SUL MONDO BIPOLARE E LA SUA “PACE”, di GLG, 6 aprile 15
1. Il mondo bipolare, diviso tra Usa e Urss – durato dal 1945 al 1989/91 – è stato un mondo che ha conosciuto una certa pace, anche se si chiamò “guerra fredda”, “equilibrio del terrore”, ecc. Tutte dizioni del tutto improprie perché mai, malgrado ogni tanto si parlasse e scrivesse a profusione del pericolo di guerra calda (ma i due contendenti sapevano bene di fingere il passaggio allo scontro aperto), non vi fu mai nulla né si fu minimamente vicini allo scontro frontale. Nemmeno gli accenni di ribellione verificatisi nel campo dominato dall’Urss (Ungheria 1956, Cecoslovacchia 1968) portarono in realtà a nulla più che ad una propaganda intensa tesa a screditare il cosiddetto socialismo e a far risaltare la virtù (la stabilità interna) del sedicente “mondo libero”, del mondo in cui vigeva la “democrazia”, sempre più simile a quella carnevalata che è quest’ultima negli Stati Uniti.
Ovviamente, la pace fu mantenuta nell’area centrale del mondo, quella costituita dall’insieme dei paesi capitalistici avanzati nella sfera di influenza statunitense (Europa occidentale, Canada, Giappone, Australia, essenzialmente) e dai paesi dell’Europa orientale sotto predominanza sovietica (salvo le turbolenze interne appena sopra ricordate). I conflitti furono combattuti nel cosiddetto Terzo Mondo (Asia, Africa, America latina), laddove venne poi emergendo la Cina, che fece da terzo incomodo, incrinando ma non più di tanto il bipolarismo. Nel senso che, pur diventando una potenza di un certo rilievo, la Cina – fin quando esistette l’Urss – servì di fatto più che altro agli Usa per indebolire l’avversario effettivo, l’“altra” potenza al centro del secondo polo; una potenza non esattamente della stessa forza degli Stati Uniti, così come per tanto tempo (la) si fece passare, ma comunque certamente in grado di effettuare alcune forme di contesa e contrasto.
Il momento di massimo fulgore l’Urss lo raggiunse all’epoca della seconda guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi. Si cominciò però assai presto – dopo il duro confronto mondiale che portò alla disastrosa sconfitta di Germania e Giappone ma pure all’uscita di scena come potenze di Inghilterra e Francia (sull’Italia, come al solito, non si sa che dire) – a notare una serie di difficoltà del paese, che Stalin cercò di individuare nel suo opuscolo “I problemi economici dell’Urss” (1952), in cui sostenne però tesi da considerarsi già obsolete nel momento stesso in cui furono formulate a causa di una “cattiva” interpretazione del socialismo come fosse fondato sulla proprietà statale dei mezzi di produzione, di fatto identificata con quella che per Marx (e i marxisti immediatamente successivi) era invece una proprietà pretesa sociale, sedicente collettiva.
Dopo la morte del leader sovietico nel 1953, iniziò di fatto il declino del paese “socialista”. Il XX Congresso del Pcus (1956), in cui il mediocre Krusciov tentò di addebitare ogni colpa dell’indebolimento della società sovietica agli errori (e anzi delitti) di Stalin, fu molto significativo del degrado ormai in corso. Iniziò così un processo lungo, tormentoso, di indebolimento del paese (spesso mascherato da qualche successo), ma con improvvise evidenziazioni dello stesso in dati momenti. Alla fine, quel mondo (quella forma di rapporti sociali) mostrò di essersi sfatta fino al punto di “implodere” da sola. Non ci fu alcuno scontro effettivo con l’“occidente” capitalistico. Semplicemente la struttura politica collassò e si fece chiara e lampante l’impossibilità che quella forma di società continuasse a reggersi. La supposta potenza si mostrò in tutto il suo affievolimento, causato appunto dall’incapacità di mantenere quel sistema di rapporti sociali a livelli di sufficiente compattezza e adeguato sviluppo.
Non si è mai stati capaci di affrontare veramente il problema della non esistenza di strutture socialistiche in Urss e tanto meno in altri paesi di quel “polo”. In quelli europei (“orientali”) perché è vero che solo il predominio militare dell’Urss ha potuto mantenere al potere i partiti definiti comunisti. In altri paesi del cosiddetto terzo mondo (tipo appunto Cina, ecc.) – cioè in Asia, Africa, Sud America – le sedicenti rivoluzioni socialiste guidate da partiti comunisti hanno avuto un carattere irrimediabilmente differente (contadino) da quanto previsto alla fondazione del “movimento operaio” con la I e II Internazionale. Il ’17 sovietico è proprio stato la fine di quel movimento (la II Internazionale di fatto crollò nel ’14); e la III Internazionale nulla fu se non la creazione di una cintura di sicurezza per la potenza sovietica in indubbia crescita, ma non certo in “transizione” verso la formazione socialista. La “rivoluzione proletaria” non attecchì minimamente nei paesi a capitalismo avanzato, dove la classe operaia – presunto soggetto rivoluzionario antagonista della classe borghese – era maggiormente diffusa, divenendo però poi numericamente sempre meno rilevante mentre crescevano i ceti sociali, anche salariati spesso, non più nelle fabbriche; invece in una serie di settori detti dei servizi. Le stesse unità attive nella sfera produttiva (in senso stretto) divennero vasti e complessi organismi denominati imprese, di cui la fabbrica rappresentava solo una parte, necessaria in dati ambiti ma non certo capace da sola di reggere i compiti da svolgere nella competizione condotta sui vari mercati.
In ogni caso, il cosiddetto polo capitalistico, alla fine della seconda guerra mondiale, fu dominato dalla potenza statunitense e si uniformò – completamente nelle strutture produttive e finanziarie, e in buona parte come cultura e forme politiche – a quest’ultima. L’economia si basava sull’impresa e mercato (concorrenza) mentre l’ideologia e la politica erano conformate in base all’idea di “democrazia” fondata sulle elezioni presunte libere e a suffragio universale. Le cosiddette “dittature” o erano sconfitte (il nazifascismo) o si avviarono lungo una via di crescente cristallizzazione (il “comunismo” nella sua versione di, presunta, transizione al socialismo in quanto prima fase del comunismo). Si dovrà compiere prima o poi una profonda riflessione sui motivi della sconfitta delle “dittature” rispetto alla “democrazia” statunitense. Per il momento faccio solo un accenno alla questione.
Ho raggiunto una certa convinzione che il nazifascismo sia stato l’ultimo tentativo di resistenza del capitalismo da me definito “borghese”, quello studiato con un certo successo da Marx e che probabilmente è la formazione sociale da definirsi effettivamente capitalistica, mentre si attende ancora un possibile nome per la società di tipo Usa, pur anch’essa fondata sulle forme dell’impresa e del mercato. Si trattò di un tentativo di resistenza a mio avviso largamente insufficiente e con caratteri tali da rendere la società comunque meno dinamica e permeata da ideologie poco “efficienti”. Il “comunismo” invece – basato sul convincimento di una possibile transizione alla formazione socialista – si sviluppò in società a grande predominanza contadina e ottenne inizialmente rapidi successi nella cosiddetta “accumulazione originaria” grazie ad un grandioso e sostanzialmente forzato trasferimento di ingenti quote di risorse, materiali e umane, dall’agricoltura all’industria. Una volta giunti a un dato grado di trasformazione della struttura sociale, lo spirito innovativo – che nel polo capitalistico è affidato all’iniziativa di singoli gruppi in competizione detta libera (nel senso che ne viene favorito l’estrinsecarsi, solo minimamente regolato) – non poté sostenere lo sviluppo a causa dell’ideologia del “predominio proletario”, che significava, in definitiva, inettitudine dei gruppi dirigenti in campo economico e l’incapacità di irreggimentare il lavoro dei sottoposti, “ufficialmente” depositari del potere. In realtà questi non avevano altro potere se non quello di lasciar governare tranquillamente i vertici politici, avendo in cambio la possibilità di sfuggire a regole organizzative e di lavoro tali da rendere minimamente efficiente ogni e qualsiasi comparto della società, non soltanto quello produttivo.
Era ovvio che, giunti ad un certo grado di sviluppo industriale, i processi ulteriori di trasformazione – da indirizzare ad una diversificazione, sia economica che complessivamente sociale, tale da rendere più idonea quella società ad accumulare energie nel conflitto tra paesi divenuti potenze – si sono arrestati nel primo e più forte paese “socialista”, investendo tutti i paesi compresi nella sua sfera di influenza. In definitiva, l’Urss e i paesi da tale paese più direttamente dominati (Europa orientale) entrarono in una fase di blocco dello sviluppo, di cristallizzazione delle forme sociali e politiche, che hanno condotto ad un lento e quasi sotterraneo declino. Da una parte, dunque, un’area che, sia pure attraverso le tipiche onde cicliche (molto attenuate però grazie alla netta predominanza centrale statunitense), andava sviluppandosi e acquisendo sempre maggiore forza. Dall’altra, una società, di fatto bloccata dopo un iniziale intenso e accelerato processo di sviluppo, che entrò in declino a partire dagli anni’50.
2. Questa situazione ha appunto assicurato quel buon mezzo secolo di pace e sostanziale tranquillità nel primo mondo, relegando guerre, conflitti, disordini, nel terzo. Si è parlato invece sempre a vanvera di conflitto crescente, comunque almeno di una tensione alta tra i due mondi, presi per irriducibilmente nemici. Grazie alla disponibilità delle armi atomiche, si sarebbe però mantenuto un equilibrio (“del terrore”) tra le due grandi potenze. E quando si è avuto il “crollo” socialistico e dell’Urss, si è spiegato il tutto con la politica reaganiana di forte riarmo statunitense, tale da costringere l’antagonista ad una rincorsa che quest’ultimo non fu in grado di effettuare. Una errata interpretazione dietro l’altra. Il vero fatto è che si confrontavano due poli con diversa potenza a causa di una differente struttura sociale (e pure ideologica) con precisi riflessi nell’organizzazione dell’economia e del potere politico: organizzazione dinamica del polo centrato sugli Usa, sclerotica e stagnante di quello dominato dall’Urss.
Per tutto il periodo della “guerra fredda”, vi fu una non riconosciuta – da parte delle grandi masse, ma nota invece ai vertici dei due paesi cardine della configurazione bipolare – supremazia statunitense, in lenta ma sicura crescita. Le difficoltà sovietiche – mascherate da una indubbia potenza, diciamo così, “di fuoco” (cioè militare) – andarono accentuandosi anche in concomitanza dell’affermarsi quale terza grande potenza in nuce della Cina; prima maoista (fino al 1976) e poi lanciatasi più decisamente sulla via di uno sviluppo industriale e da paese “moderno”, solo riverniciato da “socialismo di mercato”. Uno sviluppo che ancora continua, in tono via via minore, e che condurrà forse a qualche crisi sociale e politica di “riassestamento” in tempi relativamente brevi. La crisi non è imminente, credo, e nemmeno è facile predirne gli andamenti; cioè se saranno abbastanza drammatici e di svolta rapida o invece ancora abbastanza controllati.
Torniamo però al mondo bipolare, pur se via via con l’imperfezione della presenza cinese; non però tale, fino alla dissoluzione dell’Urss, da dover far parlare di tramonto del bipolarismo. Come spesso avviene, si verificarono almeno due episodi salienti che avrebbero potuto, se adeguatamente interpretati e ci fossero state informazioni non distorte fornite dagli “interessati”, far rivedere ampiamente il giudizio sugli equilibri supposti esistenti nel bipolarismo, durato dal 1945 al 1989-91 (crollo del campo “socialista” europeo e dissoluzione dell’Urss). Parlo della crisi del 1962, susseguente all’installazione dei missili sovietici a Cuba; e dell’apertura di Nixon (consigliato da Kissinger in quanto “capo” di precisi centri strategici statunitensi, a mio avviso di buona acutezza politica) alla Cina, ancora maoista (ma con elementi di crisi di quel “regime” in seguito allo stop ormai impresso alla “rivoluzione culturale”); un’apertura che poteva modificare il cosiddetto “equilibrio” Usa-Urss, portare ad una diversa conclusione della vicenda bellica vietnamita, e accelerare il periodo di declino della potenza sovietica, affrettandone l’implosione. Il Watergate bloccò quel tentativo e prolungò la permanenza del bipolarismo (con ulteriori effetti “storici”, anche relativi al nostro paese). E’ del tutto evidente che i settori responsabili dell’alto là imposto a Nixon-Kissinger non erano certo al servizio dei sovietici (figuriamoci!); vi erano opzioni diverse in campo. In ogni caso, data la loro rilevanza, preferisco rinviare ad un altro intervento la mia interpretazione di quei due cruciali eventi e delle loro conseguenze.
Fin dalla fine degli anni ’60 in determinati ambiti, fra cui quello che “frequentai” io, era preso in seria considerazione il lento avvitamento dell’Urss in seguito ad una situazione causata dalla struttura sociale bloccata, sempre più cristallizzata e inadatta a mantenere la presunta permanenza di un “campo” socialista, pur in continua perdita di attrazione e di influenza mondiale. Oggi si può comprendere anche di più. Alcuni settori dei vertici sovietici – incapaci di pensare (come tutti del resto) che cosa si era veramente verificato in seguito alla rivoluzione d’ottobre, presa per la prima “rivoluzione proletaria” – cercavano, sia pure con molta cautela e titubanza, di non arrivare ad uno scontro troppo accentuato con gli Stati Uniti. Krusciov e, dopo la sua defenestrazione e vent’anni di apparente immobilismo, Gorbaciov erano rappresentanti di questa tendenza. Non erano “traditori”, anche se agirono come se dovessero proprio liquidare la potenza sovietica e si dimostrarono leader di singolare insipienza e mediocrità. D’altronde, sono i “processi storici” che creano i grandi personaggi o invece i vili e meschini.
Dopo la forte accelerazione dello sviluppo dell’Urss e la crescita esponenziale della sua potenza anche militare (dalla fine degli anni ’20 alla seconda guerra mondiale), si ebbe il primo rallentamento seguito infine da difficoltà (sociali e non solo politiche) che condussero al periodo kruscioviano (1956-64) e, infine, a quello gorbacioviano (1985-91), fatale all’Urss. Tra i due periodi s’interpose il ventennio brezneviano, una sorta di stop forzato, ma anche d’attesa dell’inevitabile fine avvenuta con modalità tali – senza alcuno scontro bellico con l’“avversario” e per crollo interno – da porre in evidenza la fragilità della formazione sociale presa per “socialista”. Si visse – e non solo nel “campo socialista”, ma pure in quello capitalista, “occidentale” – con l’illusione dell’equilibrio tra i due poli; detto del “terrore” (la solfa del pericolo atomico), della “guerra fredda”. Pochi – fra cui il sottoscritto, ma seguendo certe analisi di marxisti “althusseriani” come Bettelheim, ecc. – intravidero il futuro concludersi dell’esperienza “socialista” (non pensata però secondo le modalità effettive con cui avvenne); in genere, si continuò invece a ritenere quel mondo quasi eterno, immodificabile.
Ancora pochi mesi prima del suo crollo, la stragrande maggioranza dei media, dei politici, degli studiosi, continuava a protrarre all’infinito la vecchia analisi bipolare sempre diffondendo il terrore con possibili, e del tutto immaginari, scenari di catastrofe da film di fantascienza. E del resto, anche chi mi aveva insegnato la debolezza del “socialismo reale”, si produsse in speranze di “rinnovamento” con l’avvento di Gorbaciov. Ero incredulo di fronte a tanto improvviso accecamento dei miei “maestri”, dissi fin da subito che quel più che mediocre personaggio era precisamente la “figura” del liquidatore che si prevedeva da tempo. Nulla, fui silenziato, come del resto in tante occasioni precedenti, dai “soloni” del ’68, da pensatori meschini e presuntuosi che non ne hanno mai indovinato una, ma hanno continuato a stonarci la testa senza la minima autocritica e sempre portati in auge dai media dei dominanti (et pour cause).
In ogni modo, oggi si rende sempre più evidente il motivo della “pace” durata nel “primo mondo” oltre quarant’anni. Ed una pace non inficiata minimamente dagli immaginari pericoli (atomici o di guerra più “tradizionale”). Si è trattato di un mondo falsamente bipolare; in realtà era dominato dagli Usa, con l’Urss che si dibatteva, pur senza troppo parere per molto tempo, con problemi di blocco dello sviluppo e la difficoltà di afferrare la reale “natura” della formazione sociale, che un partito sedicente comunista (ma ormai rinunciatario di fatto in merito alle credenze “leniniste” dei primi tempi) non riusciva più a orientare e guidare con la necessaria consapevolezza dei processi in svolgimento effettivo. Da una parte, gli Usa che guidavano “le danze”, ma senza fretta di arrivare ad una conclusione; del resto, credo, largamente imprevedibile anche per coloro che comunque afferravano le difficoltà e l’impasse dell’avversario. Dall’altra l’Urss, dove pure i dirigenti di quel paese non riuscivano a capire quali processi reali fossero in corso; e oscillavano tra i tentativi di compiere determinate “riforme” – tentativi subordinati alle caratteristiche della formazione sociale (capitalistica) che si dichiarava di voler superare, e che quindi era di fatto riconosciuta come preminente (si pensi al duo Krusciov e Gorbaciov) – e l’insistenza su scelte politiche ormai obsolete ed ossificate che indebolivano progressivamente il paese.
La situazione si è protratta per un tempo più lungo del previsto, anche per l’insipienza di certi settori “conservatori” americani, pur essi assai poco edotti circa le reali difficoltà dell’Urss; essi bloccarono il comportamento “positivo” di Kennedy nei confronti di Krusciov, e di Kissinger-Nixon nei confronti della Cina ancora maoista (ma in procinto di cambiare); e hanno messo in difficoltà il loro paese. Senza assolutamente danneggiarne la supremazia mondiale complessiva, ma indubbiamente consentendo “boccate d’ossigeno” alla potenza contrapposta, che ha potuto prolungare la sua non visibile (in specie ai ciechi!) agonia. La pace era comunque indubitabile. Consapevoli o meno ne fossero certi ambienti americani, l’Urss non era in grado d’essere affatto un pericolo per l’egemonia Usa soprattutto nell’Europa occidentale, così come alcuni – non so se in buona o mala fede – volevano far credere. E l’Europa è sempre stata l’area cruciale per la preminenza statunitense; anche su questo punto si è esercitata la menzogna dei tipi alla Brzezinski, che straparlano dell’importanza cruciale dell’area asiatica. Mentitori spudorati, sanno bene che l’Europa è ancora più rilevante per gli Stati Uniti del loro “giardino di casa” (Sud America), area mondiale da controllare a distanza; nel calcio credo si dica “a zona”, mentre l’Europa esige una “marcatura stretta”, strettissima, soffocante, come quella costantemente esercitata sulla Germania e su certe sue velleità di ostpolitik. E non parliamo dell’Italia, ormai quasi una “semicolonia”!
Non è però più così attualmente. La Russia è al momento certo molto inferiore come potenza (in specie bellica) all’Urss; tuttavia, sia pure con incertezze e “fatica”, è in crescita. Non sappiamo ancora bene qual è la sua “natura” quanto a struttura dei rapporti sociali (cioè come formazione sociale particolare), ma sembra in condizioni di promuovere un buon dinamismo, non pare conoscere la cristallizzazione progressiva tipica del “vecchio paese”. Della Cina si deve parlare a parte; dico solo di non farsi ingannare dalla “obbligatorietà” di una sua alleanza con la Russia. Quest’ultima dovrà invece sempre guardarsi dal grande paese asiatico, non poi così antagonista degli Stati Uniti come si pretende. Ma lasciamo adesso perdere. Ci sono poi subpotenze tipo Turchia e, forse ancor più almeno in prospettiva, Iran. E negli Usa permangono i soliti settori “conservatori”, che insistono nel pieno e cieco appoggio a Israele e si contrappongono all’elastico “sfruttamento” dei contrasti tra islamici, all’utilizzo spregiudicato del “male islamico estremo” (attualmente Isis), ecc.
Oggi, dunque, non è soltanto il multipolarismo che avanza al posto del bipolarismo di un tempo. No, c’è di più e soprattutto di diverso. Gli Usa non sono in situazione di supremazia lentamente crescente nell’apparente “equilibrio tra due”, bensì vedono accentuarsi, sempre con lenta progressione e molte cautele, l’antagonismo russo. Si accresce pure un disordine via via più manifesto nell’insieme dell’area per loro cruciale (europea). Dove, non a caso, vi sono organismi politici che, sia pure ancora troppo timidamente, alzano i toni contro le prevaricazioni e la predominanza statunitensi. Per gli Usa è necessario indebolirli e creare in tutte le aree, dove può svilupparsi l’antagonismo russo o l’affermarsi di subpotenze, il massimo disordine possibile. Per intanto si promuove il caos – ma programmato, non poi tanto casuale! – e poi si dovrà intervenire più direttamente (ma sempre subdolamente e magari per “interposta forza”) in aree in grado di impegnare la Russia in contrasti difensivi. E’ indubbio che gli Usa sono attualmente all’offensiva. Tuttavia, è un’offensiva che richiede un certo affanno, un affrontare situazioni impreviste, un mettere nel conto insuccessi o lo sfuggire di mano di dati processi. Non più il lento ma sicuro sgretolarsi e poi affondare dell’Urss, bensì una crescita della forza di attuali o potenziali antagonisti e l’incertezza circa l’andamento dei processi in pieno svolgimento.
Allora partiamo da qui, per favore. Mai come in questo periodo abbiamo corso pericoli di così grave portata. Non atomici, non di guerra mondiale (basta con le cretinate, mi raccomando, un po’ di intelligenza). Il problema è però che siamo entrati nell’epoca in cui si andrà verso un più generale regolamento di conti, indispensabile per decidere la nuova supremazia ed un nuovo “ordine mondiale”. E l’avanzata verso i momenti culminanti dell’epoca ormai apertasi da vent’anni sarà dolorosa, pericolosa, porterà lutti e tragedie via via più gravi. Possiamo fare qualcosa? Solo analizzare la situazione, chiarirne i contenuti effettivi e non quelli obnubilati da fessi e mentitori d’ogni genere. Mai avuta, io credo, una simile quantità di idioti e di bugiardi senza rossore alcuno. Quindi, “su con le orecchie”, altro che le sciocchezze che stiamo leggendo da parte di minus habentes!