SULLA SITUAZIONE DELL’INDUSTRIA MANIFATTURIERA ITALIANA

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 – OSSERVAZIONI CRITICHE SU ALCUNE VALUTAZIONI DEL SOLE 24 ORE

Si tratta forse del più importante studioso di storia economica italiano vivente perciò sembrerebbe impossibile azzardarsi a fare delle obiezioni su una sua ricostruzione dei fatti economici italiani degli ultimi decenni; ad ogni modo proveremo lo stesso a evidenziare i dubbi  che anche ai profani è comunque lecito porsi. In un articolo sul Sole 24 ore del 24.12.2013 il prof. Valerio Castronovo afferma che negli ultimi trent’anni, l’Italia, nonostante si sia trovata

<<nel mezzo di reiterate congiunture avverse e di convulse stagioni politiche e sociali […] è riuscita in complesso a reggere la barra, mantenendo il secondo posto in Europa sia per il suo potenziale che per l’attivo nell’export manifatturiero>>.

Una conferma viene anche dal professor Marco Fortis (Vicepresidente della Fondazione Edison e       Docente   di  Economia industriale e commercio estero presso l’ Università Cattolica)   che nell’aprile del 2013, in una sua lezione, ha affermato che l’Italia è ancora il secondo paese manifatturiero europeo dopo la Germania anche se l’avanzare dei paesi emergenti ne sta ridimensionando la posizione nell’arena globale. Fortis allegava a tal proposito la seguente tabella:

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Ritornando all’articolo di Castronovo vediamo che lo storico si sofferma sulle condizioni in cui le principali imprese italiane, sia  private che pubbliche, approdarono negli anni Ottanta:

<<Le prime erano uscite malconce da una decennale fase di stagflazione e di accesa conflittualità sindacale (quando il salario era considerato una “variabile indipendente” dalle compatibilità economiche), nonché di estenuanti scontri di potere (il più eclatante e rovinoso dei quali fu quello avvenuto in Montedison). Le seconde erano sfibrate da un fardello di “oneri impropri” e alle prese con ripetute lottizzazioni partitiche dei loro vertici. La Fiat, l’ammiraglia del capitalismo italiano, come gli altri maggiori Gruppi del firmamento industriale, per rimettere in sesto i propri conti e recuperare produttività, posero mano da un lato a un dimagrimento dei loro effettivi, altrimenti ormai esorbitanti nell’epoca del post-fordismo, e dall’altro all’esternalizzazione di parte delle loro lavorazioni a un crescente esercito di minuscole imprese che stavano spuntando dai meandri dell’economia sommersa. D’altra parte, l’accordo del luglio 1993 siglato fra la Confindustria e i sindacati, col patrocinio del governo Ciampi, per la fissazione di un tetto programmato d’inflazione, arrestò infine la rincorsa fra salari e prezzi>>.

Successivamente Castronovo si sofferma sulle privatizzazioni che hanno smantellato buona parte del sistema delle Partecipazioni statali con una serie di “svendite” disastrose per le aziende e per l’economia italiana nel suo complesso. Ma il professore imputa le colpe di quanto successo alla fretta di far più cassa possibile per allinearsi in tempo ai parametri di Maastricht come se non fosse stato determinante lo scontro interno tra gruppi di potere con l’evidente vittoria del centro-sinistra filo-Usa al governo, inteso non come coalizione partitica ma piuttosto come “blocco sociale” economico-politico. Comunque lo storico ammette, almeno, che la privatizzazione delle tre Bin (1) non portò alla formazione di un sistema creditizio e finanziario che fosse in grado di sostenere l’economia reale e le innovazioni produttive perché a prevalere, nonostante il relativo declino di Mediobanca, fu sempre quel capitalismo relazionale teso a salvaguardare << gli assetti proprietari dei principali Gruppi ponendoli anche al riparo dall’invadenza della classe politica, ma poi rimasto sempre più avvitato sui patti di sindacato e le “scatole cinesi”>>.

Castronovo, in maniera decisamente discutibile, vede i primi anni del secondo millennio in Italia come un momento di sviluppi positivi e di crescita promettente, dimenticando che si tratta proprio di quella fase che ora viene presentata come caratterizzata da una finanza internazionale – e soprattutto Usa – “drogata” e da uno slancio ancora consistente delle economie emergenti (Brics). Solo il fatto di essere rimasti ancora “attaccati” a questo locomotore – di cui non si intravvedevano ancora i difetti forieri di potenziali e immancabili guasti – ci permise di mantenere un minimo di dinamismo. Lo storico legge, infatti, così quella fase:

<<Dall’inizio del 2000 fu una schiera di medie imprese, impegnatesi nelle innovazioni di processo e di prodotto, a ritemprare le fibre della nostra industria e ad accrescere il flusso delle esportazioni in una fase cruciale, contrassegnata dall’espansione del mercato globale e dall’irruzione nell’agone economico dei paesi emergenti. Fu così possibile, grazie a queste “multinazionali tascabili”, affermatesi in virtù di una singolare intraprendenza e capacità progettuale, avviare le fortune del Made in Italy e superare i contraccolpi della pesante crisi manifestatasi tra le due sponde dell’Atlantico in seguito all’attentato terroristico dell’11 settembre alle Torri gemelle di New York. Anche le grandi imprese fecero la loro brava parte[…] : tanto nella siderurgia che nella chimica, nella meccanica e nella metallurgia, nei materiali per l’edilizia, nell’abbigliamento e nell’alimentare, e in diversi altri comparti. A sua volta, la Fiat di Marchionne, con l’aggregazione della Chrysler è diventata un leader globale. E, mentre Eni ed Enel hanno ampliato notevolmente la loro presenza all’estero, Finmeccanica figura tuttora un complesso d’avanguardia nel settore aerospaziale della difesa (con l’Ansaldo in posizione di rilievo negli apparecchi di segnalamento)>>.

In quella fase, nell’epoca di Bush jr., il governo italiano e in particolare “il Cavaliere” ebbero via libera nello sviluppare relazioni con paesi non sottomessi agli Usa (la Russia di Putin, la Libia di Gheddafi, ecc.) che ovviamente portarono grandi vantaggi economici a Berlusconi ma in qualche maniera anche alle nostre industrie strategiche ancora controllate dallo stato. Riguardo alla Fiat risulta evidente come si sia trattato di “un gioco di bussolotti” teso a dare l’illusione che la multinazionale torinese, ampiamente in crisi, sarebbe stata in grado, grazie anche al “mago” Marchionne di “mondializzarsi” e di “salvare” la Crysler diventando un nuovo potente attore “transnazionale”nel settore automobilistico e dei trasporti. Il “trionfo” della Fiat è in realtà il risultato del rafforzamento dell’egemonia Usa nel nostro paese in termini economici ma soprattutto politico-strategici.  La cosa dovrebbe apparire evidente se poi aggiungiamo  che nel nostro paese è sempre mancata un’efficace e coerente strategia di incentivi pubblici alla ricerca e allo sviluppo; anzi, su questo versante, come su quello, caldeggiato da tutte le forze imprenditoriali, della realizzazione di adeguate riforme strutturali (dalle semplificazioni al mercato del lavoro) hanno seguitato a prevalere inadempienze, ritardi e contraddizioni. Castronovo ammette, infine, che in seguito alla

<<crisi economica esplosa nel 2008 e trasformatasi in una prolungata recessione per la forte flessione della domanda interna, […] è già un miracolo che una miriade di Pmi (basate sulla combinazione azienda-famiglia-territorio e i cui titolari provengono sovente dalle file dei ceti popolari) ce l’abbiano fatta finora a puntare i piedi dando prova di resistenza e adattamento>>.

E per continuare a sopravvivere devono, o dovrebbero, fare un salto di qualità accrescendo le loro dimensioni, irrobustendo la loro consistenza patrimoniale, collegandosi a centri di ricerca e cooperando insieme per estendere le loro reti distributive ai nuovi mercati. Ma è ben difficile, osserva lo storico, e questa volta con buone ragioni, che possano farlo quando continuano ad essere tartassate da un fisco abnorme, avvinghiate da una burocrazia soffocante e afflitte da una serie di inefficienze nei servizi.

Un articolo di Luca Orlando, sempre sul Sole 24 ore, del 07.02.2014 mostra il panorama attuale in una luce decisamente più fosca:

<<Più di 60 milioni al giorno, sabati e domeniche inclusi.
La perdita di fatturato media dell’industria italiana nel 2013 significa in sintesi questo, la chiusura giornaliera di una media azienda. Anzi, per gli standard nazionali, lo stop quotidiano di una realtà più che robusta, con dimensioni ben oltre la media.
Uno shock di proporzioni enormi, stimato dagli analisti di Prometeia e Intesa SanPaolo in poco meno di 25 miliardi di euro di mancati ricavi, frenata vicina al 3% in valori correnti nel 2013 che si aggiunge ai 45 miliardi già persi dall’industria italiana nel corso dell’anno precedente.
Il “dimagrimento” evidenziato dal Rapporto dei Settori Industriali, inevitabile del resto alla luce degli oltre 14mila fallimenti registrati nel corso del 2013 tra le aziende italiane, è visibile quasi ovunque con l’eccezione di farmaceutica ed elettrodomestici, unici comparti a chiudere l’anno con il segno più>>.

L’industria manifatturiera (2) italiana, che è quella di cui propriamente si parla, risulta fortemente ostacolata da concorrenza internazionale, debolezza della domanda e quindi inflazione, evidentemente, al palo; qualche timido segnale di ripresa si è potuto intravvedere negli ultimi mesi dell’anno quando il ruolo di traino delle vendite italiane all’estero è passato dai mercati più remoti a quelli comunitari, che per ben cinque trimestri avevano invece dato un contributo negativo al nostro export. Germania e Francia sono, infatti, ancora le nazioni che alla nostra manifattura permettono i maggiori ricavi.  Nello stesso periodo sono aumentate anche le nostre quote di mercato nei paesi extra-Ue, in particolare per quanto riguarda la meccanica, gli alimentari e auto-moto, con percentuali appena inferiori per l’elettrotecnica. La domanda interna  rimane invece debolissima, a causa di pensioni e salari fermi e di una altissima disoccupazione (soprattutto giovanile) dal lato delle famiglie; per le imprese, invece, le difficoltà nascono oltre che dal  credit crunch anche da un eccesso di capacità produttiva inutilizzata. E serve poco aggrapparsi alle speranza legate all’aumento delle immatricolazioni delle auto o allo sblocco degli incentivi sui macchinari, la cosiddetta Sabatini-bis inserita formalmente la scorsa estate all’interno del decreto del Fare. Che a otto mesi dal varo del provvedimento ancora attende i regolamenti attuativi necessari. In questi ultimi anni abbiamo assistito ad una “svendita” all’estero di alcuni dei più importanti marchi italiani ed a un ridimensionamento delle possibilità di espansione delle nostre aziende strategiche. Ovviamente quest’ultimo fenomeno non riguarda propriamente la sfera economica perché, come ben sappiamo, la situazione di indebolimento politico-strategico in campo internazionale – portata avanti dai nostri gruppi politico-economici subdominanti – ha reso del tutto insufficiente la mera capacità di realizzare prodotti validi e tecnologicamente avanzati. La nostra situazione politica, intesa in senso lato, nell’arena internazionale, ovvero la nostra condizione subordinata all’interno della sfera d’influenza dominata dagli Usa ci sta riducendo, con la complicità di “agenti interni del nemico” noti e meno noti, in  una situazione di subordinazione semicoloniale a cui pare molto difficile sfuggire.

Mauro T.                     23.03.2014

(1)Le Banche di Interesse Nazionale (BIN) nacquero nel 1936 in Italia con la promulgazione della cosiddetta Legge bancaria che riformava il sistema creditizio. La legge mirava all’attuazione di quel processo che il capo del governo Mussolini aveva definito Autarchia nel rivoluzionare l’esercizio del credito qualificato come funzione di “interesse pubblico” e del sistema bancario come “difesa del risparmio”. Pertanto con la suddetta legge si sottopongono entrambe le attività alla disciplina del diritto pubblico. Le banche che furono trasformate da questa legge in Banche di Interesse Nazionale furono la Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano e il Banco di Roma: la fisionomia di questi istituti era così quella di banche di credito ordinario che non potevano tuttavia fare più prestiti all’industria né essere proprietarie di valori industriali. Questo modificava il precedente status di tali Istituti, precedentemente banche miste, e quindi con possibilità di compiere operazioni di diversa durata temporale (breve o lungo termine). Da Wikipedia

(2) Per industria manifatturiera si intende solitamente la somma dei seguenti settori: 1) Alimentare e bevande; 2) Largo consumo; 3) Farmaceutica; 4) Sistema moda; 5) Elettrodomestici; 6) Mobili; 7) Autoveicoli e moto; 8) Prodotti in metallo; 9) Elettrotecnica; 10) Meccanica; 11) Elettronica; 12) Metallurgia; 13) Intermedi chimici; 14) Altri intermedi; 15) Prodotti e materiali da costruzione (Fonte: Il Sole 24 ore)