisco: non prioritario perché più vicino alla “realtà”, ma perché abbiamo bisogno di seguire le alterne vicende mondiali – con i lenti o rapidi mutamenti di presunti “equilibri” (dei rapporti di forza) – riassunte nella denominazione di sviluppo ineguale dei diversi paesi capitalistici, senza più concessioni ai tromboni, e autentici falsificatori al servizio dei dominanti, che blaterano di fine degli Stati nazionali, cioè di fine delle potenze proprio mentre alcune sono in crescita e ci si avvia intanto al multipolarismo, fase d’avvio dell’epoca policentrica.
3. Puntare sulla priorità dell’equilibrio, e dunque delle fasi di monocentrismo, ha ulteriori effetti negativi. Indubbiamente Lenin, tutto preso dalle necessità della fase storica in cui visse e in cui riuscì con il gruppo dirigente bolscevico ad approfittare della rottura della catena imperialistica nell’anello debole russo, non poté portare a compimento la necessaria “rivoluzione” anche in campo teorico. La tesi dello sviluppo ineguale si arrestò alle soglie di quest’ultima in omaggio alla pretesa di essere l’ortodosso del marxismo in lotta contro il revisionismo kautskiano (socialdemocratico), mentre la realtà era proprio l’opposto. Solo che Lenin non volle rischiare di essere il revisionista per eccellenza e così si fermò a mezza via (ovviamente non si trattò di scelta consapevole; diciamo pure, per semplificarci i compiti, che “i tempi non erano maturi”).
Resta il fatto che la tesi dell’imperialismo quale ultimo stadio del capitalismo gli precluse l’altra “mezza via”. Per molto tempo, il “marxista” cristallizzato ha cercato infantilmente di sostenere che “ultimo” non significava finale, bensì ultimo in ordine di tempo. Non è vero, ogni marxista ha sempre stabilito analogie tra l’organismo sociale e quello biologico, con le sue fasi di nascita, giovinezza, maturità, vecchiaia e infine morte per rinascere in altra forma. L’imperialismo è stato sempre trattato quale senescenza, vecchiaia, del capitalismo. L’errore fondamentale non era però questo; non a caso ho sottolineato “stadio” e non “ultimo”. Era necessario abbandonare l’idea degli stadi. Negli anni ’90 e inizio di questo secolo, ho più volte formulato la tesi delle ricorsività e non degli stadi, per evitare di pensare sempre alla fine di date formazioni sociali in una visione unilineare dell’evoluzione storica, tesa ineluttabilmente verso le ben note “magnifiche sorti e progressive”.
In realtà, la ricorsività andrebbe meglio intesa quale fase di transizione a nuove forme dei rapporti sociali, senza però pensare alla fine di una sorta di capitalismo sempre considerato nella forma analizzata da Marx e che riguarda soltanto il capitalismo inglese (quello borghese) al suo apogeo nella fase monocentrica da esso dominata. Va data priorità allo squilibrio, che persiste anche durante l’epoca della predominanza centrale di una data potenza, squilibrio che “lavora” il sistema apparentemente “regolato”. Il suo lavorio appare “in superficie” nelle crisi “sistemiche” sia pure di non drammatica intensità. Alla fine esso inizia a dissolvere la coesione tra le varie parti del sistema (in definitiva le diverse formazioni particolari, i paesi, nazioni, ecc.); e ci si avvia allora verso la fase policentrica dove il conflitto, sempre unito (ma in funzione subordinata) all’alleanza e cooperazione (appunto per la conduzione del conflitto), diventa via via più acuto fino alla necessità della resa dei conti tra blocchi di “alleanze” (stabilite per pura convenienza e che quindi lasciano sempre sussistere la tensione che è squilibrio).
Tuttavia, le ricorsività di mono e policentrismo appaiono nelle loro forme più generali, ma ogni fase policentrica (di crescente affermazione dello squilibrio) è anche di specifica transizione ad una nuova forma dei rapporti sociali. L’imperialismo lo fu dal capitalismo borghese a quello dei funzionari del capitale con predominanza statunitense. Per vari motivi piuttosto economicistici, di rilevanza delle forme del mercato e dell’impresa nel sistema produttivo, parliamo sempre di capitalismo, tuttavia cominciando almeno a declinarlo al plurale (i capitalismi). Adesso, la prossima fase multipolare, considerata quale anticipazione del policentrismo, potrebbe annunciare una nuova transizione in cui giocherà, in lotta con la formazione capitalistica tuttora in auge, un nuovo capitalismo le cui forme, in quest’epoca storica assai mobili e soprattutto mal conosciute, sono soprattutto (o almeno così sembra attualmente) quelle delle formazioni particolari russa e cinese, tutto sommato risultato – pur attraverso le complesse vicende di quasi un secolo e con l’estensione territoriale (in paesi e quindi società diverse) – della Rivoluzione d’ottobre, che si conferma perciò, ma con modalità di impossibile comprensione mediante il marxismo ossificato, uno dei grandi eventi storici, al pari della Rivoluzione del 1789.
Quando, liberatici infine degli “ismi” del XX secolo ancora per null’affatto superati, riusciremo a capire meglio le transizioni rappresentate dalle fasi policentriche – e in particolare quella fondamentale tra capitalismo borghese e dei funzionari del capitale, avvenuta nell’epoca dell’imperialismo, giacché la successiva è appena agli inizi – saremo pure in grado di decidere se vale ancora la pena di usare il termine capitalismo (declinato però al plurale) oppure se, superando l’economicismo delle forme mercantili e imprenditoriali, ci si dovrà decidere per una diversa opzione. Non è però questo il problema che ci assilla oggi. Si deve cominciare con il superamento di teorie vergognosamente cristallizzate, sterili, ormai giocattoli per bambini utilizzati da adulti che si limitano ai birignao della loro infanzia.
A questo serve la tesi della priorità dello squilibrio, non a pretendersi capaci di riprodurre la realtà così com’essa è. La marxiana “riproduzione del concreto nel cammino del pensiero” (Introduzione del 1857) lasciamola tra gli “arnesi” (teorici) di 150 anni fa; importante com’è anche ogni “arnese” dell’evoluzione tecnica dell’umanità, che non può saltare a piè pari determinati gradini, però sapendo che quell’“arnese” trova, dopo un determinato periodo di tempo, il suo degno posto nel “museo della tecnica”.
E’ chiaro il discorso o si devono sempre ripetere le stesse cose? Certo i fessi e gli sclerotizzati non capiranno; allora, per favore, lasciamoli perdere. Tanto più che alcuni sono imbroglioni e ingannano alcuni giovinastri cercando di ripetere il ’68, ma sono al servizio dei capitalismi più reazionari, così come lo diventarono i “terribili rivoluzionari operaisti” che inneggiarono infine alla “qualità totale” della Fiat. Vediamo meglio oggi quale funzione stiano assolvendo questi intellettuali cialtroni. Non si discuta più con loro; non ha alcun senso, sono dei miserabili in perfetta malafede e al servizio dei più banditeschi gruppi dominanti italiani e stranieri (statunitensi in testa). Quindi nostri nemici acerrimi.
4. Ancora alcune considerazioni conclusive. Bisogna ben capire il senso della priorità dello squilibrio. Nessuna menzogna relativa al fatto che saremmo più vicini alla Verità (o almeno alla verità) rispetto a coloro che partono dal presupposto “iniziale” dell’equilibrio. La scelta è solo relativa alla maggiore utilità dello strumento interpretativo (del passato) e previsivo ai fini di una prassi (politica), che non ne discende tuttavia in modo immediato e con filiazione diretta. Lunga, anche in termini temporali, è la catena dei passaggi intermedi tramite i quali si sviluppa il processo di ipotesi/prova/errore/nuova ipotesi, ecc. Lo squilibrio, inoltre, vieta di pensare ai secoli futuri poiché ci obbliga ad accorciare il tiro dei nostri “obici teorici”. In più, ci impedisce di fissarci su una sola conclusione – ad esempio, quale sarà la nuova potenza centrale, predominante: il Giappone, poi la Cina, ecc. – poiché l’importante è seguire l’evoluzione dello sviluppo ineguale assai più da vicino, con atteggiamento di grande flessibilità e adattamento a situazioni estremamente mutevoli, quali sono quelle della fase policentrica.
Vi è però un mutamento ancor più sostanziale, che esito a definire metodologico, termine che mi sembra assai limitativo. Chiamatelo come volete. Se si parte dalla riproduzione semplice, dal flusso circolare, ciò che viene pensato come passaggio a quella allargata o alla innovazione di rottura lo è sempre quale attività razionalmente tesa ad uno scopo di efficienza, di “economico” impiego delle risorse. Una parte del plusvalore viene reinvestita (accumulata), ma seguendo il criterio del conseguimento del massimo profitto, il che implica l’applicazione del principio del minimo mezzo o massimo risultato (cioè minimo costo o massimo ricavo). L’innovazione implica creatività, ma sempre in vista dello stesso risultato. L’esistenza della razionalità limitata, della non trasparenza assoluta dei mercati, ecc. è semplicemente la solita manfrina di coloro che a Galilei avrebbero obiettato: ma dove mai esiste un moto senza attrito, da potersi definire “rettilineo uniforme”? A simili effettivamente limitati pensatori hanno anche assegnato premi Nobel, ma tanto sappiamo meglio adesso come vengono vinti. Non badiamoli nemmeno, non sanno uscire dal vero errore commesso nel valutare il carattere del capitalismo, forma storicamente specifica di una caratteristica generale di ogni formazione sociale.
Naturalmente, si tiene conto che il massimo profitto (come quello invece conseguibile in presenza di “attriti”) è ottenuto in una competizione (lotta) concorrenziale; tuttavia, quest’ultima è secondaria (logicamente) rispetto al fine prioritario del profitto, è dunque un mezzo, obbligatorio nella forma capitalistica dei rapporti sociali (però di produzione), per raggiungere la finalità suprema del capitalista proprietario dei mezzi produttivi. Ecco allora che – supponendo la ben nota dinamica capitalistica che conduce alla scissione della società in una classe di ormai sostanziali rentier, da una parte, e nella classe dell’intero corpo lavorativo produttivo (“dall’ingegnere all’ultimo manovale”), controllore in collettivo dei mezzi di produzione, dall’altra – diventerebbe possibile pensare al recupero sociale della razionalità produttiva del capitalista concorrenziale. Il “Robinson collettivo” (vedi primo capitolo de Il Capitale, paragrafo sul feticismo della merce) userebbe ancora il principio del minimo mezzo per l’utilità sociale complessiva. La produzione potrebbe essere pianificata dalla collettività dei produttori in possesso dei mezzi produttivi in base al principio che è lo stesso posto in primo piano dalla scienza economica dei dominanti, solo che in quest’ultima riguarda il singolo capitalista.
In fondo, il “Robinson collettivo” utilizzerebbe i mezzi scarsi – adibiti alla produzione dei diversi beni utili a soddisfare i vari bisogni stabiliti dalla collettività con decisione comune – in base al principio del minimo mezzo; almeno fino a quando non si fosse realizzato il pieno comunismo, che implicherebbe la fine della scarsità dei beni in relazione ai bisogni. Il tutto in armonia e cooperazione. Una volta eliminato il controllo “individuale” (anche di gruppi di capitalisti evidentemente) dei mezzi produttivi, l’uso di questi (e i bisogni da soddisfare tramite i beni con essi prodotti, utilizzando la forza lavoro fornitrice del pluslavoro/plusvalore) non dipenderebbe più dalle decisioni di singoli “individui” in base al massimo profitto (con tutte le limitazioni possibili dovute agli “attriti”, pensati da cervelli poco adusi all’astrazione scientifica).
Da simili distorte concezioni sono poi dipese le improprie conclusioni sugli extraprofitti di monopolio, in teorie che eliminano anche gli squilibri (secondari) legati alla competizione concorrenziale; e le altre concernenti il detestato consumismo, anch’esso imposto da quelle cattivone di imprese monopolistiche, magari multinazionali, ecc. Banalità su banalità, ancora diffuse con “sapienzialità” da sciamani premiati quali grandi pensatori sociali, mentre sono vecchioni (anche quando giovani d’età) rimbambiti pagati dai media di una classe dominante ormai degenerata (nell’ambito della formazione dei funzionari del capitale, questa sì arrivata alla sua senescenza; per cui certamente o gli Stati Uniti muteranno, nella prossima transizione policentrica, formazione sociale o declineranno di fronte alle nuove in avanzata).
Porre in prima posizione lo squilibrio spazza via tutta questa cianfrusaglia ormai odorante di stantio e perfino di putrefazione. Il profitto (plusvalore) è mezzo, non fine. Quest’ultimo è la supremazia, che viene raggiunta tramite un conflitto permanente (che sempre esige le alleanze tese a tal fine), in cui si usa in prevalenza il “calcolo” strategico, differente per natura da quello di efficienza, di economicità. Se è possibile, e fin quando possibile, viene certo usato questo criterio calcolistico del minimo mezzo, ma solo se non contravviene alla conquista della supremazia tramite uso delle strategie di conflitto. E tali strategie appartengono al campo generale della politica; sia che vengano impiegate nella sfera propriamente politica o invece economica, e in ogni dove si esplichi azione umana. Il capitalista non è il mero proprietario, è lo stratega; ciò era già in parte implicito nella teoria manageriale di Burnham (il più avanzato conoscitore della nuova formazione capitalistica affermatasi negli Usa), ma ancora con riferimento predominante alla sfera economica e restando invischiati nella problematica della lotta tra management e proprietà, in cui il primo avrebbe infine prevalso definitivamente; mentre invece le forme giuridiche, in auge nella mera sfera economica, possono essere congiunturalmente variabili, perché il conflitto, nella sua reale dimensione di strategia per conquistare la supremazia nella società nel suo complesso (a “più sfere”), è l’elemento generale e cruciale.
Un simile mutamento (di paradigma? Definitelo come volete) comporta il completo rivolgimento dell’intera prospettiva teorica; sia delle teorie dei dominanti sia di quella marxista, da cui il sottoscritto prende le mosse per il semplice motivo che questa è la teoria da me coltivata lungo tutta una vita. Come sempre ho detto, esco da Marx; e la porta di uscita non ha nulla di “innocente”, segna anche il percorso da compiere una volta usciti. Quando si è fuori, tuttavia, non si può più tornare dentro, perché si sente la puzza di chiuso, di vecchie scartoffie e mobili tarlati. Ho scritto al proposito cinque libri (gli ultimi due usciranno entro pochi mesi), in cui è già visibile una gran mole di cambiamenti teorici. Si deve però andare avanti; e non servendosi più del solo Marx. E nemmeno del solo Lenin. Andremo avanti; anche la terza parte di Forze produttive e rapporti di produzione (che dovrà alla fine cambiare nome) tratterà di questi mutamenti. Qui volevo solo far notare che questi ultimi sono dipesi pure dal cambiamento, solo apparentemente una semplice inversione, della priorità tra equilibrio e squilibrio. E tanto basti, al momento.