SULL’INTERVISTA A DE BENOIST di F. D'Attanasio
Non conosco bene De Benoist, mi è capitato spesso di leggere suoi articoli ma non ho letto mai approfonditamente un suo scritto che potesse minimamente raccogliere e sintetizzare i punti salienti del suo pensiero; quindi va da sé che le mie considerazioni a riguardo saranno alquanto approssimative. Chiaramente non riesco ad essere d’accordo con le tesi della decrescita che tanta fortuna stanno avendo presso diversi pensatori ma che si stanno diffondendo parecchio anche tra le persone comuni ed i movimenti antisistema. Il motivo fondamentalmente è questo: le tesi della decrescita poggiano su aspetti che secondo i sostenitori di esse sarebbero certezze oramai incontestabili, vale a dire i limiti prevalentemente di carattere naturale (scarsità delle risorse, aumento demografico, inquinamento ecc..) che costituirebbero praticamente una barriera contro la quale la società umana, con questo tipo di sviluppo, andrebbe a collidere con conseguenze disastrose. In questa certezza non mi sembra di scorgere niente di scientifico dato che il concetto di limite se non viene quantificato non ha nessuna rilevanza significativa; non riuscendo a quantificarlo non sappiamo né se effettivamente esista e né soprattutto, nel caso dovesse realmente esistere, quando (in termini temporali) potrà far sentire i suoi effetti. Inoltre si tende a ragionare, in questo ambito, come se le varie problematiche, quali appunto scarsità delle risorse, inquinamento ecc.. dovessero manifestare ognuno gli effetti più deleteri contemporaneamente, come se al fondo di tutto risiedesse una sorta di sincronismo, di sviluppo ineluttabile verso la catastrofe del pianeta. Così come personalmente mi rifiuto di pensare che in un modo o nell’altro il capitalismo dovrà trasformarsi in qualcosa di diverso e migliore (in termini di organizzazione sociale), allo stesso modo mi rifiuto di pensare che stiamo sicuramente sprofondando verso l’abisso. Marx spesso elogiava il modo di produzione capitalistico in quanto esso costituiva un ulteriore stadio dello sviluppo delle società umane, considerandolo una sorta di “anticamera” del socialismo e quindi del comunismo, alla base comunque di una forma di organizzazione sociale che aveva dissolto gli antichi legami feudali, liberando la maggior parte degli uomini dominati da veri e propri rapporti di dipendenza personale dai propri signori; la mia sensazione è che lo stesso Marx considerava i rapporti capitalistici in sé, complessivamente migliori di quelli dalle cui ceneri si erano prodotti, come se al fondo del divenire della realtà e concretezza delle relazioni sociali in cui gli uomini vivono, vigesse una sorta di logica immanente verso la totale liberazione degli uomini stessi da ogni forma di schiavitù, costrizione e bisogno. Ora sinceramente non mi sento di condividere affatto questa visione di Marx, non penso che i rapporti capitalistici siano migliori di quelli feudali, non penso affatto che complessivamente il capitalismo abbia portato gli uomini ad essere più felici ed a vivere più in armonia sia fra di loro che con il resto della natura, sicuramente uno degli aspetti che contraddistingue in maniera peculiare questa realtà sociale rispetto alle precedenti è l’enorme ed impetuoso sviluppo materiale, tecnologico e scientifico. Quindi non vedo nessun processo storico di sviluppo ineluttabile né in una direzione né nell’altra, certo rimane lo schifo che molti di noi, me compreso, provano ogni giorno di fronte alla sopraffazione e all’ingiustizia, ma non si può trasformare, trasponendo, questo nostro sentimento in una verità inscritta nelle dinamiche sociali, il tutto volto quasi ad una forma di auto-consolazione attraverso l’uso migliore (presunto) della ragione. Marx, c’è comunque da dire, riuscì a mettere da parte, a neutralizzare in parte questo atteggiamento elaborando una teoria che astraeva da ogni buon proposito umano, da ogni comunque giusta aspirazione umana, facendo uso di categorie astratte; tutto ciò gli permise sia di non abbandonarsi al catastrofismo evitando così di “predicare” diverse modalità e forme di sviluppo come assolutamente urgenti e sia di distaccarsi dai socialisti utopisti, prefigurando così un certo sviluppo del modo di produzione capitalistico che in sé, in virtù delle sue stesse contraddizioni, avrebbe prodotto le condizioni di possibilità (in termini economici e sociali) del suo superamento. Bisogna abbandonare un certo atteggiamento che è più da testimoni di Geova che da studiosi della società, avvicinarsi di più al metodo insegnatoci da Marx e ripreso comunque da tanti altri studiosi, e tengo a sottolineare metodo il che vuol dire che se anche questo può essere ancora considerato utile, non si può dire altrettanto dell’impianto teorico complessivo marxiano che da esso ne è scaturito, il quale alla luce degli avvenimenti storici possiamo dire debba essere rivisto in molte sue parti. Mi sembrano molto più convincenti le novità introdotte da La Grassa quando propone di spostare l’angolo di visuale dal conflitto capitale-lavoro al conflitto intercapitalistico, anch’io personalmente sono convinto che le lotte dei dominati siano assolutamente subordinate (e quindi non decisive a riguardo delle trasformazioni sociali più determinanti) a quelle tra le varie fazioni dei gruppi dominanti. Quindi diventa decisivo capire anche l’articolazione a livello internazionale dei vari poteri che confliggono per la supremazia, e non si può non vedere come la potenza americana seppure ancora predominante su scala mondiale inizia ad essere fortemente in affanno grazie alla decise politiche strategiche messe in atto da nazioni che hanno tutto l’intento di consolidare e rafforzare la loro appena iniziata fase di ascesa al ruolo di vere e proprie potenze non più marginali sullo scenario internazionale; questa la realtà sacrosanta, se vogliamo continuare a cianciare di comunismo o di altri modelli socio-economici da promuovere e contrapporre a quelli incarnati dagli USA, allora ci ritroveremo, sono sicuro, fra un futuro non molto lontano, a vivere in condizioni peggiori delle attuali con il pericolo che il popolo auspichi, magari alla fine appoggi pure, qualche forza politica che perseguirà obiettivi dai risvolti che potranno, per la stragrande maggioranza del popolo stesso, essere ancor più difficili e dolorosi.
Altresì non vedo come si possa continuare a parlare di globalizzazione o, peggio ancora, di fine o forte ridimensionamento del ruolo degli stati; possibile che non si capisca che ciò può essere vero in Europa in quanto essa si ritrova classi politiche dirigenti completamente asservite agli USA, ma non è vero per esempio in Russia o Cina? In questi paesi è vero esattamente il contrario, è la sfera politica che pervade il tutto in maniera determinante e che svolge un ruolo affatto secondario rispetto alle istanze economiche e finanziarie, allora sarà forse il caso anche di iniziare a studiare queste formazioni sociali che hanno penso delle caratteristiche peculiari proprie che non si possono così facilmente accomunare a quelle americane, e che rispetto a queste non si pongono in maniera passiva e servile anzi portano avanti il proprio sviluppo in piena autonomia. E mi sembra assolutamente fuori luogo oltre che profondamente ingiusto, avere la pretesa di far capire a questi popoli che lentamente sembra stiano uscendo da uno stato di grande povertà e marginalità dal contesto internazionale, che quel modello di sviluppo che stanno intraprendendo e grazie al quale stanno raggiungendo risultati apprezzabili sotto diversi punti di vista, non è buono ma che porterà alla catastrofe planetaria; noi cosiddetti “occidentali” che beatamente viviamo dei frutti di questo modello già da diversi decenni, dovremmo scrollarci di dosso un po’ di ipocrisia ed egoismo e riconoscere il diritto ad altri di perseguire gli stessi obiettivi in termini di benessere materiale e tenore complessivo di vita.
E su Marx, in relazione alla risposta numero 7 di Benoist, mi permetto di dire che trovo la sua una interpretazione alquanto originale: non so come e da quali scritti del pensatore di Treviri si possa dedurre la nozione di sistema capitalistico antropologico, questi parlava di feticismo in relazione ai rapporti sociali di produzione e non in generale, e comunque c’è da rilevare che a mio avviso non è certo questo il concetto centrale del suo pensiero, non è dalla teoria del feticismo che fa discendere direttamente le cause del dissolvimento del sistema dei rapporti sociali capitalistici; inoltre ciò che è merce in Marx non è l’uomo in toto ma la sua forza lavoro. Sulla questione del lavoro Marx auspicava la liberazione dal lavoro salariato e non certo liberare il lavoro in quanto esso doveva essere imbrigliato il più possibile in norme e leggi favorevoli alla classe operaia finché vigesse il regime capitalistico; chiaramente ben vengano sviluppi diversi a partire dal suo pensiero (che comunque chiunque può ritenere più o meno condivisibili) però non facciamogli dire cose che, a mio modesto avviso, non ha mai dette.
21 Febbraio