SULLA TERZA FORZA PROPOSTA DA GIANFRANCO LA GRASSA – Leonardo Mazzei
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Nel settembre scorso Gianfranco La Grassa ha pubblicato (www.ripensaremarx.splinder.com) il testo <<Costruire la “Terza Forza”>>.
Come si può facilmente intuire questa “Terza Forza” vorrebbe contrapporsi, sia pure in tempi imprecisati, all’attuale regime bipolare. La necessità di una forza di questo tipo è certamente condivisa dal grosso dei lettori di Eretica. Ciò che invece non è condiviso da chi scrive sono le risposte date da La Grassa a questa esigenza.
Il tema è dunque interessante e merita di essere discusso seriamente. Il disaccordo con La Grassa – di cui invece apprezziamo molti stimoli teorici e buona parte dell’analisi sulla situazione italiana – è in questo caso profondo.
Il testo preso qui in esame, cui è seguito il successivo <<Reintervenendo sulla Terza Forza>>, è assai corposo e complesso. E’ dunque necessario concentrarsi su quelli che, a mio modesto avviso, sono i punti principali della discussione, scusandomi in anticipo per alcune inevitabili schematizzazioni, utili però per andare al cuore dei problemi.
1. La “Terza Forza” di Gianfranco La Grassa
Leggendo il testo in questione ci si imbatte, al punto 10, nella seguente affermazione:
<<E adesso avviamoci verso le conclusioni ricordando che, pur se il discorso tende ad elevarsi a considerazioni teoriche generali, l’Italia – parte integrante (e a buoni livelli di sviluppo) della formazione sociale dei funzionari (privati) del capitale, pur se con sue specifiche caratteristiche socio-economiche e politiche – resta il riferimento precipuo di questo scritto. E’ innanzitutto necessario essere molto chiari e netti: l’Italia è un paese che sta, e deve restare, dentro la formazione sociale appena nominata. Nessuna propensione a discorsi che vorrebbero portarla fuori (e indietro) rispetto a quel tipo di modernità creato dal capitalismo; il nostro stile e il nostro tenore di vita, i nostri costumi e abitudini, sono per me argomenti indiscutibili. Sono per lo sviluppo e per l’avanzamento tecnico-scientifico; anche se non lo sono con ottimismo incosciente, non lo sono per ragioni di principio, di credenza nel valore assoluto della conoscenza scientifica, bensì soprattutto per motivi d’epoca, di fase storica. Certamente anche, però, perché non sono contrario a indagare lo sconosciuto e non disprezzo l’innalzamento dei livelli, cosiddetti materiali, di vita>>.
Questa dichiarazione di principio non è un fulmine a ciel sereno, e non è neppure una semplice provocazione; è invece la riuscita condensazione di concetti che pervadono l’intero scritto e deve quindi essere presa estremamente sul serio.
Non solo il capitalismo, nella sua attuale caratterizzazione (che cos’altro è la formazione sociale dei funzionari (privati) del capitale?) non viene messo in discussione, ma questa affermazione viene ulteriormente rafforzata dalla “indiscutibilità” del nostro stile di vita con annessi e connessi.
E ancor più significativo è il fatto che non si dica che l’Italia non possa (per le caratteristiche della fase storica, per i rapporti di forza, eccetera), ma che addirittura non debba uscire dalla formazione sociale di cui sopra.
Qui viene alla luce il primo paradosso che contraddistingue la proposta di la Grassa.
La Terza Forza viene pensata come strumento per intervenire nella lotta tra dominanti (concepita come il luogo fondamentale in cui si fa la storia), allo scopo di favorire l’emersione (in Italia, in Europa) di una frazione degli stessi intenzionata a passare dal ruolo attuale di subdominanti asserviti ai predominanti centrali (oggi localizzabili essenzialmente negli Usa), a quello di competitori per la supremazia, spingendo così oggettivamente verso il passaggio da una fase monocentrica ad una tendenzialmente policentrica.
Vedremo in seguito la credibilità e le conseguenze di questa ipotesi. Il paradosso che intanto vogliamo rilevare è la richiesta implicita (ma neanche tanto1) che viene fatta ai dominati, siano essi lavoratori salariati più o meno precarizzati, o settori formalmente autonomi in realtà altrettanto dipendenti. Ad essi si chiede di contribuire alla costruzione della necessaria potenza dei propri dominanti affinché essi raggiungano la possibilità di competere con i dominanti centrali.
Detto in altre parole, si chiede agli strati medio bassi della società di non lamentarsi troppo, di lavorare di più e più intensamente, di accettare appieno le compatibilità sistemiche. A cosa dovrebbe servire questo sacrificio? Ad una competizione che si propone, come fine ultimo, di non mettere minimamente in discussione l’attuale società, dato che, come abbiamo già visto: “il nostro stile e il nostro tenore di vita, i nostri costumi e abitudini, sono argomenti indiscutibili”.
Non siamo così ingenui da pensare alla “rivoluzione dietro l’angolo”, non ci sfugge il problema della ricostruzione teorica di un pensiero comunista, né quello della ricostruzione pratica di un movimento antisistemico. Ma se questo è davvero il “miglior mondo possibile”, a che serve affannarsi tanto?
Oltretutto il cosiddetto “stile di vita” non è un concetto così statico come potrebbe sembrare. Sempre rimanendo nell’ambito della formazione sociale capitalistica, e con riferimento all’Italia e all’Europa, quanto è cambiato questo concetto negli ultimi decenni? E’ cambiato così profondamente che servirebbe non un articolo, ma un intero numero della rivista per poterne parlare seriamente. Ma quel che è certo è che è cambiato (ovvio che si tratta di un’approssimazione che andrebbe specificata e argomentata), nel senso di una progressiva americanizzazione.
Abbiamo dunque, ulteriore paradosso, che la Terza Forza dovrebbe coadiuvare la competizione con i predominanti americani per affermare meglio anche da noi il loro modello di società. Ora i dominati saranno anche degli idioti incapaci di fare la storia, ma non così stupidi da accettare dei sacrifici per ottenere quello che possono già avere oggi con il potere dei subdominanti.
L’unica motivazione che potrebbe portare all’accettazione del sacrificio starebbe eventualmente nel fatto che se i subdominanti diventassero (in compartecipazione) predominanti ci sarebbero anche le famose briciole per i dominati. Ma questa è la logica classica con la quale si è sempre formato l’ampio e stratificato – ed ovviamente gerarchizzato – blocco sociale dominante nei paesi imperialisti!
Non è dunque una novità, la novità sarebbe che noi l’accettassimo.
La Grassa sa che siamo d’accordo sul fatto che la famosa contraddizione capitale-lavoro non spiega tutto, che è necessario dunque esaminare la concreta strutturazione della nostra società utilizzando lenti nuove ed abbandonando il più possibile ogni pigrizia mentale.
Ma egli stesso rileva l’importanza del discorso marxista di classe. Leggiamo in fondo al punto 10: << Un conto è chiarire come non esista il supposto movimento spontaneo che “abolisce lo stato di cose presenti”; perché questo Marx pensava, essendo convinto che tale movimento producesse il soggetto collettivo affossatore del capitalismo. Un altro conto è dimenticare, e anzi celare, l’esistenza delle classi, della frammentazione della società in gruppi con interessi diversi, di cui alcuni (minoritari) sono predominanti rispetto a quelli costituenti la gran massa della popolazione. Chi dimentica le classi – sia pure non trattandole come mero precipitato di una dinamica intrinseca ad un presunto unico ed omogeneo modo di produzione capitalistico – si pone veramente oltre lo spirito di Marx. Questo non è un delitto di lesa Maestà; tuttavia, va detto con chiarezza che è atteggiamento di obnubilamento ideologico a favore dei dominanti. Basta saperlo>>.
Bene, siamo d’accordo, ma allora il paradosso ci pare ancora più grande, perché nella tesi centrale della “Terza Forza”, da cui siamo partiti, arriviamo al fatto che tutte le classi debbano condividere il mondo così com’è, al di là dell’auspicio di un diverso equilibrio multipolare cui tendere.
In realtà c’è qui un altro punto di dissenso cui dobbiamo accennare: La Grassa, concentrando tutta la sua attenzione sui dominanti (sub o predominanti), concede al massimo ai dominati una sorta di
1 Si legge infatti al punto 12: “In certi casi, bisogna anche sapersi opporre ai conflitti capitale/lavoro, se questi hanno prevalenti effetti fortemente negativi in tema di lotta antiegemonica”.
certificazione di Stato in Vita del tipo di quelle talvolta richieste agli anziani per poter usufruire di alcuni benefici di legge.
Lungi da noi il tradizionale armamentario di un certo marxismo – purtroppo predominante in quella che sembrava l’epoca d’oro del comunismo – che voleva spiegare ogni fatto sociale con la dinamica della lotta di classe. Sappiamo perfettamente che le classi sfruttate (che esistono, anche se in questo scritto preferiamo mutuare la terminologia lagrassiana), non per questo si pongono sul terreno della trasformazione rivoluzionaria, scegliendo piuttosto la via individuale (e ben più di “uno su mille” ce la fa) della scalata sociale. Concordiamo anche con La Grassa sull’evidenza macroscopica del fatto che, nelle società a capitalismo avanzato, la dinamica reale della riproduzione capitalistica complessifica la società, andando dunque nella direzione opposta di quella della polarizzazione di classe prevista da Marx. Diverso sarebbe invece il discorso se esaminassimo l’insieme delle articolazioni concrete della formazione sociale capitalistica vista nella sua strutturazione imperialistica e dunque mondiale. Assumere anche questa visuale non muterebbe la sostanza dell’errore di Marx, ma aprirebbe nuovi scenari alla lotta anticapitalista che a mio parere non è più neppure semplicemente pensabile a prescindere da questa strutturazione.
So che questa non è l’opinione di La Grassa che teme una sorta di sostituzione delle classi (e del loro ruolo) con i popoli, del concetto di sfruttamento con quello di oppressione, eccetera. Insomma, La Grassa considera questo allargamento di visuale un nuovo ed ulteriore errore grave almeno quanto quello compiuto dal marxismo tradizionale.
Tuttavia, al di là della necessaria considerazione della strutturazione imperialistica, resta il fatto che anche volendo isolare ai fini dell’analisi una realtà come quella europea, i dominati (una categoria tanto ampia quantitativamente, ancorché differenziata qualitativamente, da far pensare al concetto di popolo) non sono semplicemente dei soggetti passivi di una storia progettata e realizzata esclusivamente da altri.
Sappiamo – questo è indubbio – che il loro entrare seriamente in scena è cosa rara. Sappiamo anche che gli spazi affinché ciò avvenga (magari con successo) si determinano in concomitanza con le crisi di egemonia delle classi dominanti (sia per l’acutizzarsi del loro conflitto interno, sia per il concorso di altri fattori). Ma i grandi passaggi storici vedono effettivamente – sia chiaro, nel bene e nel male – il protagonismo, o quantomeno l’attivizzazione delle masse dominate. Attivizzazione dunque rara, a volte discutibile, ma sempre decisiva ai fini di una qualsivoglia prospettiva rivoluzionaria.
Siccome il testo in questione ragiona su tempi medio/lunghi e più lunghi che medi, non si capisce il perché si voglia oscurare totalmente questo fattore. Sembra quasi che La Grassa scambi il leninismo, di cui sembra considerarsi l’unico interprete, nell’elitarismo.
Prima di passare ad alcune tesi centrali del testo di La Grassa, c’è da mettere in luce un altro paradosso apparentemente inspiegabile della sua proposta di “Terza Forza”.
Nella prima parte del suo scritto La Grassa ripercorre la parabola dei comunisti in Italia, dai tempi del Pci alle odierne miserie del Prc e dei suoi brandelli correntizi. Netto il giudizio sulla sinistra <<ormai filocapitalista e filoimperialista (e oggi anche filosionista), in fase di continua degenerazione e sempre più pericolosa per la sua reazionarietà, unita ad intrinseca abitudine all’ipocrisia, viltà e menzogna (la famosa doppiezza di antica data) e alla più completa inettitudine politica, alla mediocrità del pensare e all’atavica e strutturale carenza di analisi delle situazioni>> (punto 2).
La “Terza Forza” è dunque pensata anche come strumento per liberarsi tanto dal vecchiume teorico quanto dal marciume politico che ci circonda. A questa esigenza totalmente condivisibile si aggiungono però altre considerazioni assolutamente contraddittorie.
Da una parte la “Terza Forza” sembra essere lo strumento per l’oggi (diciamo per i prossimi anni), dato che si pone il compito (considerato dall’autore attualissimo) di lavorare per il passaggio al policentrismo, condicio sine qua non per la riapertura di prospettive di lotta sistemica.
Uno strumento per l’oggi dato che (punto 8): << Se qualcuno pensa che l’obiettivo prioritario, per i prossimi 20-30 anni, sia la rivoluzione della società secondo i desideri di giustizia, eguaglianza, cooperazione, fine dell’aggressività, della prepotenza, della sopraffazione, fioritura della generosità e solidarietà umane, onde conseguire l’organizzazione sociale agognata dai comunisti di un tempo, ebbene questo qualcuno esplica una funzione negativa in vista di una politica antiegemonica; in molti casi può persino divenire un nemico acerrimo – non mi interessa se in buona o cattiva fede – di tale politica, oggettivamente alleato di quella destra o di quella sinistra, che si pongono al servizio degli interessi “di bottega” di piccoli gruppi capitalistici parassitari, a loro volta servitori dell’egemonia del paese centrale>>.
Ma se per 20/30 anni non si può più parlare di comunismo e di rivoluzione, si potrà almeno contare sulla “Terza Forza”, <<che attualmente non esiste, ma che è l’unica speranza per il futuro>> (punto 2)?
Sorprendentemente la risposta è no.
<<Sia chiaro che conosco benissimo l’attuale impossibilità di dar vita in Italia (e altrove, nelle società del nostro tipo) ad una terza forza>> (punto 12).
Ma allora? Da una parte si dice “Terza Forza” perché altro oggi non è possibile, dall’altra si afferma che una terza forza oggi non è fattibile. Ma se è così, qual è il senso di questa proposta? La Grassa dice di fare riferimento alla “Terza Forza” solo per fissare alcune direttrici di marcia. Ma se queste ultime non hanno possibilità alcuna di concretizzazione, dov’è (al di là del giudizio di merito) l’utilità di una proposta per sua natura eminentemente politica come questa?
2. Imperialismo, Impero, Egemonismo
Visti i paradossi irrisolti del progetto di “Terza Forza”, veniamo ora ad alcune tesi centrali che rivestono un’importanza di carattere generale.
Anche per le cose dette al punto precedente, la questione dell’imperialismo è assolutamente decisiva. In questi anni ci siamo spesso trovati davvero in pochi a parlare di imperialismo. I più, per tante varie ragioni – l’opportunismo ha tante vie, più di quelle del Signore – parlavano di “globalizzazione”, di un capitale transnazionale deterritorializzato, eccetera. Qualcuno dava a questa struttura amorfa il nome di “Impero”. Un impero sfuggente, contrastabile soltanto con un imprecisato “Esodo”, che nessuno ha mai capito esattamente cosa fosse. Dietro a tanta confusione c’era però del metodo. Lo scopo – per una lunga fase raggiunto – era quello di cancellare la realtà dell’imperialismo e di conseguenza la necessità di resistergli con adeguate forme di lotta politica, culturale, informativa e (nei luoghi delle aggressioni militari) armata.
La lunga serie di conflitti che inscriviamo nel capitolo (tutt’altro che terminato) della “Guerra infinita” proclamata da Bush nel settembre 2001, ed iniziata apertamente con l’aggressione all’Afghanistan del 7 ottobre di quello stesso anno, hanno poco a poco riportato alla luce i veri caratteri degli attori in campo: l’imperialismo, con la struttura gerarchizzata a guida monopolare americana; l’antimperialismo in cui si ritrovano le resistenze armate della prima linea, popoli e stati che non intendono piegarsi a questo ordine imperiale, settori significativi del movimento contro la guerra.
Nella battaglia politica per riportare alla luce il concetto di imperialismo ci siamo sempre trovati al fianco Gianfranco La Grassa. Al tempo stesso abbiamo condiviso con lui alcune importanti precisazioni sui caratteri attuali dell’imperialismo, ad esempio sulla critica del concetto leniniano di “putrefazione” e di “fase suprema” e perciò ultima del capitalismo. E’ noto infatti che mentre il capitalismo doveva trovarsi nella fase della putrefazione, il socialismo (o quello ritenuto tale, ma non è questo il punto) crollava miseramente senza neppure avere il tempo di putrefarsi.
Ora, però (punto 3), La Grassa propone una nuova terminologia: <<Personalmente, mi sembra
giusto sostituire il termine imperialismo con quello di egemonia>>. << Preferisco questo termine a
quello di imperialismo, poiché quest’ultimo denota propriamente la fase storica in cui un certo
numero di grandi potenze, di più o meno pari forza, si affrontano per la spartizione del mondo (come accadde tra fine ottocento e prima metà del novecento, una volta esauritosi il predominio capitalistico dell’Inghilterra). D’altra parte, il termine imperiale lascerebbe supporre che l’intero globo sia dominato dagli USA, con la presenza in esso di semplici “regioni”, pur spesso dotate di ampia autonomia e più o meno turbolente e ribelli>>.
Questa svolta terminologica non è affatto convincente. E’ vero che “imperialismo” fa pensare ad una fase policentrica. Ed è certamente vero che oggi farebbe semplicemente ridere l’allineamento indifferenziato dei vari imperialismi, dagli Usa alla Svizzera.
Il termine “impero”, al di là dell’ormai largamente rottamata accezione negriana, non è invece per niente contraddittorio con la categoria di “imperialismo”. “Imperialismo” definisce una fase storica, la base strutturale, la sostanza, le caratteristiche, le dinamiche di un sistema di dominio. I soggetti reali che agiscono in questo sistema, fondamentalmente gli Stati delle grandi potenze (intesi come apparati che connettono interessi economici, politici e geostrategici) possono benissimo definirsi “imperi”, se questo termine serve ad indicarne l’ampiezza della sfera del proprio dominio.
Per La Grassa (tolto anche per lui di mezzo il <<non concetto negriano>>), non si può parlare di “impero americano” dato che <<Cina, Russia, India, ma anche altri paesi, non possono essere considerati parte di un Impero in tumulto, ma vere nuove potenze in ascesa>> (punto 3). Francamente non vediamo dove sia il problema. Posto che vi sono nuove potenze in ascesa, ma assodato anche (e su questo La Grassa concorda) che il dominio americano ha ancora tempi lunghi davanti a se2, il termine “impero americano” è certamente quello più indicato per raffigurare il soggetto centrale dell’attuale configurazione imperialistica.
D’altro canto, a fronte dell’evidenziazione delle potenze emergenti (alcune di “ritorno”) e della parallela elencazione delle potenze declinanti (Europa in particolare) non possono essere omessi i dati di fondo che fanno dell’imperialismo americano il soggetto di gran lunga dominante. Un dominio fortissimo nel campo militare, nonostante gli impantanamenti in Iraq ed Afghanistan che dimostrano non tanto una inesistente debolezza militare americana, quanto semmai la possibilità per le resistenze popolari di contrapporsi efficacemente con i metodi della guerriglia e della guerra partigiana. Un dominio altrettanto forte nel campo della politica, basti pensare al controllo di fatto delle grandi istituzioni internazionali (Onu in primo luogo); della cultura e di un’informazione sempre più americanizzata; del “diritto”, con la completa riscrittura in questi ultimi 5 anni della sostanza del diritto internazionale, fino ad arrivare al Military Commissions Act dell’ottobre scorso che sancisce la legalizzazione della tortura purché approvata dal presidente degli Stati Uniti.
Un dominio che viene rivendicato anche fuori dal pianeta, con la recente “Revisione della politica spaziale americana”, un documento licenziato senza clamori che stabilisce il primato statunitense nello spazio e che diffida e minaccia chiunque osasse mettere in discussione l’attuale supremazia. Un dominio che appare relativamente più debole sul piano economico, ma la forza economica (come giustamente ci ricorda La Grassa) non è certo legata ai semplici criteri di efficienza, di minimax, come vorrebbero farci credere, prendendoci per gonzi, i sacerdoti del “libero mercato”. Anzi, in definitiva, il libero mercato non esiste proprio e su questo La Grassa ha ragione da vendere. Ne consegue che la supremazia negli altri campi garantisce anche una superiorità nel campo economico, non fosse altro per il ferreo controllo esercitato sugli organismi internazionali, dal Fmi, alla Banca Mondiale, al Wto.
Non parliamo poi del ruolo della finanza americana, anche nelle vicende italiane. A tale proposito La Grassa ci ricorda con assiduità il ruolo della Goldman Sachs, che ha piazzato in gangli vitali del nostro paese propri uomini di fiducia, arrivati a tali posizioni direttamente dalle dipendenze della banca americana. Tra questi non scordiamoci mai l’attuale presidente di Bankitalia, quel Mario Draghi che nel quinquennio 1996-2001 (governi Prodi, D’Alema e Amato) è stato il principe delle privatizzazioni.
2 Si legge, ad esempio, al punto 3: “Ancora per un ventennio, come minimo, non penso che si formerà un autentico blocco antiegemonia USA, con una strategia coerente e ben mirata; non esisteranno cioè altre sfere egemoniche stabilizzate dotate di nuovi centri di irradiazione di potenza”.
Se consideriamo tutti questi elementi è ben difficile considerare adeguato il termine soft di “egemonia”, ben più appropriato il binomio “imperialismo-impero americano” nel senso prima specificato.
Naturalmente nei rapporti di forza internazionali niente è statico, dunque è necessario cogliere gli elementi di dinamicità. Ma lo stesso La Grassa vede la “scandinavizzazione” – cioè il precipitare nell’<<aurea mediocrità>> – dell’Europa (se non addirittura la sua “sudamericanizzazione”) e la collocazione subalterna del Giappone; vede cioè la fine dei sogni di gloria di due potenze date in irresistibile ascesa non più tardi di 15 anni fa.
La “Guerra infinita” – nei suoi vari aspetti, non solo in quelli militari – è la manifestazione più evidente, la fotografia più eclatante dell’attuale configurazione del dominio mondiale. In essa gli Stati Uniti si muovono da imperialisti insieme ad altri (in particolare gli altri paesi Nato), ma solo gli Stati Uniti agiscono come l’impero che detta i ritmi del mondo intero.
Ovvio che questo ruolo imperiale susciti opposizioni, non solo di tipo antimperialistico. Ovvio che altre potenze aspirino ad una crescita del proprio ruolo. Ma nessun dubbio sul fatto che oggi il fattore determinante è il disegno di dominio planetario degli Usa.
E su questo punto un breve inciso che dovrebbe stimolare alcune riflessioni: se oggi questo progetto appare in difficoltà è solo per la forza delle resistenze popolari, che attualmente – a differenza del passato – non possono in alcun modo contare sul sostegno, neanche indiretto, di qualche potenza concorrente. Evidentemente, a volte, anche i dominati possono provare a scrivere la storia.
In quanto alla minore definibilità dei confini di quella che La Grassa vuol chiamare (punto 3) sfera egemonica e non impero americano, facendo corrispondere a confini più sfumati una definizione ugualmente più sfumata, penso che potrebbe esserci un criterio sul quale tutti potremmo essere d’accordo.
Il criterio è quello delle basi militari. Se noi segnassimo con delle crocette su un mappamondo l’incredibile ragnatela delle basi americane nel mondo troveremmo queste croci in ogni continente, a varie latitudini, con forti concentrazioni in corrispondenza delle aree ad alto valore strategico.
Ma a questa osservazione assai banale dobbiamo far seguire una domanda assai retorica: esiste forse un’altra potenza con un sistema di basi all’estero? E’ esistita, dal 1945 al 1989. Oggi non c’è più. Potremmo allora almeno accordarci sul fatto che i paesi in cui sono presenti le basi Usa e Nato (su chi comandi alla Nato credo che non ci sia da discutere) fanno parte dell’impero Usa, mentre la sua sfera egemonica è ovviamente ancora più ampia?
Naturale, che poi, questi paesi si ritaglino a volte qualche spazio di autonomia. Ma nell’attuale sistema essa sarà sempre limitata e controllata dalla potenza centrale.
Se siamo d’accordo su questa fotografia, facilmente rilevabile anche da satelliti spia di potenze di serie B, mi pare ben difficile contestare il ruolo imperiale svolto dagli Usa. Certo essi non hanno basi in tutti i paesi del mondo, ma sono gli unici ad averle in molte nazioni ed in tanti luoghi strategici. Certo essi non sono gli unici a disporre di una potenza distruttiva, ma sono gli unici (eventualmente insieme agli alleati più fedeli, vedi Israele) in grado di utilizzarla attualmente, con un monopolio della guerra, peraltro sancito dal nuovo “diritto” post 11 settembre, che è sotto gli occhi di tutti.
Un impero non è necessariamente mondiale, ma nel nostro caso questo termine indica un potere ed un disegno di dominio mondiale che non ha precedenti storici, altro che confini sfumati ed indefinibili!
3. Quale Stella Polare? Antiegemonismo o antiamericanismo?
La sostituzione terminologica proposta da La Grassa (egemonia anziché imperialismo) oltre che non convincente sul piano teorico, ha delle evidenti ricadute su quello politico.
La principale di queste ricadute è l’attacco forsennato che egli conduce all’antiamericanismo, anche in questo caso non senza contraddizioni evidenti che penso sia utile cercare di spiegarsi.
E’ evidente che per chi scrive l’antiamericanismo altro non è che la forma pratica della lotta politica antimperialista nella nostra epoca. L’antiamericanismo è dunque la traduzione concreta dell’opposizione al binomio imperialismo-impero americano, una traduzione che ci consente fra l’altro di fare luce non solo sugli aspetti classici della teoria marxista, incentrati sull’economia, ma anche su altri elementi – la cultura, gli stili di vita, eccetera – che non sono affatto secondari.
Sostituire l’antiamericanismo (e dunque di fatto l’antimperialismo) con l’antiegemonismo, significherebbe oltretutto cancellare un termine ed un concetto chiaro con una lingua sfumata ed ermetica, cioè con l’esatto contrario di ciò che abbiamo bisogno.
Vediamo ora quelle che a mio parere si presentano come contraddizioni assai significative di questa proposta. Vediamole non per il gusto di metterle in evidenza, ma perché attraverso di esse possiamo arrivare al punto veramente decisivo che – sempre a mio parere – spiega l’esigenza di La Grassa di arrivare al cambio terminologico indicato.
Si legge al punto 3 che l’indirizzo di politica internazionale della terza forza <<di massima non può che essere anti-USA>>. Segue a questa affermazione una disamina puntuale della situazione italiana, nel quadro di un crescente vassallaggio europeo nei confronti degli USA. Riguardo all’Italia l’attenzione viene posta soprattutto sulle forme del controllo finanziario, arrivando così al seguente giudizio di sintesi: << Siamo però in grado, se non siamo deficienti o servi (come lo sono i destri e sinistri attuali), di comprendere il progetto d’insieme, la subordinazione agli USA mediante preminente utilizzazione dei mezzi del capitale finanziario. Quindi rassegniamoci ad una certa incomprensione dei singoli progetti, dei contesti particolari, ma afferriamo il disegno complessivo di questi dominanti (USA) e di questi vassalli (europei) che ci stanno portando all’aurea mediocrità, prima, con forti probabilità di disastro, poi>> (punto 3).
Dopo queste valutazioni che attestano l’assoluta ed indiscussa centralità dell’azione americana nel contesto europeo, si arriva invece alla definizione degli USA come <<unica potenza centrale, non in grado però di creare un ordine mondiale>>.
Ora qui bisognerebbe capirsi su cosa si intende per “ordine”. Se si intende il controllo assoluto e generalizzato è ovvio che esso non esiste (ma è mai esistito?). Se invece si intende un ampio predominio nelle varie sfere del potere, un predominio comunque incomparabile con i livelli di potenza dei possibili competitori, allora sono le stesse analisi di La Grassa a confermarci che questo “ordine” esiste, eccome.
La mia personale sensazione è che La Grassa sia in realtà ben consapevole di questo dato di fatto, ma se ne ritragga perché “spaventato” dall’antiamericanismo, del quale passa infatti all’attacco quasi fosse qualcosa di ben più grande (magari!) di quel che rappresenta attualmente.
L’intero punto 4 è dedicato a questa questione e sarebbero utili numerose citazioni che qui è impossibile fare. Vediamo però l’essenziale. << Da un certo punto di vista, tutto sembra semplice poiché si tratta di favorire qualsiasi processo, qualsiasi movimento, che contribuisca ad indebolire il progetto egemonico USA. Tuttavia, nel perseguire tale obiettivo si può incorrere in molti errori che poi graveranno sugli sviluppi delle situazioni, sia pure nel lungo periodo>>. A questa affermazione di principio, di per se incontestabile, ne segue però un’altra più precisa: <<Tuttavia, l’odio per i persecutori non deve ottundere la capacità di raziocinio. Altrimenti, nel momento in cui i dominanti mutassero strategia e tattica nel perseguire l’obiettivo dell’egemonia, alcuni verrebbero sviati e ingannati attenuando il loro antiamericanismo; altri proseguirebbero a testa bassa senza adeguare a queste nuove strategie le proprie in funzione antiegemonica. Non ha inoltre alcun senso accomunare all’odio contro i massacratori quello contro ogni manifestazione della loro cultura, che in fondo ha larghi contatti con la nostra, assai di più di quanti ne abbiano, che so, la cultura islamica o quella cinese>>. In questo ragionamento passiamo da alcune formulazioni generiche (chi mai vorrebbe “ottundere la capacità di raziocinio”?), ad una alquanto discutibile separazione tra i “massacratori” e la loro cultura.
E che questo sia il punto lo si capisce subito dopo: <<Cerchiamo di capire che noi agiamo comunque in un’area i cui popoli hanno un certo tipo di tradizioni, ma anche vivono ormai da decenni e decenni in questa nuova società da me detta dei funzionari (privati) del capitale, che va contestata nelle sue strutture di rapporti diseguali fra vari raggruppamenti sociali, nelle sue caratteristiche di competizione basata sulla prevaricazione, la sopraffazione, l’inganno, ecc., ma sapendo che questo è il nostro ambiente, questo il nostro orizzonte culturale>>.
Ora che questo sia il “nostro ambiente” è certamente (e purtroppo) vero. Il problema è che abbiamo già visto all’inizio che questo ambiente non deve essere messo in discussione.
Spiace che per arrivare alla sua conclusione, per cui <<La nostra stella polare deve essere l’antiegemonismo, non l’antiamericanismo in sé e per sé>>, La Grassa, che notoriamente detesta il “politically correct”, ricorra invece agli argomenti preferiti dai “politicamente corretti” di ogni latitudine.
E l’argomento preferito è che l’antiamericanismo e l’antisionismo condurrebbero inevitabilmente a destra, magari ai forni crematori. Egli afferma infatti: <<Infine, ricordiamoci del passato. Non basta che uno gridi all’antiamericanismo, all’antisionismo, per decidere di stare con lui. Altrimenti, tanto vale dichiarare di aver sbagliato campo negli anni trenta; bisognava allearsi (non solo tatticamente) con gli antiplutocratici, con coloro che urlavano contro le principali potenze coloniali dell’epoca che, fino a prova contraria, erano Inghilterra e Francia (con gli USA quale outsider in “agguato”)>>. Ora, questo riferimento storico è davvero incredibile e fuorviante. E’ incredibile, perché appunto ricalca tutta la canea che ci è stata scatenata contro da quando abbiano iniziato a parlare di antiamericanismo, che è poi la stessa che viene metodicamente scagliata addosso a chiunque esca dal teatrino della falsa contrapposizione destra-sinistra, vedi ad esempio il caso di Lafontaine in Germania accusato di essere – guarda un pò! – “rossobruno” da chi si apprestava ad andare al governo con l’ “americana” Merkel.
E’ fuorviante, perché oggi non c’è alcun nazismo alle porte che si contrapponga agli Usa, perché lo squilibrio delle forze in campo è a livelli mai visti nella storia moderna, perché l’antisionismo di oggi non ha niente a che fare con il razzismo antiebraico dei nazisti che casomai con i sionisti di allora se la intendevano abbastanza (la stessa cosa dicasi per il fascismo), mentre preferivano prendersela con i cosiddetti “ebrei assimilazionisti”, cioè con coloro che avrebbero voluto vivere in pace nei loro rispettivi paesi invece di andare ad irrobustire il piano coloniale sionista in Palestina.
L’attacco all’antiamericansimo è quasi ossessivo. Da qui la messa in guardia a non cadere <<nelle possibili trappole di un antimericanismo preconcetto, di principio, nutrito di puro odio, che assomiglierebbe troppo all’odio di classe portato avanti da certo comunismo, da certe “masse popolari” che volevano solo sostituirsi alla borghesia, volevano solo diventare “ricche” per poter calpestare qualcun altro>>. Dove alberghi un siffatto antiamericanismo non lo sappiamo, ma tanto basta per arrivare a dire che questo <<antiamericanismo forsennato>> potrebbe addirittura condurre all’ascesa <<di un nuovo tipo di rivoluzione dentro il capitale, dopo quella ben nota degli anni venti-trenta (nazifascismo)>>.
E’ interessante, però, come dopo questo attacco condotto nel testo in esame, La Grassa giunga a conclusioni assai diverse nell’ultima parte del successivo scritto “Reintervenendo sulla Terza Forza”. In questo testo, dopo aver ribadito il no “all’antiamericanismo di principio”, e dopo aver preso atto delle diversità politiche esistenti tra quanti hanno commentato la sua “terza forza”, giunge a questa conclusione: <<Comunque, bando alle chiacchiere. Abbiamo molte cose su cui alcuni di noi possono convergere nelle loro critiche alla società attuale, in specie con riferimento alla concretezza della formazione sociale italiana o anche internazionale nell’epoca presente, in cui l’antiamericanismo (in generale, non entrando nello specifico del perché siamo antiamericani) è intanto un principio che dovrebbe essere comunemente accettato tra noi>>.
Che dire? Non voglio qui interpretare il pensiero altrui, ma più che un ripensamento sembrerebbe la
presa d’atto di una situazione storica data. All’ingrosso: molti ragionamenti di La Grassa portano
acqua al mulino antiamericanista dato che l’analisi strutturale lì conduce, ma il suo timore è che l’antiamericanismo assuma una forte carica contestatrice di quella cultura americana che egli vuole (in buona parte) difendere in quanto espressione di una modernità minacciata.
Il problema non è dunque il rossobrunismo che si vorrebbe direttamente sotteso all’antiamericanismo. Esso viene paventato, ma il punto di disaccordo davvero centrale è decisamente un altro. Da questa contraddizione nasce l’ “antiegemonismo”.
Ma che cos’è l’antiegemonismo? Per rispondere a questa domanda, domandiamoci a nostra volta se l’egemonismo descritto nella “Terza Forza” è qualitativamente qualcosa di diverso dall’imperialismo. A mio modesto parere non lo è, essendo al massimo una raffigurazione dell’imperialismo contemporaneo.
Ma se è così, che senso ha parlare di antiegemonismo se è solo un modo un pò diverso di dire antimperialismo? E inoltre, se l’egemonismo, così come l’imperialismo, ha oggi una gerarchia ed un marchio preciso perché non dire antiamericanismo (ovviamente con tutte le specificazioni del caso)? Per La Grassa (punto 5) all’antiegemonismo consegue un antiamericanismo solo di fase, essendo inaccettabile <<l’antiamericanismo di principio>>.
D’accordo, ma quanto dura questa fase? Sempre secondo La Grassa, non meno di alcuni decenni. Cioè non meno del periodo nel quale la “Terza Forza” dovrebbe esplicare la sua azione. E’ chiaro, perciò, che il problema è un altro. Ed è esattamente quello che abbiamo citato all’inizio: l’accettazione convinta della modernità creata dal capitalismo, che se messa in discussione significherebbe inevitabilmente “un ritorno all’indietro”; l’indiscutibilità (concetto molto americano) del nostro stile e del nostro tenore di vita, dei nostri consumi e delle nostre abitudini.
Il nodo vero è qui, ma su questo torneremo successivamente analizzando la parte dello scritto di La Grassa che si occupa del concetto di sviluppo.
Intanto però appare utile soffermarsi sulla questione del passaggio al policentrismo, questione assolutamente centrale nella proposta della “Terza Forza”.
4. Verso una nuova fase policentrica?
Abbiamo già visto come questo passaggio di fase sia considerato il vero obiettivo dei prossimi anni. Come possa contribuirvi una “terza forza”, giudicata peraltro irrealizzabile, resta un mistero inspiegabile.
Che nelle fasi policentriche, ed in particolare nei periodi di acuto conflitto intercapitalistico ed interimperialistico, si aprano ai dominati spazi ben più ampi di quelli abituali è cosa nota e storicamente provata. E’ altrettanto noto, però, che il policentrismo da solo non può certo produrre le rivoluzioni, che abbisognano anche di soggettività politica organizzata, di teoria e coscienza, di progettualità ma anche di speranza condivisa con ampi strati popolari.
Da questa breve elencazione di elementi mancanti, che tratteggia un presente in cui siamo ancora circondati dalle macerie del comunismo novecentesco, si può venir fuori solo con l’attesa di una dispiegata fase policentrica?
Il punto 5 della “Terza Forza” così si conclude: <<Qualora e quando (certo non presto) crescessero e si stabilizzassero altri centri di nuove sfere egemoniche, tornerebbe in piena evidenza, certamente con gli aggiustamenti adeguati alla (futura) nuova epoca policentrica, la tesi leniniana della trasformazione dello scontro tra questi centri – non necessariamente, anzi poco probabilmente, una nuova guerra mondiale – in rivoluzione per la trasformazione sociale>>.
Ora, se è indiscutibile che un’epoca policentrica sia più favorevole alla trasformazione rivoluzionaria di una monocentrica, è ben difficile ipotizzare la trasformazione leniniana della guerra (nelle sue varie forme) in rivoluzione senza gli altri ingredienti – prima ricordati – che erano invece ben presenti sia ai tempi di Lenin che a quelli di Mao.
Dopo questa premessa è utile però concentrarsi su un’altra domanda: ammesso che vi sia una tendenza fisiologia al passaggio da fasi monocentriche ad altre policentriche, qual’è lo schema con il quale questo passaggio si realizza?
La questione non è di lana caprina. Per La Grassa questo passaggio potrà darsi solo con il rafforzamento e l’emersione di nuove sfere di influenza in grado di contrastare l’egemonia americana. Il compito principale di una ipotetica “Terza Forza” italiana sarebbe dunque quello di contribuire in tutti i modi all’accrescimento della potenza italiana (ed europea). Più esattamente (punto 7): <<dobbiamo concentrare le risorse che abbiamo, magari al momento scarse, per rafforzare, più spesso per approntare ex novo, le strutture del sistema-paese – certo ricercando l’unione e l’alleanza con altri – al fine di allargare la nostra potenza, la nostra sfera di influenza, nel giro di un periodo non “secolare”>>.
Segue un lungo elenco di cose da fare in questa ottica: dare impulso alla ricerca scientifica, sviluppare il lavoro di intelligence, <<acquisire “amicizie” in settori politici e governativi di altri paesi rilevanti>> al fine di allargare l’esportazione di merci e l’acquisizione di prodotti energetici, ottenere anche con metodi “non ortodossi” l’accesso alle tecnologie più avanzate, eccetera.
In sostanza abbiamo qui uno sviluppo consequenziale con l’impostazione citata all’inizio, per cui è necessario oggi, sia pure per il bene futuro della rivoluzione, lavorare per i nostri dominanti, al fine di far diventare anch’essi se non predominanti comunque competitivi ed oggettivamente antiegemonici.
Dobbiamo immaginare che, in questa prospettiva, la stessa cosa dovrebbero fare i dominati giapponesi, russi, cinesi, eccetera.
Ora, a parte il giudizio di merito su questa “via rivoluzionaria alla sottomissione”, dobbiamo chiederci se questa è l’unica strada possibile, o quantomeno la più probabile, per arrivare all’auspicato policentrismo. Ovviamente il policentrismo è sinonimo di (relativo) equilibrio delle forze (economiche, politiche, militari, eccetera) in campo. Ma, in generale, questo “equilibrio” può essere frutto tanto di una crescita di chi sta indietro, quanto di una crisi di chi sta davanti, o di una compresenza di questi due fattori.
D’altronde, le concrete vicende storiche ci mostrano un andamento ben più ricco di variabili. Se due guerre mondiali (massima manifestazione della precedente fase policentrica) hanno consentito agli Usa di soppiantare la Gran Bretagna come potenza centrale, la fase apertasi con il 1945 ha visto due momenti ben distinti: il primo (1945 – 1989) caratterizzato da un sorta di bipolarismo imperfetto, il secondo (tuttora in corso) fondato sul dominio imperialista statunitense. Così come il periodo 1945- 1989 ha avuto caratteristiche del tutto particolari, dato che accanto all’assoluta centralità nel sistema imperialista acquisita dagli Usa coesisteva il rapporto conflittuale con l’Urss, superpotenza nucleare e dunque comproprietaria del condominio denominato “equilibrio del terrore”; quella successiva ha a sua volta caratteristiche del tutto nuove data l’asimmetria di potenza in campo, ben superiore a quella esistente ai tempi della supremazia dell’imperialismo britannico.
Questo giusto per dire che i percorsi concreti delle dinamiche imperialistiche non seguono linee già tracciate da una qualsivoglia teoria economica, ma risentono di molteplici fattori storici. Nel nostro caso, l’esistenza dell’Urss ha reso meno monocentrico il periodo postbellico; viceversa, il crollo dell’Urss ha reso assolutamente monocentrica la fase attuale.
Ma torniamo alla nostra domanda: per incrinare il monocentrismo esiste solo la via dell’accrescimento di potenza di nuovi competitori o – ed oggi più realisticamente – possono esistere anche altre strade incentrate sull’indebolimento della potenza centrale, concretamente degli Usa?
La prima strada, ipotesi fondante l’idea di terza forza di cui ci occupiamo, prevede l’accrescimento di potenza di un certo numero di competitori, fino al raggiungimento di un punto critico richiedente (non necessariamente con la guerra guerreggiata, ma certamente con il dispiegarsi di un tremendo scontro tra dominanti) un nuovo equilibrio.
La seconda strada – che pure non esclude il ruolo di nuove potenze emergenti – si fonda invece
sulla possibilità che si sviluppino sempre di più varie forme di resistenza al dominio imperiale-
imperialista della potenza egemone, fino a metterne in crisi non semplicemente le varie iniziative nei punti della prima linea della “guerra infinita”, ma la complessiva capacità di esercitare tale dominio.
Entrambe queste strade si presentano certamente lunghe, ma la seconda ha dalla sua alcuni dati consolidatisi in questi ultimi anni. Si tratta, come già ricordato, dell’impantanamento dell’iniziativa militare e politica in Afghanistan ed in Iraq, che unito alla sconfitta politica (giugno 2005) dei cosiddetti “riformisti” in Iran ed a quella politico-militare di Israele in Libano (luglio-agosto 2006), segna l’impasse del progetto di “Grande Medio Oriente”. Ma si tratta anche del vasto processo di sottrazione alla storica dipendenza verso gli Usa di diversi paesi dell’America Latina, processo innescato dall’affermarsi del movimento bolivariano in Venezuela.
Tutto questo non cambia la prospettiva dei prossimi anni, ma è evidente che questi vistosi scricchiolii sono il frutto di lotte e di processi politici che niente hanno a che vedere con la strada dell’ “accrescimento di potenza” da parte di nuovi competitori. Si tratta invece, in definitiva, di lotte e di processi che – certamente in senso lato e senza oscurarne le differenze – possono essere ricompresi nella categoria dell’antimperialismo.
Certamente una specificazione andrebbe fatta rispetto all’Iran, che palesemente persegue un suo disegno di potenza regionale nell’area del Golfo Persico, ma resta il fatto che tale disegno avrebbe potuto dispiegarsi anche attraverso la via dell’accordo con gli Usa, come auspicato dai “riformisti”. Così non è andata, ed anche se volessimo considerare Ahmadinejad un semplice alfiere della competizione nei termini intercapitalistici classici, mai potremmo prescindere dal fatto che la sua vittoria è stata ottenuta sulla base di un programma sociale orientato alla maggioranza del popolo iraniano e sul rifiuto dell’occidentalizzazione dei costumi. “Populismo”! griderebbero – ed in effetti gridano – i “politicamente corretti” della sinistra occidentale e per giunta – orrore! – in tinta islamica. Ma è proprio questo “populismo” (al di là della diversa coloritura religiosa) la formula che oggi può unire i popoli contro l’oppressione imperialista, come la stessa esperienza del Venezuela dimostra.
La “seconda strada” che qui ipotizziamo non è dunque un romantico sogno terzomondista. Essa ha già raggiunto alcuni risultati sui quali – andrebbe riconosciuto – in pochissimi avevamo scommesso anche soltanto tre anni fa.
Ma questa strada ha anche un altro imprescindibile vantaggio: quello di riconoscere, sia pure per grandi linee, l’effettiva strutturazione di classe a livello globale. Questa strada non richiede, anzi respinge, la collaborazione di classe in occidente, nella consapevolezza che solo la profonda incrinatura dei rapporti di potere su scala mondiale potrà mettere davvero in crisi i dominanti e le strutture del loro dominio nel nostro mondo.
No quindi all’idea che (punto 8): <<promuovere la politica antiegemonica significa, nei prossimi decenni, favorire l’ascesa di nuovi centri che tentino di coagulare attorno a sé determinate sfere egemoniche alternative a quella statunitense>>.
Questa idea è da respingersi non solo per ragioni di principio – non si lotta contro l’ingiustizia favorendo nuove ingiustizie – ma anche per la sua deriva “geopolitica”, dove quest’ultima (benché ovviamente importante), diventa l’unica protagonista di ogni possibile storia futura.
E’ questa la strada presa da chi ha voluto vedere l’Unione Europea come il possibile baluardo a difesa di “valori” non omologabili all’americanismo, ma anche da chi – e spesso sono gli stessi – immagina, sempre in funzione anti-Usa, improbabili assi Parigi-Mosca-Pechino con possibili articolazioni verso Nuova Dheli.
Nel frattempo, mentre queste ipotesi venivano sostenute da diverse realtà politiche, un’Unione Europea sempre più in crisi, non sapeva far altro che adattarsi progressivamente all’americanizzazione crescente delle proprie società, mentre a Parigi (capitale ideale di questi sogni antiegemonici) si discute attualmente su chi sarà il nuovo presidente avendone comunque accertato preventivamente l’identico tasso di filoamericanismo.
Questi fatti non sfuggono di certo a La Grassa, che infatti propone un assai generico “andare ad est” che schiva i rilievi di cui sopra solo in virtù di questa genericità.
Va detto che il ragionamento di La Grassa si articola esplicitamente su due fasi, dove la prima, quella della lotta antiegemonica, è vista in funzione della seconda, quella della rivoluzione per la trasformazione sociale. Ma, a parte il fatto che tutto lo scritto in questione è sbilanciato al 98% sulla prima fase, è proprio questa prospettiva “a fasi” a non essere convincente, dato che è ben difficile lavorare ad un “secondo tempo” rivoluzionario dopo un “primo tempo” collaborazionista.
5. Capitalismo, sviluppo, sviluppismo
Abbiamo già visto come questa questione permei tutto il ragionamento di La Grassa.
Due sono le parole magiche che evidentemente condivide con gli economisti-imbroglioni che imperversano nei media: sviluppo e crescita. Chi volesse, non dico mettere in discussione, ma anche solo sottoporre a critica ragionata questi due dogmi, verrebbe immediatamente folgorato dall’accusa di “antimodernismo” e – peggio – di “collaborazione con il nemico”.
La Grassa critica, a mio parere giustamente, un certo ambientalismo da “agriturismo” che certo non scalfisce la devastazione ambientale prodotta dal capitalismo, ma il problema – e che problema! – è che egli questa devastazione proprio non la vede, o meglio non la vuol vedere.
Vederla, esaminarla, cercare di individuarne le conseguenze anche nel lungo periodo (non sono affatto d’accordo che la politica debba occuparsi solo dell’oggi o poco più) non significa aderire al Club di Roma, al catastrofismo cinematografico o ad ogni moda antimodernista. Al contrario, dovrebbe significare approccio scientifico ed individuazione delle relazioni con gli aspetti sociali ed umani, oltre che con quelli economici secondo una concezione dell’economia sottratta agli imperativi del capitalismo.
Evidentemente La Grassa considera quest’ultima un’impresa impossibile, ma se così fosse non si capisce a cosa dovrebbe guardare una futura prospettiva rivoluzionaria.
Se la priorità assoluta è la crescita, intesa come dato quantitativo sintetizzato ormai convenzionalmente nel Pil, allora non c’è dubbio: il capitalismo è il più efficiente sistema per realizzarla al di là delle sue periodiche e momentanee crisi.
Nel suo scritto “Reintervenendo sulla Terza Forza”, La Grassa precisa di essere un critico della “teoria delle forze produttive” <<secondo cui tale sviluppo, di per sé, urta contro il limite posto dallo stesso capitale (non cosa ma rapporti sociali) e quindi lo travolge, provocando la trasformazione della società in direzione del comunismo>>. La critica è dunque rivolta giustamente contro questo determinismo, che ha segnato profondamente il marxismo e che è in parte certamente riconducibile allo stesso Marx. Ma da questa critica non deriva affatto alcuna riconsiderazione, anzi, sui concetti di “crescita” e di “sviluppo delle forze produttive”.
Sempre nello stesso scritto, troviamo questa affermazione: <<Il capitalismo ha sempre vinto perché, attraverso periodici sconquassi terribili e con ampie divaricazioni tra i vari strati sociali, ha tuttavia garantito un trend ascendente del tenore di vita di tutti gli strati. Quegli emeriti imbecilli che non si accorgono che sta avvenendo la stessa cosa, oggi, in Russia, Cina, India e anche in paesi tipo Iran, ecc. debbono essere abbandonati al loro destino. Non se ne può più di questi individui, che sono la causa prima di tutte le sconfitte dei comunisti, della fuga della gente dai paesi del “socialismo reale”, del crollo di questi ultimi, della riduzione degli anticapitalisti a sette folcloristiche in tutto l’occidente sviluppato>>.
Insomma, se un Deng fosse apparso a Mosca prima che a Pechino il “socialismo reale” si sarebbe riformato e non vi sarebbe stato alcun crollo. Ora, però, non risulta che in Russia si privilegiasse l’“agriturismo” a scapito dello “sviluppo”. Né risulta che i temi ambientali avessero un benché minimo spazio nei gruppi dirigenti dei partiti comunisti occidentali i cui economisti di punta hanno sempre recitato “crescita, sviluppo, industria, lavoro”, senza che questo li abbia minimamente salvati da un identico crollo.
Dunque la polemica di La Grassa sembra decisamente fuori bersaglio ed infondata storicamente.
Che nel blocco orientale vi fossero gigantesche inefficienze, e che tutto ciò abbia certo avuto un
ruolo nella disfatta del sistema, è cosa indubbia. Ma questa inefficienza va evidentemente ricercata in altre cause, non certo in una fantasiosa quanto inesistente adesione alla teoria della decrescita.
Prima di affrontare nel merito le tesi lagrassiane è utile citare alcuni passaggi significativi tratti da “Costruire la Terza Forza”. I critici dello sviluppo capitalistico vengono così liquidati (punto 5): <<Non credo debba essere manifestata simpatia verso tesi antimoderniste, antisviluppo e per la cosiddetta decrescita, per una economia e costumi sociali arcaici, che tornino ai “bei tempi andati>>. Che dire? Come non restare un pò increduli di fronte a tanto semplicismo applicato a temi assai complessi? E’ chiaro che in questi discorsi prevale l’esigenza propagandistica, il voler affermare una tesi senza neppure riconoscere alcuna dignità a quella opposta che viene semplicemente irrisa. Questo modo di ragionare lo ritroviamo al punto 10, dove la preoccupazione è quella di stare alla larga <<da coloro che predicano il ritorno ai “tempi in cui Berta filava”, che desiderano la frugalità e la parsimonia come unica critica al “consumismo” odierno, che predicano “alti valori morali” in cambio di un abbassamento del tenore di vita>>. Costoro, conclude La Grassa <<Sono una tipica “malattia europea”, contribuiscono all’indebolimento e alla subordinazione della nostra area agli Usa; e, un domani, anche ai nuovi paesi emergenti>>.
In questa parte del suo scritto, La Grassa vede lo spargimento del “verbo antimodernista, antisviluppo, antipotenza” in ogni spazio mediatico. Chiediamoci se è così, o se non è piuttosto vero il contrario. Ognuno faccia mente locale e non sarà difficile trovare la risposta.
La verità è che così come non è mai esistito un Breznev anti-sviluppo, non esiste affatto un’egemonia culturale di un anti-sviluppismo come quello descritto da La Grassa e visto in funzione di un processo di decadenza europea che ha ben altre cause.
Non conosciamo chi voglia tornare ai “tempi in cui Berta filava”, e gli ambientalisti della prima ora hanno smesso di occuparsi di agriturismo per collocarsi – almeno in Europa – all’interno del ceto dominante; qualche volta addirittura nel management di grandi imprese che hanno smesso di “filare” da tempo (ricordiamoci soltanto di Chicco Testa nelle vesti di presidente dell’Enel).
Questo non significa che alcune tendenze effettivamente folcloristiche non abbiano un certo spazio mediatico. Questo fenomeno esiste, ma la sua funzione non è quella di contrastare lo sviluppismo, al contrario è invece quella di ridicolizzare (proprio come fa La Grassa in altre forme) ogni critica razionale allo sviluppo capitalistico, che diviene così liquidabile come nostalgia dei bei tempi andati.
Ovviamente questi temi meriterebbero un articolo a parte. Limitiamoci qui ad affrontare le questioni riconducibili alle due parole magiche da cui siamo partiti: sviluppo e crescita.
Il concetto di crescita è per sua natura quantitativo: vi è una crescita della produzione, del prodotto interno lordo, dei consumi, del commercio, insomma di tutto quanto è riferibile alla sfera economica. Ma vi è anche una crescita della popolazione, della vita media, come pure dei chilometri di strade e ferrovie. Anche il livello culturale si può misurare attraverso indicatori quantitativi: indice di alfabetizzazione, numero di laureati, numero di libri venduti, numero di visite nei musei, eccetera. Altri indicatori quantitativi si possono applicare alla sfera della salute: numero dei nati vivi, mortalità infantile, diffusione delle malattie infettive, eccetera.
L’operazione magica dei cultori della crescita senza specificazioni è quella di mettere in relazione tutti questi diversissimi indicatori come se fossero la stessa cosa, rami di uno stesso albero chiamato sviluppo.
All’interno del pensiero dominante vi è un’unica e non nuova variante a questo schema unidirezionale, quella che possiamo definire neo-malthusiana. Questa corrente è rappresentata in Italia da giornalisti come Alberto Ronchey o da tuttologi come Giovanni Sartori, che con i loro editoriali, sempre per assolvere l’intoccabile “sviluppo”, addebitano tutti i guai della Terra (che evidentemente avvertono di non poter più negare) ai poveri che continuano a fare figli. Ah, come vivremmo bene senza di loro!
Ora nessuno vuol mettere in dubbio – comunque non intendo farlo io – che la crescita economica sia andata avanti in parallelo allo sviluppo scientifico e tecnologico, determinando un’indubbia ricaduta sulla qualità della vita (pensiamo ad esempio alle tecniche diagnostiche e terapeutiche in medicina). Quello che è sospetto è limitarsi a vedere il buono di questo processo storico, ostinandosi a non vedere i pericoli e il cattivo che esso contiene. A titolo di esempio: l’aumento della produzione porta con se l’esaurimento delle risorse, quello della mobilità l’intasamento delle vie di comunicazione, quello della quantità di informazioni la morte di ogni vera informazione, gli indicatori culturali non ci parlano affatto del livello culturale effettivo, a malattie che scompaiono si accompagnano altre malattie che dilagano nei paesi della periferia, eccetera.
Se questa ostinazione è semplicemente sospetta, c’è però un punto che ci da la certezza della prova dell’inaccettabilità della tesi della crescita a tutti i costi. Questa prova sta nel fatto che tutti i sostenitori di questa tesi (e La Grassa non fa purtroppo eccezione) evitano come la peste una banalissima domanda: ma questa crescita che voi volete ha o no dei limiti? E, se sì, quali sono? Se invece la risposta è no, allora bisognerebbe spiegare per quale magico arcano sarebbe superabile ogni limite fisico che pure la natura ci ha assegnato.
La credenza nella “crescita” è più forte di ogni altro credo religioso, ma l’incapacità di dare delle risposte alle domande appena fatte è tale che i prelati di questa religione rifiutano semplicemente di porsi le domande. L’unica cosa che essi sanno fare è quella di sparare sui bersagli più comodi, e siccome di stupidaggini se ne dicono tante si ritrovano a disposizione diverse “profezie” da colpire. L’esempio classico è quella dell’ultima goccia di petrolio che secondo il Club di Roma sarebbe sgorgata negli anni ’90 del secolo scorso. Siccome ciò non è avvenuto ed anzi oggi le riserve di petrolio che si definiscono “accertate” sono addirittura un pò superiori a quelle del 1970, benché siano valutabili nell’ordine di grandezza, storicamente trascurabile, dei tre-quattro decenni, se ne ricava che il problema dell’esaurimento del petrolio (ma lo stesso discorso vale per il gas) è una baggianata alla quale non prestare alcuna attenzione. Perché tanta sicumera? Ma perché l’affinamento delle tecniche di ricerca porterà alla scoperta di nuove riserve, perché quando anche queste si esauriranno altre fonti energetiche come il nucleare potranno essere sviluppate al massimo, in attesa che il mitico idrogeno (meraviglia della scienza e della tecnica che non arriva mai) ci liberi dall’affannosa ricerca delle materie prime, cosa fra l’altro sgradevole perché ci costringe qualche volta a morire pur di controllare paesi e popoli che non capiscono le necessità della (nostra) crescita.
A differenza di “crescita”, la parola “sviluppo” sottintende un fenomeno non meramente quantitativo, bensì anche e soprattutto qualitativo. Più esattamente “sviluppo” rappresenta un concetto evolutivo ed appare perciò inscritto nella storia naturale di ogni organismo vivente.
Come parola magica è dunque più forte di “crescita”, ma nella società capitalistica lo “sviluppo” non è inteso come spinta al miglioramento della condizione umana, bensì come fratello gemello un pò meno ruvido di “crescita”. E’ un fatto, del resto, che nel pensiero dominante sviluppo e crescita viaggino sempre insieme. Ed infatti lo “sviluppo del paese” viene sempre sintetizzato nel mitico Pil. Dunque qui non stiamo discutendo di sviluppo in astratto, ma del concreto sviluppo capitalistico e delle sue conseguenze sugli individui, sulla società, sull’ambiente.
E’ chiaro che, ad esempio, nella prospettiva di una società comunista, lo sviluppo consisterebbe in tutti quegli elementi tendenti alla fuoriuscita da una condizione materiale dominata dal bisogno. Ma in quel caso lo sviluppo sarebbe davvero qualitativo e si avrebbe la separazione concettuale dalla nozione di “crescita”. Su questo punto si aprirebbe una discussione vastissima che non è possibile affrontare in questo articolo: l’unica cosa che qui è importante affermare è l’assoluta necessità della separazione dei due concetti di “crescita” e di “sviluppo”.
Ma torniamo all’orrendo presente, nel quale la coppia crescita-sviluppo capitalistico è in realtà un tutt’uno.
Il punto forte dell’argomentazione di La Grassa è che la tumultuosa crescita prodotta dal capitalismo, specie nella seconda parte del Novecento, ha determinato anche un corrispondente sviluppo nel senso più ampio del termine. Questo punto forte è reale. E solo dei comunisti sciocchi, incapaci di vedere la realtà, dovrebbero aver paura di una semplice ammissione: questa forza è stata la causa prima del crollo del cosiddetto “socialismo reale” in oriente e della crisi del movimento operaio in occidente.
Ma il marxismo ufficiale, ridotto ad economicismo, voleva vedere la crisi anche quando c’era il boom. Sono rimasti famosi, come capacità di prendere fischi per fiaschi, gli articoli catastrofisti che apparivano sull’Unità nei primi anni ‘60 in piena crescita economica.
Ma prendersela oggi con simili concezioni – pur se ancora presenti in alcuni ambiti – sarebbe come sparare sulla Croce rossa.
E’ invece più utile soffermarsi su un passaggio storico, a mio avviso avvenuto tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 (ma ovviamente queste date possono essere opinabili), che sembra sfuggire del tutto a La Grassa. Il passaggio – tralascio qui le origini storiche di questo processo, del resto intuibili – è questo: se fino a quel momento esisteva realmente un rapporto tra crescita quantitativa e sviluppo inteso in senso ampio, da allora questo legame si è progressivamente rotto. Detto nei termini della percezione popolare, che non sarà scientifica in assoluto, ma che spesso lo è di più del sapere degli economisti di mestiere: se fino a quel momento la crescita economica determinava effettivamente un miglioramento delle condizioni generali di vita, pur in presenza di enormi ingiustizie, da allora la crescita, che pure non si è fermata, ha cominciato ad esser cosa per pochi, una statistica per governanti, banchieri e tecnocrati.
Se prima la crescita aveva significato anche istruzione di massa, un sistema sanitario migliore, la certezza di una vecchiaia più sicura; dopo, all’esigenza della “crescita” è stato sacrificato tutto: il sistema pensionistico è stato distrutto, l’istruzione pubblica ampiamente devastata, così come la sanità, mentre la precarietà assoluta è diventata la norma del rapporto di lavoro. Insomma, oggi la coppia crescita-sviluppo non funziona più se non nella propaganda delle classi dominanti, e quello che ancora viene chiamato “sviluppo” non significa affatto miglioramento della qualità della vita per la maggioranza delle persone.
E’ noto che questi fenomeni sono stati generali, hanno investito tutto l’occidente, e dunque hanno un valore epocale con il quale deve misurarsi ogni teoria che pretenda di dire qualcosa di sensato sul futuro.
E questo è il primo punto debole del ragionamento di La Grassa. Un punto semplicemente omesso, tanto i dominati non contano.
E’ altresì noto che (ovviamente in altri termini) un analogo processo di crescente disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza ha investito negli ultimi decenni il rapporto tra l’occidente e quello che convenzionalmente chiamiamo “Terzo mondo”. Ma anche di questo non c’è traccia nelle riflessioni sulla “Terza Forza”.
Oggi viviamo tempi bui e non sappiamo quando finirà, ma come non vedere che è proprio in questa contraddizione tra l’imperativo della crescita economica come elemento sovraordinante l’intera società e la crescente disuguaglianza che parallelamente si afferma che dobbiamo ricercare la molla di un nuovo movimento rivoluzionario?
Ma c’è un secondo punto debole, altrettanto importante, nelle argomentazioni di La Grassa. Ed è la negazione, pressoché totale, dell’emergenza ambientale. Questa negazione è comprensibile, perché in effetti non può esservi cura efficace che sia compatibile con il dogma della “crescita”. Dunque, meglio negare il male per non dover discutere la terapia.
Questo modo di procedere si fonda sulla certezza assoluta della capacità della scienza e della tecnica di risolvere ogni problema dato. E’ questo un credo religioso particolarmente radicato ed inamovibile. Non mi illudo perciò di scuoterlo più di tanto, ma domandiamoci quanto sia effettivamente fondato.
Partiamo da un dato: per la prima volta nella storia dell’umanità lo “sviluppo” impresso all’economia ed alla società dal modo di produzione che la conforma (quello capitalistico) sta mettendo in discussione le stesse condizioni naturali della vita. Questa tesi, espressa ovviamente in altri termini più “neutrali”, non è stata elaborata da un gruppo di hippies in qualche agriturismo alla moda, ma proviene dallo stesso ambiente scientifico che secondo La Grassa avrebbe certamente la capacità di risolvere il problema posto.
Spero dunque che si possa essere d’accordo sull’esistenza e sulla portata della questione. Ma se dalla diagnosi passiamo alla terapia ci accorgiamo dell’immane sproporzione, dell’impressionante incapacità (in realtà, impossibilità) di affrontare il problema. E’ così che, ad esempio, la montagna dell’ “effetto serra” partorisce il topolino di Kyoto, peraltro largamente inapplicato.
Le “cure” del pianeta, di un organismo malato dalla testa ai piedi, che richiederebbero ben altro approccio, vengono in questo modo affidate ai vari specialismi nella speranza che da qualche parte scappi fuori la soluzione magica che consenta di continuare a produrre-consumare-sprecare-crescere all’infinito.
C’è un dato di fatto: ad oggi questa magia non è uscita fuori da alcun alambicco. Accadrà domani? C’è da dubitarne, ma intanto stiamo ai fatti. Limitiamoci al tema dell’effetto serra, con le mutazioni climatiche correlate, una questione che rimanda al problema energetico, che a sua volta contiene quello dell’esaurimento delle risorse.
Più di mezzo secolo fa la comunità scientifica internazionale ritenne di essere venuta a capo del problema grazie al nucleare da fusione, ritenuto più efficiente ma anche più realizzabile di quello da fissione. Tanto tempo è passato e la fusione è di là da venire, mentre il suo massimo sostenitore italiano, il nobel Rubbia, si accontenta ora di fare soldi con pentoloni solari riscaldati con i “rivoluzionari” specchi di Archimede…
Ma nel 1989 il mondo venne travolto da decine di scienziati che, quasi simultaneamente in ogni angolo del pianeta, annunciarono l’incredibile magia: la fusione fredda era cosa fatta e pronta all’uso. Dopo quasi vent’anni ne abbiamo più notizia? Chissà perché….
Da alcuni anni la nuova magia si chiama idrogeno. Molti si chiedono perché non sfondi (tutti sappiamo quanto è rapido il capitalismo quando c’è il business), pochissimi invece sanno che l’idrogeno non è una fonte di energia, ma solo un vettore ad oggi peraltro assai poco efficiente.
E nel frattempo? Nel frattempo, mentre attendiamo altre magie, il mondo brucia sempre più combustibili fossili, emette inquinanti ed aumenta l’effetto serra. Questa è la situazione, questi sono i termini del problema: perché girarci attorno? Un simile comportamento è comprensibile se assunto dagli ideologi del capitalismo come “migliore dei mondi possibili”, diventa assurdo e incomprensibile se sposato da chi vorrebbe guardare alla trasformazione sociale, per quanto la si voglia lontana nel tempo.
Abbiamo detto che per la prima volta nella storia dell’umanità lo sviluppo (capitalistico) sta mettendo in discussione le stesse condizioni naturali in cui si è sviluppata la vita: come è possibile non rendersi conto che questo è il più grave capo di imputazione che dobbiamo attribuire al capitalismo? Come è possibile non vedere che questa è la prova del suo fallimento e della sua pericolosità per il genere umano?
Certo, non dobbiamo aver paura né della tecnica, né della scienza, ma guai ad affidare il futuro alle “meraviglie” che scienza e tecnica (capitalistiche) di certo sforneranno, mandando in pensione anticipata ogni altra forma di pensiero, divenuta palesemente inutile ed obsoleta data questa capacità della tecnoscienza di risolvere ogni problema. Ma, al di là di tutto ciò, questa capacità esiste davvero? Anche qui si aprirebbe un lungo discorso che non possiamo affrontare, ma alcuni esempi possono bastare.
Abbiamo già detto delle “magie” energetiche sempre rimandate in avanti, ma che dire della cura dell’Aids? Nella prima metà degli anni ’80 si annunciava il vaccino entro 5 anni. Sembravano tempi lunghissimi, ma sono passati oltre 20 anni ed il vaccino non c’è, di Aids si muore più di prima, interi paesi dell’Africa australe ne sono decimati, ma non se ne parla quasi più. Come noto, invece, le cure per i tumori sono migliorate sensibilmente. C’è solo un problema: allo stesso tempo anche il
numero dei tumori è aumenatto fortemente a causa dell’inquinamento crescente. Un inquinamento dell’aria, dell’acqua, del suolo e degli alimenti che peggiora di continuo, frutto di uno “sviluppo” che scienza e tecnica (capitalistiche) da un lato promuovono e dall’altro inseguono nel tentativo di limitarne, senza successo, i danni ambientali.
E infine un esempio che non riguarda solo scienza e tecnica, ma che ha certamente a che fare con il concetto di sviluppo: chi di noi negli anni ’70 avrebbe pensato che 30 anni dopo il fenomeno della fame nel mondo, da tutti a parole esecrato, si sarebbe presentato negli stessi termini di allora?
6. Conclusioni
Si sarà capito il totale disaccordo con le tesi di La Grassa. Disaccordo profondo sulle varie questioni toccate, disaccordo profondo sulle prospettive delineate nel suo scritto sulla “Terza Forza” e su numerosi altri scritti recenti sempre ruotanti sui concetti-cardine che qui abbiamo discusso.
La disamina dello scontro tra i dominanti (un tempo si sarebbe detto scontro intercapitalistico e/o interimperialistico) è certamente interessante, ma da sola non porta da nessuna parte. Come La Grassa abbiamo da tempo abbandonato i miti del “soggetto sociale della trasformazione”, della “centralità operaia”, eccetera. Ma pensare di poter costruire una prospettiva rivoluzionaria solo cercando di individuare la possibile “finestra” che i dominanti lasceranno aperta in un momento di crisi e di scontro particolarmente acuto è come minimo del tutto insufficiente. Pensare addirittura di poterne condizionare a distanza i movimenti che porteranno a quell’apertura è del tutto illusorio. Pensare di farlo senza esaminare nel contempo le dinamiche dell’altra faccia del mondo e della società, quella largamente maggioritaria su scala globale e comunque molto ampia anche in occidente – i dominati nel linguaggio di La Grassa – è assurdo.
Per fortuna, non i soli dominanti fanno la storia. Se così fosse non solo il comunismo non avrebbe più senso alcuno, ma priva di senso sarebbe qualsiasi discussione su un futuro diverso dal presente. La questione dello sviluppo, toccata nella parte finale, meriterebbe certo un ben diverso approfondimento, ma spero che l’essenziale sia risultato chiaro. E l’essenziale è che lo sviluppo capitalistico sta minando le condizioni di base per la riproduzione della vita e che il capitalismo nelle sue varie articolazioni è incapace di affrontare questa sfida per la banale ragione che è semplicemente impossibile farlo se non si mette in discussione il dogma della crescita.
E’ naturale: il capitalismo non può negare se stesso. Ma se noi, invece, il capitalismo lo vogliamo contestare sul serio, premessa ineliminabile di qualsivoglia ipotesi rivoluzionaria, questo dogma lo dobbiamo semplicemente disintegrare.