STAR WARS EPISODIO VII: IL DECLINO DELL’IMPERO AMERICANO di F. Mazzuoli
di
Francesco Mazzuoli
Il cinema hollywoodiano è – per chi non lo sapesse, cioè tutti – un cinema di Stato e di propaganda, anzi, oserei dire l’arma meglio padroneggiata dall’impero americano. L’intera produzione filmica è stata da sempre scrupolosamente supervisionata e presenta una straordinaria omogeneità: grandi autori e miti come John Wayne o John Ford hanno lavorato per tutta la vita in modo zelante per confezionare prodotti di intrattenimento che veicolassero i valori e l’immagine dell’America programmati dagli esperti di comunicazione ingaggiati dalla Cia e dal Dipartimento di Stato. Oggi, però, anche la macchina hollywodiana della propaganda mostra la corda e – per chi è in grado di leggere i segnali “deboli” – questo è un altro sicuro indizio del declino della prima potenza planetaria.
Il “nuovo”, deludentissimo episodio di Star Wars è la prova lampante di questo declino. Guerre stellari è un mito americano per eccellenza ed esso è irrimediabilmente invecchiato, non è più capace nè di affascinare nè di fare alcun tipo di presa.
Quando il primo Guerre Stellari uscì, nell’ormai lontano 1977, il film colpì per la freschezza e la carica di innovazione che conteneva; non parliamo poi degli effetti speciali che allora costituirono quasi una rivoluzione. Il successo travolgente – e inaspettato dai produttori – dette il via alla serie che, episodio dopo episodio, è giunta fino a noi. Dal punto di vista dell’intreccio, non c’erano grosse novità, ma i personaggi si stagliavano a tutto tondo in modo nitido e quasi prototipico, come eroi di narrazioni mitiche, e la storia era scandita da passaggi che poi diventeranno canonici nello sviluppo dei plot americani. Ciò era il frutto degli insegnamenti dello studioso di mitologia Joseph Cambell – all’università era stato insegnante del regista George Lucas – le cui teorie cominciavano allora a penetrare tra gli sceneggiatori di Hollywood, sempre pronti – come qualunque americano degno di questo nome – ad appropriarsi della cultura elaborata da altri per trasformarla in una formuletta per far soldi.
Questo ennesimo episodio, invece, che inaugura un’altra – e stavolta, speriamo ultima – trilogia della saga multimiliardaria, è stanco, esanime, nato morto. Non ha più alcuna forza ammaliante e propulsiva. Durante la visione, la mancanza totale di idee suscita quasi un sentimento di pena, pena per un estenuato tentativo di tenere in vita un cadavere e si ha la netta impressione che questo cadavere sia lo stesso sogno americano. L’intreccio non è che il rifacimento del primo e del secondo episodio, mescolati insieme in un cocktail dal sapore dozzinale e risaputo come il Kentucky fried chicken. Non c’è nemmeno un passaggio della storia che non sia già previsto dallo spettatore dei primi episodi, che a tratti è colto da una noia straziante. Per non dire del cosiddetto “visual” del film: qui si è inteso riprendere l’atmosfera dei primi episodi con il risultato di creare un senso di straniamento nello spettatore, il quale, partito per vedere una storia temporalmente successiva agli episodi precedenti, ha, invece, la sensazione di assistere a qualcosa di più vecchio.
Tuttavia, l’icona del film è senz’altro Harrison Ford: un vecchio di settant’anni che veste da ragazzino e nel frattempo non ha ancora imparato a recitare. Ecco, qui c’è tutta la sintesi del declino americano: un paese che è sempre rimasto adolescente e che improvvisamente si ritrova invecchiato e ripropone nello spettacolo e nella propaganda, così come nella geopolitica e nelle sceneggiature del finto terrore propalato al mondo, sempre la stessa storia, la stessa formula, gli stessi gesti, senza più la capacità di innovare, di rinnovarsi e di leggere la realtà.
E infatti la propaganda è quanto di più trito non si potrebbe: i cattivi assomigliano ancora di più ai nazisti, nell’abbigliamento e nelle adunate pubbliche che sembrano ricalcate sui cinegiornali degli anni trenta. Il mondo è manicheo: i buoni sono assolutamente buoni e i cattivi assolutamente cattivi. I conquistatori e gli imperialisti sono gli altri: i buoni sono per la repubblica, la democrazia e garantiscono i diritti di tutti. La famiglia e i legami di sangue sono imprescindibili. É la stessa America degli anni ’50, con in più una donna come protagonista e un personaggio di colore tra i buoni (e come poteva mancare ora che, nella vita reale, praticamente tutti i giorni i poliziotti bianchi gli sparano addosso?).
Eh sì, mentre, immerso nei videogiochi – e Star Wars ormai non è altro che questo – l’americano ha continuato indefesso a sparare, nel contempo il mondo è divenuto un posto troppo complesso per un popolo di adolescenti, colpiti precocemente dall’aterosclerosi, senza essere riusciti ancora a togliersi il giubbotto e i blue jeans per mettersi la vestaglia.
Non è un paese per vecchi, recitava il titolo di un altro film americano. Già, ma nemmeno più un mondo per adolescenti invecchiati.